Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


gio 25 marzo 2021

IL NUOVO ORDINE DIGITALE

Phil osserva la sagoma solitaria sul molo, la sua figura piccolissima e immobile davanti ai volumi di metallo che giganteggiano tutt’attorno, regolati dal nuovo ordine digitale. Francis Fukuyama disse che la Storia era finita e che “l’ultimo uomo” sarebbe stato il prototipo del liberale. Si sbagliava: forse il vero “ultimo uomo” non lo conosciamo ancora, ma sappiamo bene che il suo ha fallito.

Per il professor Philip Wade, personaggio de I diavoli (di nuovo in libreria nella nuova edizione Rizzoli in occasione dell’uscita dell’omonima serie tv) e malinconico protagonista de La fine del tempo (La Nave di Teseo) di Guido Maria Brera, l’alba del nuovo ordine digitale sancisce anche il ritorno di un nuovo ineludibile scontro tra capitale e lavoro.


Seafort Dock, Liverpool, England. Oggi.

Ogni ritorno mescola il tempo come acqua in un mulinello. Philip Wade è di nuovo a casa. Liverpool, il Seafort Dock. L’estremità settentrionale del fronte del porto, a nord dell’estuario della Mersey. Il vecchio cuore della working class, dove pulsava la forza dei dockers. Dove lo spazio si accartoccia, dove il passato abbranca il futuro. Il porto di Liverpool, le rotte dello shipping. L’epica antica dei portuali e le applicazioni della tecnica. Macchine ed esseri umani. Tecnologia e lavoro. Ieri e domani, in una sospensione dell’oggi tra ciò che non è più e ciò che ancora deve essere. Nulla è mai finito davvero e il capitalismo è un buco nero in cui temporalità diverse collassano oltre l’orizzonte degli eventi.
Ieri e domani, in una sospensione tra ciò che non è più e ciò che ancora deve essere.
È di nuovo a casa, Phil il Rosso. Ha usato la scusa di una ricerca sulle rotte degli scambi globali al tempo della pandemia, per procurarsi un lasciapassare dai compagni delle Unions e accedere all’area portuale. Il professor Wade, l’appassionato docente di Storia del Birkbeck College. Phil, il figlio della classe operaia cresciuto a pane e labour. L’uomo di un’epoca lontana, deluso e mai sconfitto. Si aggira appesantito dagli anni, con un caschetto di protezione e un giubbotto fosforescente, a ridosso dei cancelli. Osserva quello che ha attorno come si osserva un mondo insieme familiare e diverso.

Il governo Johnson ha trasformato il porto in una zona franca, con regimi fiscali agevolati, pochi controlli e nessun onere doganale. Davanti a lui si muovono i tir, frenetici e organizzati. Ha l’impressione dell’attività di un formicaio, costruito con l’acciaio rilucente e la gomma di pneumatici. Ha l’impressione che le manovre degli autisti e i gesti dei foreman che ne dirigono l’azione siano automatici ed eterni.

È un osservatorio privilegiato questo nodo dei flussi delle merci, questo tempio della logistica. Da qui Philip non vede il cielo color piombo né il mare che si agita. Da qui scorge la filigrana segreta delle reti planetarie del capitale. Non sembra essere cambiato niente, anche se la pandemia ha sconvolto tutto. Gli ingranaggi dei congegni meccanici appaiono identici a sempre, l’inorganico delle merci si direbbe immune al virus.
Il nuovo ordine digitale non ha nemmeno scalfito la pandemia.
E invece Philip ha la sensazione che questi mesi abbiano dimostrato che il libero commercio globale non ha eliminato il pericolo. Che il sistema immunitario collettivo non sia mai stato così debole e privo di anticorpi contro la catastrofe. Il nuovo ordine digitale, secondo il professor Wade, non ha nemmeno scalfito la pandemia. Contro il virus, il mondo occidentale non è stato in grado di usare la tanto decantata tecnologia, smarrito nelle polemiche sulla pervasività del capitalismo della sorveglianza. Mentre i regimi autoritari in Asia hanno applicato pesanti misure disciplinari per limitarne l’impatto.

I tecnoentusiasti, riflette il professor Wade, si mantengono comunque devoti ad algoritmi che promettono di migliorare la vita, solo per rendere i comportamenti umani sempre più prevedibili e influenzabili. Candidamente, milioni di persone sintetizzano la propria esistenza in una stringa di big data, nella speranza di ricevere dividendi: di migliorare le proprie condizioni materiali. Purtroppo non c’è una correlazione tra benessere e tecnologia.


Quindici minuti più tardi

Ruote che girano trascinando imponenti tir. Rimorchi che scivolano oltre stanghe automatizzate. Mezzi parcheggiati al centimetro e agganciati da strutture di metallo, che li scaricano delle merci trasportate fin lì. E in cima a tutto, le gru si levano simili alle giraffe meccaniche di Filippo Tommaso Marinetti. Il professor Wade si è interessato al futurismo, come a qualcosa di esotico e distante, quand’era un giovane studente che a Roma seguiva le lezioni di Federico Caffè. Un camion dopo l’altro, su ognuno viene eseguita la stessa operazione. Nel terminal i container finiscono ordinati a terra, in file lunghe e torreggianti.
Ecco “il sogno di una cosa” nella versione del capitale: quel miraggio che rende possibile al capitale stesso di esistere senza forza lavoro. Ecco il container, che cancellò l’antica sapienza dei portuali di occupare lo spazio a disposizione nelle stive – lo stivaggio dei carichi. Il processo prevedeva tecnica e creatività, l’esperienza di mille albe contro il vento salmastro. Tolti l’autista di tir e il portuale che aiuta la manovra, ora l’organico sembra espulso dal processo, i corpi svaniti. Cancellati. Il mondo non odora più del sangue al tempo delle battaglie sociali: il presente è neutro all’olfatto, anestetico.
Eppure, l’unica grande certezza è che lo scontro tra capitale e lavoro sta tornando.
Una volta in ogni innovazione del capitale si intravedeva una lotta operaia che dettava alla controparte uno scarto, un salto di paradigma. Oggi il modello liberista converge verso quello autoritario in nome del progresso tecnologico libero dalle pressioni dei cicli di conflitto. Le bolle militanti dei social network scoppiano nell’impotenza, nell’incapacità di incidere sul serio. Ciò che funziona è la costruzione del consenso, la formattazione di un’ideologia che elimina alterità e contrapposizione. Chi si è prostrato al nuovo ordine digitale si ritrova senza punti di riferimento, stringendo una bussola impazzita che non segna alcuna direzione.

L’unica grande certezza è che lo scontro tra capitale e lavoro sta tornando. Insieme alla carne, e ai corpi. Uno scontro di cui Philip Wade ha memoria. E davanti ai container colorati e ai bracci meccanici che li sollevano, si dice che forse i ricordi delle lotte sono rimasti nell’inorganico del metallo e della pietra. Nelle forme non-umane che animano il porto della sua città. Si dice che nel regno dei congegni e della meccanica, anche qui, possono resistere le tracce di un tempo lontano. Pulsano ricordi di corpi di dockers in movimento, bicipiti sotto sforzo, schiene bagnate dal sudore. Sopravvivono come frammenti nell’aria i discorsi, i comizi, le discussioni sulla politica di quella working class che – dieci anni dopo la sconfitta dei miners – provò a tenere.
Phil il Rosso non può dimenticarli, i ventotto mesi di lotta che iniziarono nel 1995. Gli scontri, la serrata, l’anima viva dei portuali inglesi. Gli pare impossibile sia trascorso un quarto di secolo. Impossibile che quella schiera compatta di lavoratori sia così remota. Una comunità che presidiava il cuore della working class e dava battaglia per non farsi strappare diritti. Non può immaginare logori i giacconi che proteggevano quei corpi dal vento. Incurvate quelle spalle grosse, invecchiati quei volti seri che fronteggiavano la polizia.


Trenta minuti più tardi

Philip studia le operazioni che imbarcano i container sul cargo attraccato. Ha le mani in tasca, nell’ombra profonda che dalla nave copre la banchina. Nessuna tecnologia, pensa, sarà in grado di riequilibrare le componenti. D’altronde la gig economy non ha nulla di tecnologico: è il più elementare sfruttamento del lavoro old style. L’algoritmo che dirige i rider nasconde un cartello di aziende che derubano i lavoratori e ne fanno schiavi. Non è il Terzo millennio, sono i campi di cotone della Virginia d’inizio Ottocento.
Dunque la gig economy viene prima del fordismo, anche se è regolata da un algoritmo.
A coprire il cielo, le gru meccaniche che gli ricordano il Mafarka di Marinetti. L’organizzazione di questo porto all’avanguardia della modernità ha radici antichissime, nutrite dal sangue degli schiavi imprigionati nelle stive. Il professor Wade scuote la testa, osservando l’esattezza delle dinamiche che animano la banchina. La logistica al tempo dei viaggi su Marte si fonda sulla barbarie della tratta degli schiavi. L’uomo-merce.

Dunque la gig economy viene prima del fordismo, anche se è regolata da un algoritmo. È antica quanto la schiavitù. E fiorisce in Paesi che sfruttano il lavoro come avveniva nell’Ottocento. Attraversano le ombre delle metropoli d’Occidente, i nuovi schiavi, e al contempo lavorano nelle filiere di produzione delle grandi aziende manifatturiere.

Su un molo in lontananza un lavoratore, l’unico visibile nella vasta area, esamina i movimenti meccanici intorno al cargo. Phil era un ragazzo quando il sistema computerizzato del Seafort Dock iniziò a controllare ogni passaggio del carico-e scarico al terminal container. Sposta lo sguardo sui parallelepipedi colorati come giocattoli. Il capitale è in cerca di una nuova verginità, dice tra sé. E così in Europa si parla di Recovery Plan. E così nel mondo della finanza tutto deve diventare ESG, per intercettare i nuovi flussi di capitale.

Environmental, social and corporate governance: nient’altro che una grande lavatrice della corporate culture degli ultimi cento anni. Una centrifuga che pretende di smacchiare ciò che le grandi aziende hanno generato: distruzione dell’ambiente, discriminazione di genere, disuguaglianza sociale. Quindi le rotte del capitale vengono dirottate per placare la rabbia popolare. Ma perché la trasformazione abbia un minimo di credibilità, manca un elemento fondamentale: il legislatore che globalmente sia in grado di intervenire sulle leggi locali in tema di lavoro e immigrazione. Finché non si avrà quella trasformazione, l’ordine digitale continuerà a fondarsi su norme antiche, su retaggi disumani e presenti di un tempo remoto.

Le operazioni si concludono, Philip lo capisce. I mezzi si allontanano dalla banchina senza più container, improvvisamente nuda. Lassù nel cargo, le merci imbarcate si apprestano al loro viaggio sulle onde. Ogni cosa è al suo posto ma il professor Wade non riesce certo ad allontanarsi sereno.
Una centrifuga che pretende di smacchiare ciò che le grandi aziende hanno generato: distruzione dell’ambiente, discriminazione di genere, disuguaglianza sociale.
Rimugina sulla modalità con cui il nuovo ordine digitale prevede la distribuzione di stock options ai dipendenti, che diventano shareholders felici, ma distrugge la città. Esclude milioni di persone dalle vecchie realtà urbane, perché cannibalizza tutto. Muove i prezzi delle case, stravolge le vite dei loro abitanti, in funzione dell’andamento in borsa delle aziende.

Il nuovo ordine digitale, però, dovrà fare i conti col ritorno dei corpi all’alba di un mondo post-pandemico, che già si intravede nel grande rialzo delle materie prime e dell’acciaio, e nella ripresa dello shipping. I porti come il Seafort Dock torneranno a essere snodi decisivi, mentre le nuove generazioni iniziano a ragionare di sindacati e di nuove forme d’organizzazione: reali e non più virtuali. E la sanità dovrà essere il pilastro di un altro welfare, e la formazione un investimento strategico per il futuro.

Phil osserva l’uomo solitario sul molo, la sua figura piccolissima e immobile davanti ai volumi di metallo che giganteggiano tutt’attorno. Francis Fukuyama disse che la Storia era finita e che “l’ultimo uomo” sarebbe stato il prototipo del liberale. Si sbagliava: forse il vero “ultimo uomo” non lo conosciamo ancora, ma sappiamo bene che il suo ha fallito.
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