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VISIONI


dom 22 marzo 2020

IL VIAGGIO DI ENEA

La vita umana su Kepler 438-b era durata oltre ogni più rosea aspettativa. Il protocollo estrattivo funzionava a meraviglia, il pianeta sembrava in grado di offrire risorse quasi all’infinito. Sembrava. I tre uomini si imbarcarono insieme agli altri coloni, gli ultimi rimasti su Kepler 438-b, e la possente nave Didone, attivati i propulsori, decollò.

Enea arrivò davanti al portone del palazzo. I sensori scannerizzarono il calore del suo corpo, riconobbero le onde elastiche della sua energia, unica e diversa da quella di tutti gli altri esseri umani, ciascuno aveva la propria del resto, e il pesante portone d’acciaio si aprì.

Enea entrò in casa. Abbracciò la moglie Creusa e il figlio Ascanio, salutò il vecchio padre Anchise e comunicò che finalmente anche loro erano pronti a partire. Erano tra gli ultimi, di tutto il pianeta.

La densità di polveri sottili nell’aria era divenuta insostenibile, le acque erano sature di agenti inquinanti. Le foreste erano state devastate del tutto e, come previsto fin dall’inizio, i ghiacciai si erano sciolti innalzando la temperatura e rendendo la vita umana impossibile. Era arrivato il momento di andarsene. L’esistenza su Kepler 438-b volgeva al termine.


Anchise, il vecchio padre di Enea, era stato tra i primi ad arrivare su Kepler. Faceva parte della spedizione Mayflower – in ricordo della nave che dall’Inghilterra portò i padri pellegrini attraverso l’oceano nel nuovo mondo – che aveva lasciato PA-99-N2 b per preparare il trasferimento dei coloni umani sul nuovo pianeta. Era un pioniere.

La vita umana su PA-99-N2 b era durata per ben sette generazioni, oltre ogni più rosea aspettativa. Aiutate da condizioni atmosferiche favorevoli, le colonie umane si erano insediate intorno ai giganteschi bacini d’acqua e in breve avevano costruito delle piccole civiltà autosufficienti. Il protocollo estrattivo funzionava a meraviglia, il pianeta sembrava in grado di offrire risorse quasi all’infinito.

Nel giro di sole due generazioni le diverse civiltà erano riuscite a crescere fino a incontrarsi, e il commercio aveva aiutato a una migliore gestione delle risorse. Così si era riusciti ad arrivare all’incredibile numero di sette generazioni. Calcolando che una generazione attuale era paragonabile a duecentocinquanta anni terrestri, il lasso temporale trascorso dall’umanità su PA-99-N2 b non era così lontano dal record di diciannove generazioni che avevano contraddistinto la vita umana sul pianeta Gliese 3323 b.

Alla fine delle sette generazioni, però, anche PA-99-N2 b era diventato inservibile. L’aria, l’acqua, la terra e ogni tipo di vita, animale, vegetale e microbico, era stato sfruttato. Tutto quello che poteva essere utilizzato su quel pianeta era stato prosciugato e, come sempre, l’esistenza era divenuta impossibile per la specie umana, costretta ancora una volta ad adempiere al suo triste destino: fuggire dal pianeta che aveva eletto a proprio dimora.


Se per comodità si faceva riferimento all’origine dell’umanità sul pianeta Terra, oramai era opinione comune che questa fosse da cercare altrove. Era accaduto qualcosa sulla Terra, un evento destabilizzante come un meteorite, che aveva cancellato tutta la conoscenza precedente. Al prima non si riusciva a risalire. Ma già negli iniziali materiali di trasmissione della conoscenza e del sapere prodotti dai sopravvissuti alla catastrofe, era evidente la spinta al movimento, all’essere costretti ad abbandonare luoghi per raggiungerne altri.

La Bibbia, così si chiamava il libro preistorico che ancora oggi i bambini studiavano, non era altro che una guida di viaggio. Era evidente che, prima dell’evento che aveva azzerato ogni sapere, l’umanità era già in viaggio. La Terra era solo una tappa intermedia. Quello che nessuno avrebbe mai scoperto, era piuttosto l’origine. Ma l’origine, in uno stadio così avanzato dell’espansione, non interessava più a nessuno.

Anche la Terra comunque fu presto abbandonata. Del pianeta fu munta ogni sua risorsa, fino a renderlo inservibile e inospitale, al solito. Per fortuna, l’umanità era riuscita e rialzarsi e riacquistare quella conoscenza che gli aveva permesso, al momento di dover abbandonare il pianeta, di trasferire i sopravvissuti su Marte. La prima colonia.

Dopo Marte, l’umanità si era trasferita su Ross 128 b. Poi su Gliese 3323 b, Wolf 1061 c e TRAPPIST-1. Infine PA-99-N2 b e Kepler 438-b. Alcuni viaggi furono semplici, altri meno. I pianeti invece si dimostrarono tutti discreti nel soddisfare i bisogni della razza umana, condannata suo malgrado all’incessante peregrinare. Discreti, sì, e tuttavia nessuno di questi era risultato eccellente. Men che meno perfetto.

Nessun pianeta era stato infatti in grado, fino ad ora, di riprodurre le sue risorse alla velocità con la quale gli umani le consumavano. Questa era la falla. Ogni volta che i coloni arrivavano e cominciavano a estrarre le materie necessarie alla loro sopravvivenza, il pianeta diventava invivibile, poi moriva.

Come era successo alla Terra, a Marte, a Ross 128 b, Gliese 3323 b, Wolf 1061 c, TRAPPIST-1 e PA-99-N2 b. E come stava succedendo ora a Kepler 438-b. Aria, terra e acqua si inquinavano. Piante e animali non riuscivano più a riprodursi e si estinguevano. Il clima si guastava fino a diventare insostenibile.

Il pianeta collassava. E si era costretti a ripartire. L’intera storia dell’umanità era la storia di un viaggio, era il destino di una fuga.


Enea controllò la pressurizzazione della sua tuta. Quindi si inginocchiò per verificare anche quella del piccolo Ascanio. Fece un cenno per sincerarsi che anche Creusa e Anchise fossero a posto. E con un gesto della mano aprì la porta di casa. Il viaggio era cominciato.

Neanche a metà del tragitto, però, Creusa già respirava a fatica. Era molto malata. La devastazione del pianeta aveva effetti deleteri sui suoi abitanti, la maggior parte di loro non riusciva a sopravvivere. E il centro medico aveva valutato le probabilità che la donna potesse superare il viaggio interstellare incolume vicine allo zero.

La decisione più difficile e penosa era dunque stabilire se lasciarla dopo aver raggiunto la base di decollo, o se provare a portarla con loro sulla nave che sarebbe partita alla volta del nuovo pianeta su cui insediarsi: Castrum 54-c. Anche in questo caso, la scelta giusta da prendere era quella più vantaggiosa per la comunità: abbandonare gli individui con la minor probabilità di sopravvivenza. O almeno così sentenziava l'algoritmo del centro probabilistico.

Quando, infine, Enea, Ascanio e Anchise arrivarono all'imbocco del porto interstellare, Creusa non c’era. I tre uomini quindi si imbarcarono insieme agli altri coloni, gli ultimi rimasti su Kepler 438-b, e la possente nave Didone, attivati i propulsori, decollò.


Affacciati alle enormi vetrate dell’astronave, la visione dallo spazio di Kepler 438-b raggelò il sangue dei passeggeri. Doveva essere uno spettacolo del tutto diverso da quello a cui avevano assistito i primi coloni al momento dell’approdo. Fumi, esplosioni, eruzioni vulcaniche e terremoti avevano preso il sopravvento su quello che una volta era un pianeta di un verde scintillante, bagnato da acque dolci color smeraldo, con un’atmosfera tersa, mitigata dai raggi dei tre soli più vicini.

Ma questo era il destino di ogni pianeta, pensò Enea, mentre si apprestava a controllare che Ascanio e Anchise avessero tutto quello di cui potevano avere bisogno. Didone stava viaggiando a una velocità costante e l’arrivo su Castrum 54-c era previsto a breve. Quando, all’improvviso, l’intera astronave fu investita da un accecante fascio di luce bianca, che la inglobò.


Enea impiegò diverso a tempo a riaprire gli occhi. Mosse dapprima le dita delle mani, poi quelle dei piedi, per saggiare che il suo corpo fosse ancora con lui. Tese e rilasciò i muscoli. Infine riuscì a dischiudere e spalancare le palpebre: il fascio di luce bianca non era ancora scomparso del tutto.

Era sdraiato e, nonostante ci provasse, non riusciva ad alzarsi. Era troppo debole. Si guardò intorno: pareti verdi, lampade al neon e macchinari in ferro e plastica perimetravano la stanza in cui si trovava. Un intenso odore di disinfettante invadeva le narici. Dallo spiraglio della porta, appena socchiusa, si intravedeva un via vai di individui in camice bianco e celeste. Erano medici e infermieri.


La porta si spalancò, e comparve uno di quei camici, bianco.
– Sono il primario di oncologia del Policlinico di Niguarda, a Milano. Ci siamo già visti, mi riconosce? – gli disse.

Si accertò che Enea fosse vigile e avesse ricostruito di trovarsi nel posto in cui era entrato pochi giorni prima, per una visita di controllo, accompagnato dal figlio Ascanio, quindi apri la cartella clinica che aveva con sé e proseguì: – Mi fa piacere darle questa notizia di persona: il suo cancro era a uno stadio inziale, non si è esteso in maniera irrecuperabile. Lo abbiamo fermato.

Lei ormai sa come funzionano queste dannate neoplasie. Il tumore attacca una cellula, ne estrae tutto il sostentamento necessario alla sua esistenza e, poco prima di distruggerla del tutto, si trasferisce nella cellula abitabile più vicina. E così via. Estrae, distrugge, e si mette in viaggio. Il tumore è sempre in viaggio, è il suo destino e la nostra condanna.

Tuttavia, se lo si scova in tempo e si uccidono le cellule a lui più vicine, è possibile sonfiggerlo. Nel suo caso siamo stati molto fortunati. Il tumore ha sfruttato e distrutto poche cellule, così è bastato bruciarne altre con delle radiazioni ionizzanti per neutralizzarlo. Niente più viaggi per il bastardo, abbiamo vinto noi.

Enea sorrise, sollevato. Ardeva dal desiderio di riabbracciare il figlio Ascanio. Anche se un’ombra era rimasta impressa sul suo volto. Quel sogno, o almeno ciò che pensava fosse tale, e il cui ricordo era adesso sbiadito, cosa aveva voluto dirgli?


Illustrazione di Michele Cerone, https://www.instagram.com/danteossi/
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