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mer 14 settembre 2022

la Q e la M

“Q” di Luther Blissett, “M” di Antonio Scurati. Due lettere per titolare altrettanti libri che aprono e chiudono un ventennio. Nel misurare la distanza che li separa è possibile ripercorrere i mutamenti epocali che hanno segnato l’inizio del XXI Secolo, l’evolvere dei modi di narrare, le differenti declinazioni della fiction letteraria in rapporto ai materiali storici e i diversi modi di abitare l’industria culturale.

Era il marzo del 1999 quando nelle librerie italiane faceva irruzione un monumentale romanzo di seicentocinquanta pagine ambientato al tempo delle guerre di religione nell’Europa del Cinquecento. Si intitolava Q. Lo pubblicava la collana Stile libero di Einaudi. E lo firmava Luther Blissett, nome multiplo che raccoglieva sotto le sue insegne anti-identitarie una magmatica galassia di agitatori, artisti, performer, esploratori-pionieri del primo worldwideweb, impegnati in operazioni di sabotaggio mediatico, attività di contro-informazione e interventi di resistenza ludica. Blissett era passato alle cronache di fine secolo per aver organizzato alcune clamorose beffe ai danni degli organi di informazione seminando il panico nelle redazioni di quotidiani, telegiornali e trasmissioni televisive.

Vent’anni dopo o giù di lì, a settembre del 2018, approda in libreria M. Il figlio del secolo, primo volume di un ambizioso ciclo narrativo con cui lo scrittore Antonio Scurati intende ricostruire la storia d’Italia dal 1919 al 1945 attraverso le vicende dei non-morti in camicia nera, ritornanti dalle trincee della prima guerra mondiale, che riuscirono a prendersi Roma.

Due lettere – la quindicesima e l’undicesima dell’alfabeto – per titolare altrettanti libri che aprono e chiudono un ventennio. Nel misurare la distanza che li separa è possibile ripercorrere i mutamenti epocali che hanno segnato l’inizio del XXI Secolo, l’evolvere dei modi di narrare, le differenti declinazioni della fiction letteraria in rapporto ai materiali storici e i diversi modi di abitare l’industria culturale.


La Q e la M

Q sta per Qoèlet, nome del disilluso autore-protagonista di uno dei più complessi libri del Vecchio testamento conosciuto anche come libro dell’Ecclesiaste. Nel romanzo di Blissett, Qoèlet è l’identità fittizia sotto cui agisce, nella Germania incendiata dalla Riforma protestante e dalle rivolte dei contadini contro le autorità temporali e spirituali, una spia al soldo del cardinal Gian Pietro Carafa, prefetto per la Congregazione del Sant’Uffizio e uomo forte dell’Inquisizione.
Q è l’Infiltrato, l’agente provocatore, l’astuto interprete di un disegno reazionario. Agisce nell’ombra al fine di annientare le schiere ribelli informando il suo padrone attraverso dispacci riservati, marcati “altamente confidenziale”, redatti con uno stile che rappresenta uno degli elementi più caratteristici del racconto blissettiano.

A dargli la caccia, nell’arco di trentacinque anni, c’è un eretico dai molti nomi che – da Wittenberg a Venezia, dalla piana di Frankenhausen alla libera città di Münster, da Anversa a Costantinopoli – combatte contro il papato, i principi tedeschi e i banchieri olandesi: insomma, contro i padroni di allora e di sempre.


M, invece, è l’iniziale di Mussolini Benito Amilcare Andrea, nato a Predappio il 29 luglio 1883, maestro elementare e violinista dilettante, militante socialista e direttore de «l’Avanti», leader del fronte interventista nel 1914 e caporale dell’esercito italiano, capo de les revenants e fondatore dei Fasci di combattimento, figlio del secolo e duce del fascismo, uomo della provvidenza – secondo alcuni – e anima nera di una nazione, secondo altri.

In queste due lettere – la Q e la M – sono condensate attitudini narrative diametralmente opposte.

Blissett sceglie quella che è stata definita “prospettiva obliqua”, un punto di vista laterale sugli eventi. L’autore collettivo usa la finzione letteraria liberandola nelle pieghe della Storia per illuminarne i coni d’ombra. Questa poetica è efficacemente riassunta nel celebre incipit del romanzo, che costituisce un ingresso privilegiato per il lettore in un’epoca complessa e in un intreccio che restituisce l’articolata densità delle controversie teologiche del XVI Secolo.
«Sulla prima pagina è scritto: Nell’affresco sono una delle figure di sfondo»: è così che Luther apre le danze. Il rimando a coloro che occupano una posizione defilata, lontana dalla ribalta, chiarisce gli orientamenti di una narrazione che evita il primo piano, scansa l’inquadratura frontale, rifiuta la soggettiva degli attori a cui il copione della Storia sembra aver attribuito il ruolo di protagonisti. Non a caso Blissett compone un voluminoso romanzo sulla Riforma senza mai mettere direttamente in scena colui che infranse l’unità della chiesa in Occidente: il frate agostiniano Martin Lutero.

«Sulla prima pagina è scritto: Nell’affresco sono una delle figure di sfondo»: è così che Luther apre le danze.

Nel rimando alle “figure di sfondo” echeggia il prologo di American Tabloid, primo volume dell’Underworld USA Trilogy di James Ellroy, in cui lo scrittore californiano manifesta l’intenzione di decostruire i miti del kennedismo per edificare un’altra epica: quella, appunto, di uomini che provarono “a definire in segreto il loro tempo”.

Un approccio antitetico ispira Antonio Scurati, anche se a confondere le acque ci pensa l’editore.

Il publishing di Bompiani è muscolare, mascella protesa ai lettori, e fari puntati sul centro del palco a inondare di luce l’ingombrante mole di Benito Amilcare Andrea, uno che non se ne sta in seconda linea. Sulla sovraccoperta bianca spicca un’inconfondibile “M” nera in caratteri littori, destinata a colpire l’occhio dei potenziali acquirenti dai bancali delle librerie come un braccio proteso di scatto accompagnato dall’urlo “Eia eia alalà”. Il sottotitolo lascia poco spazio alla fantasia e ancor meno ai dubbi, ponendo l’accento sul figlio del fabbro di Predappio divenuto duce e adottato come progenie prediletta dal Novecento, il secolo dei massacri su scala industriale. L’interno della sovraccoperta è occupato da un’immagine in bianco e nero che ritrae una folla. Le teste sono inclinate verso l’alto. Il risultato è trasmettere a chi guarda l’illusione di dominare la massa da una posizione elevata: quella di un balcone, per esempio.

Bompiani fa un lavoro spregiudicato, ed egregio. L’editore non si nasconde, mena randellate a destra e a sinistra (più a sinistra che a destra) imponendo la centralità a oltranza di Benito. Gioca d’anticipo sul testo e confeziona un oggetto in cui ogni dettaglio sembra promettere un eccezionale viaggio da incubo, un’esperienza unica, immersiva e totalizzante nella testa di Mussolini.

Da parte sua, anche l’autore sembra stare al gioco. Pronti partenza via, e già dalle righe iniziali le aspettative sembrano soddisfatte. Scrive Scurati: «Affacciamo sulla piazza del Santo Sepolcro. Cento persone scarse, tutti uomini che non contano niente. Siamo pochi e siamo morti. Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire». Boom.

Su trenta parole compare per due volte il pronome “io” a confermare l’idea che siamo proiettati tra sinapsi e neuroni, sogni, incubi e volontà di potenza dell’ineffabile testa di Benito Mussolini. L’autore rifugge la prospettiva obliqua, si prende il centro della scena, opta per la soggettiva del dittatore, anche se comincia con un verbo coniugato alla prima persona plurale: “affacciamo”.

Subito dopo Scurati parafrasa l’apertura di Tropico del cancro. Il «Siamo soli, e siamo morti» di Miller si traduce in «Siamo pochi e siamo morti». Poi, ecco che arriva la prima persona dell’avventuriero senza scrupoli: «Aspettano che io parli ma io non nulla da dire».

Se vent’anni prima avesse adottato la stessa chiave narrativa di M, Blissett avrebbe scritto un libro intitolato L come Lutero e il cui incipit sarebbe potuto suonare più o meno così: «Affiggo tesi sulla porta settentrionale della chiesa di Wittenberg. Siamo molti, e siamo vivi. Siamo studenti, dottori, teologi che libereranno il mondo dagli artigli corrotti di Roma. Siamo la nuova cristianità, i nemici del predicatore domenicano Johann Tetzel, mercante di indulgenze. Aspettano che io parli e io ho tanto da dire».
Questo libro, però, non è mai stato scritto.



L’io disperso

Ma niente è come sembra e a pagina 17 di M le cose cambiano già. Siamo al principio della primavera del 1919, nel primo, vero capitolo del romanzo, e Scurati scrive: «Benito Mussolini esce dal suo ufficio per cenare in trattoria». Così… semplice semplice. Senza colpi a effetto. Con stile basso e colloquiale ai limiti della frugalità.

Della prima persona non c’è più traccia. Per ritrovarla bisognerà aspettare sei anni e ottocentodieci pagine, in un finale circolare, in cui – dopo aver assunto «la responsabilità politica, morale, storica» dell’omicidio dell’onorevole socialista Giacomo Matteotti – il figlio del secolo, ormai proiettato verso il potere assoluto, si ritrova a meditare sull’imperscrutabile meccanica di corsi e ricorsi: «Mi sono giustificato davanti alla storia ma devo ammettere: è struggente la cecità della vita riguardo a se stessa. Alla fine si torna all’inizio. Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io».

E il pronome di prima persona, ultima parola del libro, tronca il racconto come una rasoiata. La spiegazione di queste scelte è data dallo stesso Scurati in un’intervista: «Io, per preoccupazione etica, mi ero imposto la terza persona, un certo tipo di terza persona. Invece poi scrivendo – perché la scrittura deve sempre oltrepassare le proprie premesse, se no è un esercizio di stile – Lui (lui il personaggio, non lui Benito Mussolini), come a volte spesso accade nei romanzi, ha preso la parola e mi ha costretto ad adottare la prima persona».

Il pronome di prima persona, ultima parola del libro, tronca il racconto come una rasoiata.

Al di là delle intenzioni dello scrittore e delle legittime pretese del personaggio, il risultato è spiazzante. Al riparo della cortina di un publishing scientificamente basato sulla reductio ad unum – anzi, sulla reductio ad ducem – e dietro a un uso della soggettiva limitato allo 0,3 per cento del volume, Scurati compone un romanzo corale in terza persona.

Lo scrittore lavora sul montaggio e sull’incastro dei punti di vista, alterna le linee narrative dei vari personaggi e titola ogni capitolo col nome di colui o colei a cui esso è dedicato.

Dalle pagine di M emerge una schiera di figure coinvolte a vario titolo nell’ascesa del fascismo: da Amerigo Dùmini detto “Sette delitti”, élite dell’élite assassina in camicia nera e sicario di Matteotti, alla straordinaria Margherita Sarfatti, amante, musa e ispiratrice del Capo; da Gabriele D’Annunzio coi suoi ardimenti fiumani ai tentennamenti di Nicola Bombacci; da Italo Balbo a Leonardo Arpinati. Ma c’è spazio anche per le controscene nel campo “avverso”, per restituire a tutto tondo l’“antagonista”: Giacomo Matteotti, il socialista impellicciato, come lo chiamano con disprezzo i nuovi padroni dell’Italia, l’unico a levare la voce contro le malversazioni del regime in ascesa e la dittatura incombente.

All’orgoglio, alla fierezza, a volte perfino all’euforia adrenalinica del martire socialista fanno spesso da contrappunto la malinconia e la sofferenza della moglie Velia, costretta a crescere due figli da sola, lontana dal marito. Scurati non smarrisce mai il filo dell’approfondimento psicologico, della dinamica sentimentale, dell’evoluzione drammatica, e non infarcisce le sue pagine di semplici comparse o piatte silhouette. Con dei personaggi storici in punta di penna ottiene effetti paragonabili – per intensità – a quelli di un romanzo di fiction. Può piacere o meno, ma la resa non è in discussione.

In M. L’uomo della provvidenza, secondo volume del ciclo narrativo, la coralità cresce, spingendosi fuori dall’Europa, rompendo i confini nazionali e trasferendo il racconto sulla “quarta sponda”, in Libia, laddove dal 1911 tremolano all’orizzonte i miraggi del colonialismo italiano. Le vicende di Rodolfo Graziani, Emilio De Bono e Pietro Badoglio sospingono il racconto letteralmente ai confini del mondo, nelle distese infinite del deserto, dove opera l’indomita guerriglia senussita capeggiata dall’imprendibile Omar al-Mukhtar.
Questa tendenza a moltiplicare i luoghi e a globalizzare lo spazio aumenta man mano che il racconto si misura con le esigenze di politica estera del Partito fascista divenuto Stato, con l’avvento del nazismo in Germania e l’intensificarsi delle tensioni internazionali destinate a scatenare il secondo conflitto mondiale.
In M2 la linea narrativa del figlio di Costanzo Ciano, Galeazzo, artista fallito pronto a ripiegare sulla carriera diplomatica, regala già scorci sudamericani e lascive visioni dall’estremo Oriente.

Due decenni prima, Blissett aveva scelto e fatto altro. In Q la dimensione collettiva passa sempre attraverso una prima persona rigorosissima, inscalfibile, caratterizzata da una voce unica e da uno stile paratattico, telegrafico, talmente scarnificato da presentare spesso frasi nominali senza predicato verbale. Ad agire in presa diretta o a raccontare eventi trascorsi in veste di narratore interno è l’Eretico dai molti nomi.

La time line è spezzata: la storia comincia dalla fine, per poi tornare indietro. Il protagonista viaggia nello spazio, nella Germania su cui infuria la repressione congiunta di principi luterani e papisti, ma viaggia anche nel passato. La detection è prima di tutto immersione nella memoria, confronto con i ricordi, esame degli errori. Autocritica serrata, e spietata.
In generale, il Ribelle ricostruisce i fatti da un luogo e da uno spazio estremi: da Costantinopoli, ormai fuori dall’Europa, nell’anno 1555. Da questo estremo limite geografico e temporale, nella piena consapevolezza di ciò che è stato, riavvolge il nastro.

Una simile consapevolezza manca al Mussolini di M. Scurati scrive in modo lineare, allineando i fatti anno dopo anno. Il capo dei manipoli ignora il corso degli eventi, al massimo intuisce o pronostica. A volte lo scrittore gioca con questo scarto percettivo tra Mussolini e i lettori. I secondi sanno come è andata, il primo no. Così l’autore si concede delle gustose deviazioni, come quando spedisce Benito a tirarsi su il morale presso certe signorine cinesi che esercitano dalle parti di piazzale Loreto. Bel paradosso per uno che, proprio in quel luogo, circa venticinque anni dopo, verrà appeso a testa in giù.


Moltitudine e popolo

L’io narrante di Gert dal Pozzo – è questo uno dei tanti nomi del protagonista di Q – esprime un’identità condividuale, impermeabile sotto il profillo linguistico, aliena alla pluralità di idiomi e registri, ma in sostanza apertissima. L’arco narrativo del personaggio è stato concepito mettendo insieme le esistenze di vari eretici desunte dalle fonti. Ma Gert non vive tante vite solo nel romanzo. Intercettando l’archetipo del folk hero, l’eroe popolare che opera nelle storie e nella fantasia dei più, proietta la sua ombra nei secoli a venire. Vive nell’internazionalismo e nel nomadismo rivoluzionario, nelle sconfitte, nelle fughe e nelle ripartenze, negli esili, nelle nuove cospirazioni e nelle prossime insurrezioni. Tutti – in fondo – possiamo essere Gert dal Pozzo. Così come tutti possiamo essere Luther Blissett.

“Todos somos Marcos” recitava un fortunato slogan zapatista che faceva del travisamento dei tratti somatici la premessa per la costruzione – e la circolazione – di un simbolo aperto. È grazie alla replicabilità di simboli e miti che gli uomini diventano ubiqui e l’estensione della lotta viene alimentata.

Tutti – in fondo – possiamo essere Gert dal Pozzo. Così come tutti possiamo essere Luther Blissett.

Gert è l’eroe moltitudinario per antonomasia. Uscito pochi mesi prima della cosiddetta battaglia di Seattle, la contestazione che, nel dicembre del 1999, mobilitò cinquantamila persone contro la conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio, il romanzo blissettiano anticipa un ciclo di conflitti: la stagione degli assedi alle istituzioni sovranazionali e della contestazione alla globalizzazione neoliberista. Luther è in anticipo, la sua narrazione risulta prefigurante, e così a Q è stato conferito un valore quasi visionario.


In M accade il contrario. La coralità narrativa si risolve sempre e comunque nella figura di Mussolini, punto di fuga che raccoglie per amore o per odio, prima per amore poi per odio, gli sguardi degli altri personaggi e dei lettori. Poco importa che queste occhiate si allunghino dal buco di una serratura, per spiare l’irrefrenabile attività sessuale del dittatore, o dal mirino di un fucile di precisione per porre fine alla sua storia di usurpazione. Poco importa che convergano su Roma dalle cancellerie di mezzo mondo o che da ogni parte d’Italia si appuntino – adoranti – sull’uomo forte del fascismo. Tutti gli occhi sono puntati su piazza Venezia.

L’ingorda, invadente centralità del duce cattura e riduce a sé anche Quintino Navarra, re delle “figure di sfondo”, maestro di cerimonie che precede il duce davanti alla folla, affacciandosi per primo al balcone d’angolo tra via del Corso e piazza Colonna, prima di rinculare in un angolo della sala, al suo posto. “E il suo posto” – scrive Scurati parlando con lingua blissettiana e componendo una mirabile definizione della prospettiva obliqua – è “il cono d’ombra di anditi nascosti”.

Se Luther avesse scritto M, avrebbe dovuto scrivere L. Se Scurati avesse scritto Q in forma di non fiction novel, avrebbe potuto conservare la medesima lettera per titolare il suo romanzo: l’iniziale del nome “Quintino”.

In M c’è una compiuta rappresentazione dell’(anti)eroe populista, del leader carismatico che offre alle masse un’immagine in cui riconoscersi e attraverso cui unificarsi, alimentando un’epica nera, e in nero, di zombie non-morti ritornanti, “un’epopea postuma, crepuscolare, apocalittica” che – dal punto di vista dell’ispirazione – deve molto alla serie tv Game of Thrones.

La differenza è radicale: se da una parte tutti possiamo essere Gert, come tutti potevamo essere Blissett, dall’altra Mussolini è tutto ed è ovunque nello stesso momento. L’ubiquità del simbolo aperto, del mito di lotta, si ribalta in un riflesso osceno: la macchina propagandistica del regime proietta l’ologramma di Benito in ogni angolo d’Italia. Lui è dappertutto come mostra un celebre filmato dell’Istituto Luce che mette in scena l’incontro tra un ignaro cantoniere e un viaggiatore alla guida di un’Alfa Romeo. La conversazione surreale tra i due verte sul passaggio del treno di Mussolini finché il guidatore dell’Alfa non si rivela al casellante. È Lui, è il duce. Quindi, l’uomo della provvidenza si mostra ligio alle regole: aspetterà pazientemente come tutti, come ogni bravo italiano, il passaggio del treno.

Il corpo di Benito Amilcare Andrea è trasfigurato, ormai provvisto di un’ubiquità diametralmente opposta a quella di cui gode il folk hero.

La differenza è radicale: se da una parte tutti possiamo essere Blissett, dall’altra Mussolini è tutto ed è ovunque.

Scurati punta sulla fase conclusiva dei processi, su una tempistica ultima. O se non punta intenzionalmente, sfrutta oggettivamente alcune circostanze. Il romanzo, infatti, esce alla fine dell’estate del 2018, quando la congiuntura definita “momento populista” trova in Italia uno dei suoi compimenti con la formazione della maggioranza parlamentare “gialloverde” composta dai vincitori delle elezioni politiche del 4 marzo: il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e la Lega di Matteo Salvini.

Se Q anticipa, M ratifica. Se Q precorre, M sancisce. Se Q inaugura cicli, M chiude fasi. Se il Multiplo accorda cittadinanza a un’identità cangiante e metamorfica, Scurati afferma una sintesi identitaria che garantisce la falsa totalità di un popolo. Del popolo.

Il paragone tra i due romanzi esprime un radicale mutamento dei rapporti di forza consumato a partire dalla metà degli anni Zero allorché la sconfitta delle mobilitazioni alter-globaliste apre il campo all’avanzare impetuoso del movimento grillino capace di inglobare e ruminare istanze critiche per poi vomitarle in una versione distorta, impazzita, allucinata. Si pensi – tra i tanti esempi possibili – alla parola d’ordine del reddito di cittadinanza o alle pratiche della democrazia diretta.

Raccontando le spericolate evoluzioni di Mussolini in bilico tra “destra” e “sinistra”, tra le esigenze d’ordine degli agrari e i miti del sovversivismo dei manipoli, Scurati compone una precisa fenomenologia delle retoriche Ni droite, ni gauche: «Ci vuole un sortilegio ipnotico che consenta di fare e disfare, di affermare un’idea e il suo opposto, di convincersi coscientemente della veridicità di qualcosa pur sapendone inconsciamente la falsità, soprattutto bisogna poter dimenticare e dimenticare di aver dimenticato. Ci vuole, insomma, un bipensiero».


Via dalla fiction

Il ciclo di M può essere collocato nella tendenza che in Italia, da quindici anni a questa parte, ispira l’esplorazione di ambiti narrativi non di finzione.
Il fronte più avanzato di questa ricerca sperimentale coincide con una radicale ibridazione di molteplici chiavi espressive e differenti tipologie testuali (dalla biografia al reportage, dal saggio al memoir, al diario), con forme di racconto contaminate e contaminanti che gli stessi autori di Q – nel frattempo divenuti Wu Ming – hanno messo in campo e chiamato “oggettivi narrativi non identificati”.
In alcuni casi, questi ibridi fanno un uso massiccio di materiale documentario che figura nel testo stesso.

Inoltre, capita che l’autore renda conto delle scelte di poetica, esplicitando i dubbi con cui si è misurato e le ragioni che lo hanno spinto a compiere determinate scelte. La ricerca e il metodo diventano parti essenziali del racconto. Così, la riflessione sulle tecniche si trasforma in una componente imprescindibile del narrare stesso. Con attitudine alla condivisione, lo scrittore apre la sua officina ai lettori mostrando il proprio sapere pratico.

Se paragonata a questa radicale tendenza combinatoria, la serie di M risulta poco audace, classica, per molti versi conservatrice, saldamente ancorata al campo del novel benché di non fiction.

Per esempio, in M1 e in M2 i documenti non spezzano mai lo sviluppo dell’azione drammatica che conserva sempre un ritmo invidiabile. Le fonti compaiono in coda ai capitoli, come campionatura di citazioni da documenti dell’epoca. Ma queste pagine possono essere saltate senza che venga pregiudicata la comprensione della storia. Se invece si sceglie di leggerle, l’effetto è quello di una piacevole ridondanza, di un “rinforzo” che asseconda il lettore. L’autore, poi, è rigorosamente esterno al testo. Scurati non compare mai in pagina. Non sappiamo niente di come ha lavorato, del modo con cui ha usato le fonti, di come ha scelto di montare le varie scene o articolare le linee narrative.
Questa soluzione tende a preservare la facilità di lettura, una facilità che tiene incollati alle pagine. L’operazione di Scurati è di semplificazione. In un ideale spettro di orientamenti legati alle forme di racconto, M tende a collocarsi “a destra” dell’ibridazione più estrema e “a sinistra” del romanzo di fiction, ponendosi con maestria tattica in una posizione mediana e “di centro”.

Scurati usa solo personaggi storici; ne usa tanti puntando su quella coralità che è diventata un tratto distintivo del racconto seriale multistrand per la tv; lavora insistentemente sul montaggio tagliando di volta in volta le varie linee narrative con degli indovinatissimi cliffhanger. Definisce obiettivi primari e moventi chiarissimi, quasi da romanzo d’appendice: il potere, il sesso, l’ambizione, la gloria, la vendetta; costruisce antagonismi universali e di facile comprensione; compone pagine in cui il “tirante narrativo” non è la domanda “Come andrà a finire?”, bensì l’interrogativo: «Come è possibile che sia andata a finire proprio così?».

La suspense generata da Scurati non ruota intorno a un disvelamento conclusivo o allo scioglimento di un enigma. Tutti sanno che Giacomo Matteotti verrà ucciso o che Mussolini sarà fucilato. Il problema è che a essere ignorata è la catena degli eventi.

Com'è possibile che sia andata a finire proprio così?

Semplicità, linearità, moderazione, tensione, coralità narrativa sono alcuni degli ingredienti che consentono a Scurati di organizzare un racconto trascinante che diventa summa della Controrivoluzione permanente.


Lo Strega e lo Struzzo

Il gioco di analogie e differenze non riguarda solo le scelte narrative, l’uso dell’epica, i miti evocati o la differente mitopoiesi costruita dall’Eretico senza nome e dal duce del fascismo.

I due libri, infatti, incrociano in modi opposti, ma ugualmente significativi, le vicende del premio letterario più importante d’Italia.

Nel 1999, Q entra nella cinquina dello Strega. Blissett decide di giocare la campagna per il Ninfeo di villa Giulia con spirito ludico, dissacrante e conflittuale. «Il premio Strega è più truccato di Sanremo» dichiarerà il Multiplo in un’intervista a «l’Unità» del 30 aprile 1999. Luther irrompe sulla scena per spezzare la cortina di silenzio intorno a meccanismi e rituali di casa Bellonci, costringendo Einaudi ad assecondare la logica corsara e l’attitudine al sabotaggio.

Blissett sfrutta al massimo la posizione di frontiera della collana Stile libero – un ponte ai tempi proteso tra underground e mainstream – per verticalizzare la sua azione e porre contraddizioni.


In occasione di uno degli eventi di avvicinamento allo Strega, tenuto al Salone del libro di Torino, l’invisibilità blissettiana e l’indisponibilità degli autori di Q a salire sul palco, costringerà Ernesto Franco – il direttore editoriale di via Biancamano – a prendere la parola per spiegare le ragioni della defezione. La frase con cui Franco illustra le ragioni dell’assenza dei suoi autori è un perfetto esempio di spirito moltitudinario rilasciato ai vertici del sistema editoriale: “Luther Blissett può essere chiunque, potrebbero essere anche qui tra noi, loro non vengono, loro avvengono”. E in effetti gli autori del romanzo erano presenti in sala…

Vent’anni dopo, la partecipazione di Scurati al premio Strega non ha nulla di ludico e finisce per assumere da subito toni quasi drammatici. Arrivato per ben due volte secondo con uno scarto minimo, l’autore di M è l’eterno sconfitto, il perdente di successo. Ma più del dramma dello scrittore, a colpire è lo psicodramma in casa Einaudi e – per estensione – la tragedia che si compie nel gruppo Mondadori. Nella cinquina dello Strega 2019, infatti, figurano tre autori pubblicati da marchi della principale concentrazione editoriale italiana e addirittura due da via Biancamano: Benedetta Cibrario (Mondadori), Nadia Terranova (Einaudi Stile libero) e il vincitore annunciato – poi risultato sconfitto – Marco Missiroli (Einaudi Torino).

Le settimane che precedono la finale sono segnate da uno scontro silenzioso, ma violentissimo, tra le due anime einaudiane, con la collana romana impegnata a smarcarsi definitivamente dall’etichetta di editore pop per concorrere al principale premio letterario del Paese e la casa-madre di Torino a sudare sette camicie per ottenere una vittoria annunciata e poi clamorosamente mancata.

Il risultato sarà devastante, con il Triplete mondadoriano della semifinale ribaltato – all’ultima votazione – in una catastrofe.

Lo scontro allo Strega del 2019 è il redde rationem di un vecchio contrasto che oppone il blasone editoriale di via Biancamano alla più disinvolta proposta di Stile libero. Un tempo, questa dialettica interna è stato uno degli elementi che ha reso possibile la permeabilità di un pezzo di catalogo, l’apertura di spazi inediti, l’interlocuzione con realtà che provenivano da mondi alieni come quello della militanza politica e controculturale.

Oggi la geografia che ha portato Blissett a conquistare una piazzaforte nel cuore del mainstream editoriale è mutata. Semplicemente: non esiste più. Il gruppo Mondadori naviga al di sotto della posizione nettamente maggioritaria che aveva ai tempi dell’acquisizione del Trade Libri RCS.

La stessa anomalia di Stile libero – dentro Einaudi e nel Gruppo – è ridimensionata, per non dire svanita. Le caratteristiche della collana dalla costa gialla sono ormai molti simili a quelle degli altri editori: spregiudicate operazioni di Varia per far cassa, standardizzazione e reiterazione della proposta di crime fiction, ambizione di riconoscimenti letterari.

Se si vuole una perfetta sintesi del radicale mutamento che ha investito il mainstream editoriale italiano, il premio Strega 2019 offre un’istantanea definitiva col marchio Bompiani che vince la partita sotto tutti i punti di vista: commerciale, di autorevolezza e soprattutto di publishing. E vale la pena ricordare che nel gruppo Giunti-Bompiani c’è quell’Antonio Franchini, signore dello Strega, tessitore di bestseller, scrittore raffinatissimo, autore di libri come L’abusivo e Cronaca della fine che, nel 2015, lascia Segrate dopo ventinove anni.

La piazzaforte un tempo conquistata nel mainstream oggi assomiglia tantissimo a una Fortezza Bastiani da cui fissare l’orizzonte immoto mentre il tempo scorre.


Infine

Il ciclo di Scurati è molto più di un successo editoriale. È una potente macchina narrativa che ri-disloca l’epica sul terreno della scrittura di non fiction; costruisce racconto condiviso nei termini dell’autobiografia di una nazione; raccoglie la sfida di un’età tragica segnata dai mostri del culto statolatrico, della retorica nazional-sovranista, dell’apologia del lavoro.

Fissa la Gorgone della stagione populista negli occhi senza subire l’incanto che pietrifica; trascende i confini della historical fiction per come è stata declinata negli ultimi vent’anni; impone – in modo compiuto e definitivo – la centralità del “romanzo di realtà” in un Paese tradizionalmente dominato dalla finzione romanzesca; movimenta centinaia di migliaia di copie certificando la vitalità di uno spazio editoriale esterno al principale player di mercato; piega a proprio vantaggio le istituzioni culturali; e si prepara a dispiegare una robusta crossmedialità all’altezza della sfida di un tempo dominato da broadcaster e piattaforme di contenuti.

M è una lezione severissima per chi crede alla forza delle buone storie. Una lezione con cui è arrivato il momento di fare i conti.
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