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MONITOR


gio 2 maggio 2019

La Rete non è libera

Durante l'arresto di Julian Assange, molti commentatori hanno scritto che oggi la Rete è diventata più libera rispetto al 2010, quando WikiLeaks comincia a rendere pubblici centinaia di migliaia di documenti riservati. Possiamo illuderci che sia così, ma non è vero.

Durante l’arresto di Julian Assange, una vergogna giudiziaria e politica al di là dell’opinione che si può avere sulla sua persona, molti commentatori hanno scritto che oggi la Rete è diventata più libera rispetto al 2010, quando WikiLeaks comincia a rendere pubblici centinaia di migliaia di documenti riservati.
Una delle tesi più diffuse è che i social network sono a loro modo costruiti dal basso, dalle interazioni tra gli utenti. Le bacheche permettono quindi una libertà di espressione e una capacità di diffusione del pensiero, o anche di documenti, sempre maggiore. Una libertà sconosciuta agli albori di internet.
Ok, prendiamo un attimo per buona questa deriva tecno-entusiasta.
Fingiamo di ignorare che i social network sono incessantemente al lavoro per estrarre valore dalle nostre vite, ovvero per raccogliere i nostri dati, immagazzinarli, confrontarli e poi rivenderli alle agenzie di marketing che ci restituiscono pubblicità sempre più targettizzate.
Oppure per rivenderli a eserciti e polizie, pubblici e privati, di stati democratici o di dittature, tutti impegnati nella costruzione del più imponente sistema di sorveglianza della storia: il panottico digitale dove ciascuno è sorvegliante di se stesso.
Cambridge Analytica è stata solo la punta dell’iceberg di una trama ben più complessa e pervasiva. Non sono solo Google o Facebook. È Amazon. È Uber. È Angry Birds. È il surveillance capitalism, fondato sull’estrazione dei dati personali.
Fingiamo di ignorare anche che questi dati personali sono rivenduti alle multinazionali che si dedicano allo sviluppo dell’intelligenza artificiale: il fulcro e nuovo alfabeto del capitalismo estrattivo. Sarebbe assurdo, come discutere di colonialismo premettendo che non ci occuperemo dell’estrazione di materie prime nei territori soggiogati. Ok, ma andiamo avanti lo stesso.
Fingiamo di ignorare anche che il sistema di gratifica e punizione messo in atto dalle notifiche è devastante da un punto di vista psichico, e arriva addirittura a modificare le capacità affettive ed emotive degli utenti in Rete.
Bene, abbiamo finto che tutto questo non accade, e dunque le bacheche dei social network sono veramente un luogo di libertà? Se utilizzate nella maniera giusta, possono portare a cambiamenti positivi per le sorti dell’umanità? La risposta è no: i social network lavorano al mantenimento dello status quo.
Lo dimostra, da ultimo, una ricerca empirica della Northeastern e della Cornell University. Il team di studenti supervisionati dai professori Muhammad Ali e Piotr Sapiezynski ha messo su Facebook una serie di pubblicità a pagamento dove offrivano dei lavori o delle proprietà immobiliari. Queste inserzioni erano pressoché uguali alle solite che si vedono, se non che differivano per piccoli particolari, a partire dal compenso lavorativo o dal budget necessario per l’acquisto della casa, fino al tipo di fotografia o di parole usate per lo stesso annuncio.
La risposta è stata che il machine learning di Facebook, il famoso algoritmo, ha deciso che gli annunci riguardanti insegnanti o segretarie dovevano essere rivolti a donne mentre quelli per tassisti o bidelli agli uomini. Allo stesso modo le case in vendita erano riservate ad utenti di pelle bianca, quelle in affitto a utenti di pelle nera.
L’algoritmo di Facebook ha quindi lavorato per confermare tutti gli stereotipi di razza, censo e sesso che rendono la nostra società ingiusta e diseguale.
Anche perché, come spiegano a Intercept, gli autori della ricerca si sono focalizzati sulla categoria ad delivery e non su quella di ad targeting, ovvero non hanno richiesto loro che le pubblicità fossero rivolte a uno specifico target – maschi bianchi benestanti, giovani appassionati di musica, donne laureate in ingegneria informatica, e così via – ma invece hanno posto solo come premessa che gli annunci si rivolgessero a residenti degli Stati Uniti.
È stato quindi Facebook a decidere, autonomamente, che alcune pubblicità – con il loro carico di produzione esterna del desiderio e delle aspettative individuali e sociali – andassero bene per un sesso, una razza, un ceto sociale e un credo religioso piuttosto che per un altro.
Un portavoce di Facebook ha subito risposto che la multinazionale sta lavorando per risolvere il problema. Ma è una storia vecchia, da sempre l’algoritmo lavora per discriminare o, al meglio, per mantenere attuali le discriminazioni esistenti.
Lo dimostra questo breve recap di New Scientist. O Latanya Sweeney, professore ad Harvard, che già nel 2013 aveva pubblicato un paper in cui si dimostrava la discriminazione razziale insita nelle pubblicità online che apparivano su Google. E sempre restando al gigante di Mountain View, come considerare il fatto che il tanto annunciato Comitato Etico per la gestione dell’Intelligenza Artificiale sia già naufragato dopo solo due settimane di esistenza?
Doveva essere la prova che non ci sarebbero più state discriminazioni, si è rivelato essere la cartina di tornasole dell’impossibilità di pretendere una Rete libera se a gestirla rimangono le multinazionali con una spiccata fede nel neoliberismo.
Una serie di indagini interne condotte dai dipendenti e poi sfociate in aperte manifestazioni di protesta e di sfiducia hanno rivelato che nel fantomatico Comitato (il cui ruolo fondante dovrebbe essere impedire ogni forma di discriminazione) sedevano membri dell’estrema destra creazionista e suprematista americana.
Un autogol clamoroso. La dimostrazione che, come nel 2010, quando WikiLeaks comincia a rendere pubblici i documenti riservati che svelano le atrocità commesse dalla politica e dall’esercito statunitense, anche nel 2019 la Rete non è niente affatto libera.
Non lo sono i social network né i motori di ricerca, tutti tarati attraverso l’algoritmo alla perpetuazione infinita degli stereotipi e delle disuguaglianze. La Rete è uno strumento e la sua funzione, che sia liberatrice o coercitiva, dipende dall’utilizzo che ne viene fatto. Dal come e anche dal chi, certo.
Pensare che la Rete sia di per sé uno spazio democratico, liberatorio e progressista, è la dimostrazione che a furia di vivere nell’acquario non sappiamo più distinguere l’acqua in cui nuotiamo.

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