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PROFILI


lun 20 luglio 2020

LA GLOBAL CITY NELL’EPOCA DEL VIRUS. DIALOGO CON GIUSEPPE GENNA, AUTORE DI “REALITY”

In questo prima parte di dialogo, I DIAVOLI si interrogano con Giuseppe Genna, autore del libro “Reality”, su verità troppo a lungo celate e quindi emerse all’improvviso durante la pandemia: sul portato simbolico della città di Milano e sul concetto di global city in generale; sull’importanza della testimonianza, sulla possibilità di tenere accesa la scintilla di una nuova speranza.

Nel suo ultimo libro, Reality (Rizzoli 2020), Giuseppe Genna con sguardo attonito compie un disperato viaggio al termine della pandemia. Un cahier de doléances, un atto d’accusa, un diario della contaminazione epico e lirico in cui si attraversando luoghi e persone devastate da un virus che “c’era già”, ben prima di deflagrare in tutta la sua potenza.

In questa prima parte di dialogo in due atti, i diavoli si interrogano con l’autore su verità troppo a lungo celate e quindi emerse all’improvviso durante la pandemia: sul portato simbolico della città di Milano e sul concetto di global city in generale; sulla possibilità di tenere accesa la scintilla di una nuova speranza.



Giuseppe, chiacchieriamo un poco intorno a Reality, il tuo nuovo libro appena uscito per Rizzoli, un impetuoso viaggio al termine della pandemia che ha devastato l’Italia e il mondo in questi mesi, oltre che un vero e proprio diario della contaminazione, sotto vari aspetti: letterari, politici, poetici e ovviamente sanitari. Nelle nostre discussioni hai sempre definito questa pandemia non tanto un “passaggio epocale” quanto un “passaggio d’epoca”. Cosa vuoi dire e quale è il ruolo che la pandemia esercita sulla vita? Quale impatto ha avuto e avrà sulle arti e sui mestieri di milioni di persone da Wuhan a Los Angeles, da Teheran a Helsinki?

Vedo la questione in modo forse idiosincratico, ma tento di unire punti lontani, per comporre un disegno. Se dovessi fornire un’impressione su quanto stava accadendo alla nostra specie negli ultimi decenni, ricorrerei a una categoria, ormai molto abusata ma effettivamente mai logora, che è quella dell’accelerazione tecnologica e della trasformazione di alcuni parametri essenziali del fenomeno umano, da quelli biologici a quelli psichici a quelli storici e, infine, a quelli spirituali. Interpreto quanto sta accadendo all’umanità come una corsa dalle cose all’umano, per penetrarlo, ma anche dall’umano alle cose, ormai attivate, per fondersi in un tutt’uno che spalancherà immensi orizzonti. Gli algoritmi stavano penetrando, la carne era sospesa, l’attenzione decalava, la distrazione regnava, la libido si azzerava.

Poi la natura, che è la stessa cosa dell’artificio per quanto mi riguarda, ha imposto il dominio della carne, l’esperienza della morte concreta su cui piegarsi, l’attivazione del cadavere e dell’atmosfera. Più fondamentale di tutto ciò è per me il fatto che siamo stati costretti a tornare a credere consapevolmente all’invisibile: il virus non si vede ma ha effetti potenti, in primis l’estinzione di chi cerca di sfuggire alle sue letali restanze virali. L’invisibile è il signore della morte. In questo senso, dobbiamo dire che non è che siamo restati rintanati per due mesi; piuttosto, è come se un meteorite avesse colpito i nostri corpi emotivi e, dunque, anche la cognizione, la gerarchia di senso dell’agire comune. Per questo, e non invece per una maliziosa interpretazione delle capacità economiche desumibili dal pianeta, la mutazione dei protocolli di lavoro, società, arti, dimensione planetaria e capitale appare profonda e capace di condizionare il prossimo futuro. La globalizzazione è terminata quando si è compiuto il suo corpo emotivo: abbiamo provato una paura mondiale, un’identità e un’identificazione così estesa da essere un primum nella vicenda della nostra specie.


La pandemia ha messo a nudo quelle che sono le ormai insostenibili contraddizioni politiche ed economiche di una sistema globale di sviluppo che per sopravvivere deve sempre presentarsi come unica alternativa possibile, mutando ogni volta aspetto e nutrendosi delle proprie crisi irreversibili. Riusciremo mai a vedere la fine, la caduta, il crollo di questo sistema?

Io vedo le cose un poco diversamente. La fase terminale del capitalismo (ma il capitalismo per me è chimera, mentre osservo le trasmutazioni del capitale in sé) è teratogena, estrema, mutagena. I mercati, per come sono stati intesi, a mio avviso sono finiti per compimento, così come la civiltà di massa. Esiste il modello Big Data, che corrisponde a una massa di masse, una sconfinata legione di tutti gli umani che vanno a connessione e ibridazione. Noi abbiamo appunto vissuto il crollo del vecchio sistema, da molti anni. Non si può pensare che l’emersione delle corporate digitali lasci intatto lo scenario e le dinamiche.

Qui ci troviamo davanti non a un capitalismo, bensì a un disvelamento profondo della sostanza stessa del capitale. Non contesto l’esistenza della finanziarizzazione di ogni processo, ma cerco di guardare al regime proprietario di una multinazionale come, che so?, Google, che presto offrirà un passaporto, welfare, educazione, trasporto, medicina. A questa altezza non c’è un “teratocapitalismo”, ma una cosa realmente nuova e, per come la sento io, più antica dell’antico. Nel libro cito un passaggio biblico, relativo al divieto di adorare un dio di metallo: intendo questo comandamento in senso letterale, perché l’accelerazione degli strumenti è una metallizzazione dell’uomo e del mondo.


A mesi di distanza da quando la Lombardia era l’epicentro globale del contagio, sui quotidiani di tutto il mondo si leggono ancora articoli su Milano. Città in cui sei nato e in cui vivi e che nel libro definisci via via «collassata, severa, pudica, pretenziosa, ipercontemporanea, internazionale, boriosa, spaventata, notturna, attonita, funebre, funestata, assediata, rattrappita, raddoppiata, irredenta, rugginosa, performativa, rivelata, impenitente, darwiniana». Milano è il gran teatro dove si è proibito di rappresentare tragedie per quarant’anni, e spesso questo divieto è stato sostenuto da uomini di sinistra. Rimettere il tragico al centro di Milano è un atto politico?

Esiste una tradizione letteraria relativa ai disordini biologici e, quindi, anche alle pestilenze. Milano è uno dei centri plurimi di questo canone che, a prescindere dalle esegesi, ha scheletrato la storia della letteratura. La peste secentesca non è un archetipo, perché Manzoni non arriva a livello degli archetipi, ma è pur sempre un precedente imprescindibile. Avevo dunque da confrontarmi con questo canone e con questa presenza ingombrante esercitata dalla città in cui siamo entrambi nati. Milano è per me ben oltre la questione della centralità che l’ideologia ha intrattenuto nella sua vicenda alterna con il potere. Milano è un luogo adattivo in cui, alla rivoluzione e al processo di collettivizzazione, si è sostituito il punto più avanzato raggiunto da uno spettro che oggi pare demodé e che io in Reality cerco di riportare alla sua pregressa nominazione: ed è l’americanismo. L’occidentalizzazione planetaria, che avviene in forza dell’imporsi del digitale come “seconda materia” (una materialità non più tridimensionale e non soltanto psichica), trova in Milano una zona autonoma in cui sperimentare in Italia le sue propaggini più inquietanti.

Non vedo Milano in una rinnovata stagione da bere, non è soltanto questione di gentrificazione e di coaguli sociali mancati – non concordavo con questa retorica prima della pandemia, tantomeno la reputo veritiera in questo momento di passaggio. Qui si sta sperimentando la transizione, ovvero il connubio tra un umano in via di modificazione e la nube (cloud) di algoritmi, ovvero una macchina immateriale, che compie le fasi finali con cui il capitale ha preteso di prendere tutto, tranne se stesso. Non rinnego la storicità dei processi e l’effettività della situazione sociale che è venuta creandosi in questa metropoli divisa in cerchie: ci sono cause bene individuate nel più e nel meno recente passato, che producono effetti di disuguaglianza sociale, ambientale, economica, culturale. La frammentazione del consorzio umano a queste latitudini mostra le più aberranti criticità di un sistema imperniato non soltanto sul capitale, ma pure sull’idea che il potere sia efficace, anche quello meramente gestionale. Circa la sinistra milanese, vorrei chiedervi a cosa pensate. Quando avevo otto anni, in questa città rifulgeva il laboratorio migliorista e io ero già sconsolato.


Smart city e global city sono oggi le parole su cui si ragiona di più. Da Milano allarghiamo il discorso al concetto di città, su cui convergono in questo periodo molti dei tuoi studi, come si evince dalla perizia con cui nel libro ti dedichi alla sua autopsia, pur essendo oggi la città, e questo è il dato più interessante e spaventoso, l’unico organismo vivente (o rimasto in vita).

Mi occupo della questione della metropoli un po’ da sempre. Per formazione, comincio da Platone e da Socrate che, come asserito nel Fedro, non si allontana mai dalla città, perché i monti e gli alberi sembrano non volergli insegnare nulla, mentre gli uomini di città pare che intendano farlo. Smart e global city sono orizzonti dell’accelerazione tecnologica, i luoghi in cui si impone l’intelligenza combinatoria, che si definisce artificiale, come se l’intelligenza naturale non lo fosse. La transizione verso quei modelli è ciò di cui peraltro mi dedico professionalmente (una delle tanti professioni...), cercando di mantenere come stella fissa la questione sociale, ovvero chi paga realmente il prezzo della trasformazione cosiddetta “sostenibile”.

Tuttavia il momento genetico del pensiero sulla città, per quanto concerne me, è l’idea di psico-geografia e la pratica della deriva. L’idealizzazione di una pulizia derivante dalla sterilizzazione delle questioni sociali mi disgusta, tanto quanto la rassegnazione a un prototipo metropolitano alla Blade Runner. È nei margini che si fa la storia, il contropotere è nessun potere. Sono intimamente legato ai grandi convogli dei disperati in mezzo a cui sono cresciuto, in un quartiere popolare ai margini della città. La città, come diceva Simmel, impone la «vita dei nervi» e basterebbe un Elias Canetti qualunque a confermare l’ipotesi – ma, senza case popolari, cioè senza storia geologica della stratificazione cittadina, dubito che spunterà mai un Canetti a fustigare le pie illusioni e a rendere nitido non tanto la visione, quanto il cristallino.



Giuseppe Genna è autore di numerosi romanzi tra cui Nel nome di Ishmael; Dies Irae; Io, Hitler; La vita umana sul pianeta Terra; Assalto a un tempo devastato e vile; History.
Reality. Cosa è successo è il suo ultimo libro.
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