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lun 11 ottobre 2021

IL FUTURO, A ORIENTE. INTERVISTA A SIMONE PIERANNI

Neo-marxismo e ipercapitalismo, rivoluzione tecnologica, Stato e contestazioni, sorveglianza, visioni dal presente-futuro. Abbiamo intervistato Simone Pieranni, autore di “La Cina nuova” (Editori Laterza, 2021) e uno dei più grandi esperti italiani in materia, per capire costa sta succedendo a estremo oriente e di riflesso negli assetti delle odierne società globali.

Dopo aver pubblicato un estratto del suo ultimo libro, La Cina nuova (Laterza, 2021), abbiamo dialogato con Simone Pieranni sui mutamenti che stanno attraversando l’estremo oriente cinese e di riflesso gli assetti delle odierne società globali. Perché fuori dalla prospettiva occidentale – tra svolta tecnologica, contraddizioni politiche nel punto più avanzato e un futuro che si è ormai sostituito al presente – oggi più che mai la Cina sembra essere il centro di tutte le cose.


Diavoli: Ormai una dozzina di anni fa, nel libro Adam Smith a Pechino, Giovanni Arrighi diceva che la Cina avrebbe seguito la strada tracciata dal celebre filosofo ed economista scozzese ne La ricchezza delle nazioni, mentre il mondo occidentale era destinato a vivere le contraddizioni del capitalismo delineate da Karl Marx. Un azzardo teorico quasi paradossale, che tuttavia oggi sembra rivelarsi quasi una profezia: da una parte la Cina che considera i mercati al servizio della collettività; dall’altra l’Occidente che considera la collettività al servizio dei mercati. Qual è lo stato dell’arte e soprattutto quant’è risultata veritiera, se lo è stata, questa “profezia”?

Simone: Giovanni Arrighi è una lettura fondamentale per comprendere il ciclo di accumulazione cinese che oggi affronta il problema della redistribuzione. Analogamente la creazione di una rete di relazioni internazionali al di fuori del Washington consensus risulta oggi molto azzeccata. In questa fase però andrà a verifica un altro aspetto del lavoro di Arrighi, forse quello più interessante e che non ha potuto verificare lui stesso per la sua prematura scomparsa, cioè la capacità di Pechino di esprimere davvero qualcosa di diverso da un punto di vista economico rispetto alle democrazie occidentali. E qui entriamo in un ginepraio, però. Cosa c’è oggi di socialista nella Cina? O ancora: in che modo il modello di redistribuzione cinese che la dirigenza dice di voler approntare si potrà distinguere dalle teorie neoliberali – ad esempio quella dello sgoccialamento (trickle-down)? La leadership con il concetto di “prosperità comune” – già utilizzato in passato – mira a una redistribuzione basata su tre leve: mercato, Stato e quella che potremmo definire del “privato sociale”, ovvero filantropia, tasse sulla successione e qualcosa di simile alla patrimoniale. Ci riusciranno? Nessuno lo sa. Però si osservano velate critiche da parte di analisti cinesi, quindi non c’è troppa fiducia, specie in questo momento di grande torsione autoritaria da parte di Xi Jinping.

Diavoli: Secondo David Harvey la Cina si sta sempre più spostando verso un’economia capital intensive e in questa torsione risulta sempre meno “fabbrica del mondo”. Può essere questa una delle ragioni dell’inasprimento geopolitico con il mondo occidentale, e cioè che l’Occidente vede nella Cina una seria minaccia in quella che è (o era) la sua area di dominio?

Simone: Non posso dire di trovarmi sempre d’accordo con Harvey (sono più arrighiano, se dovessi etichettarmi) ma in questo caso credo ci abbia azzeccato. È quello che Pechino ha tradotto con dual circulation, ma non si possono ignorare alcuni problemi. La Cina è ancora molto dipendente dalle esportazioni, non a caso ha prodotto la Belt and Road Initiative, che al di là di considerazioni di natura geopolitica (che ci sono) è soprattutto il tentativo di agevolare l’arrivo del surplus manifatturiero su nuovi mercati. La svolta tecnologica, ad esempio, per quanto evidente e rilevante rischia di scontrarsi con le caratteristiche del sistema cinese: ad esempio non è detto che colpendo le big si avvii un nuovo processo d’innovazione. Di sicuro, però, quanto ha fatto la Cina fino ad ora ha colpito nel segno, cioè andare a grattare fette di mercato all’Occidente e in primis agli Usa. In questo senso Trump (per il quale non ho ovviamente alcuna simpatia né vicinanza politica) aveva visto giusto: il problema è la nuova postura cinese nel campo tecnologico, da lì è scaturito lo scontro che viviamo attualmente tra Cina e Usa.


D: Nel tuo libro (La Cina nuova, Laterza 2021) smonti molti luoghi comuni sulla società cinese e soprattutto riguardo alla sua presunta passività in termini di rivendicazioni collettive dal basso, che invece esistono e sono molto frequenti. Ma la chiave di risoluzione dei conflitti in Cina sembra comunque quella di una ricerca di sintesi interna al Partito, ossia nella misura in cui le proteste vengono metabolizzate e normalizzate dentro l’apparato che poi legifera ed esercita di conseguenza. E in questo scenario le uniche istanze che non possono godere della minima tolleranza sono quelle che potrebbero mettere in discussione l’impalcatura dello Stato. Quando parli di un passaggio graduale dalla rule by law alla rule of law, allora, non pensi possa incrinarsi anche quella capacità di sintesi del Partito di rappresentare simultaneamente il potere e l’opposizione e quindi di avvicinarsi progressivamente al modello più occidentale (della rule of law, appunto)?

S: Sì, certamente, per questo il cammino giuridico cinese, nonostante il nuovo codice civile, sembra essersi piantato. Nella sovrapposizione tra Partito e Stato è il primo in questo momento a dominare e questo pregiudica tutta una serie di modifiche. Ricordo che molti analisti cinesi, off the record, mi consigliavano di guardare a quanto accadeva nell’ambito giuridico per capire eventuali nuovi traiettorie in grado di modificare il paese senza mettere in discussione la centralità del Pcc, ma di fatto erodendo piano piano alcuni spazi. Questo processo con Xi Jinping è totalmente bloccato.

«Siamo controllati e siamo controllori. Non solo in Cina. Ritengo sia giusto rifiutare, come dice Morozov, la dicitura “capitalismo di sorveglianza”. Chiamiamolo capitalismo e basta.»

D: La tecnologia cinese viaggia velocissima e sembra stia procedendo verso ciò che sognano molti partiti progressisti occidentali: ossia un graduale sottrazione di potere alle corporations e una sorta di espropriazione dei dati raccolti dal privato verso la sfera pubblica. Al tempo stesso però, come già indagavi a fondo nel tuo precedente libro (Red Mirror, Laterza 2020), questa sorta di riappropriazione del pubblico passa per un fatale – e inquietante – incremento dei dispositivi di controllo e sorveglianza…

S: È molto complicato riuscire a capire dove nasca l’esigenza del Pcc e dove le proteste dei cinesi contro le piattaforme. O meglio è difficile capire se nasca prima una o l’altra, proprio per la particolarità del sistema cinese nel quale il Pcc è in grado di cogliere al volo alcuni “movimenti” all’interno della società cinese, sfruttandoli poi a proprio vantaggio. Ad esempio è nata prima la volontà del Partito di bastonare Alibaba, o la rabbia dei cittadini nei confronti della raccolta dati piuttosto spericolata di queste aziende? Probabilmente il partito aveva un’esigenza e ha fatto in modo che potesse trovare una sua giustificazione sociale, ergendosi quindi poi a paladino dei sentimenti della popolazione. Ma le proteste su privacy e riconoscimento facciale non hanno mai messo in discussione la potestà del Partito di usare tutto in funzione di sorveglianza. Del resto la Cina è inserita in pieno in quella “cultura della sorveglianza” di cui parla David Lyon. Siamo controllati, e siamo controllori. Non solo in Cina. E ritengo che per questo sia corretto – come fa Morozov – rifiutare la dicitura “capitalismo di sorveglianza”, come se fosse possibile emendarlo e tornare a un vecchio, sano e piacevole capitalismo. Come fosse mai esistito. Chiamiamolo capitalismo e fine. Oppure, come mi ha detto Sadie Plant in un’intervista, perché chiamarlo così? Chiamiamolo autoritarismo o fascismo.


D: Ieri, oggi, domani. Nel tuo libro si parla di futuro non solo in termini fattuali ma anche e soprattutto a livello d’immaginario. C’è un capitolo incredibile sulla nuova letteratura e filmografia cinese in cui tratteggi un aumento della produzione narrativa legata alla tradizione cyberpunk di matrice occidentale ma con un’angolatura decisamente inedita: meno cupa e distopica, più avveniristica e radiosa. Quasi che l’intelligenza artificiale, più che covare dei rovesci minacciosi, rappresenti un orizzonte di speranza nell’immaginario collettivo della popolazione cinese. Quanto di questo entusiasmo è spontaneo e quanto invece è, per così dire, figlio di un tentativo del Partito d’intervenire nei processi creativi al fine d’intercettare e veicolare consenso promuovendo la costituzione di una sorta di canone narrativo funzionale al futuro immaginato dallo Stato?

S: Alcune cose che accadono in Cina accadono più per autocensura che per censura. Mi spiego: da un lato c’è sicuramente una fiducia ben riposta nella tecnologia vista come una conquista dello Stato cinese e uno strumento per tornare “al centro del mondo”, cioè i salti tecnologici vengono visti – anche a causa della propaganda – come una conquista di tutta la popolazione cinese, per ovviare a problemi della vita quotidiana. Dall’altro però c’è anche, forse, la paura di finire tra i perseguitati o magari vedere sparire le proprie opere nel momento in cui si dovesse tinteggiare cupamente il futuro. In questo senso molta della sci-fi è funzionale. Ma poi esistono anche gli Han Song, cioè autori che invece con grande sapienza riescono a universalizzare alcune paure, togliendole dal contesto tipicamente cinese. Per questo credo si debba parlare di autori cinesi di fantascienza e non di “fantascienza cinese”, perché sarebbe limitante e non renderebbe giustizia a chi cerca di mandare un messaggio universale e non solo locale.


Simone Pieranni dal 2006 al 2014 ha vissuto in Cina. A Pechino ha fondato l’agenzia di stampa China Files, attualmente lavora a Roma al quotidiano «il manifesto». Per Laterza è autore di Genova macaia (2017), Red Mirror (2020) e La Cina nuova (2021).

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