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TREDICESIMO-PIANO


gio 6 febbraio 2020

IL CIMITERO DEL POVERO YORICK

Ora che il voto ha espresso un responso così netto, Jeremy Corbyn si è trasformato politicamente nei poveri resti del buffone Yorick che Amleto trovò al cimitero. Il suo scherzo – portare il socialismo in Gran Bretagna – è già finito. Rimangono le tavole di William Heath, magnifiche sorti e progressive di ciò che poteva essere e non è stato. Philip Wade osserva la chimera futuristica, metà cavallo e metà macchina, che sopra ha un cartello con scritto «VELOCITY». Lui chiude un occhio, in modo da leggere solo “CITY”. Poi lo riapre.

Londra, 13 dicembre 2019

«Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio: a fellow of infinite jest.» Amleto – atto V, scena I


Londra non è mai stata così serena. Il day-after delle elezioni, che si annunciavano come le più importanti da decenni, è un giorno qualunque. Anzi è un giorno speciale: c’è il sole. Hyde Park pullula di runners, di ciclisti, di gente in cammino verso i posti di lavoro. Tutti godono della mattinata luminosa dopo giorni di pioggia incessante, e anche il professor Philip Wade ha deciso di approfittarne per una passeggiata.

Costeggiando i prati che brillano nell’aria limpida e fredda, Phil torna col ricordo agli anni Ottanta. All’angoscia che provava di fronte all’assenza di alternative, alla signora Thatcher eletta per tre mandati consecutivi. Il quadro era parecchio diverso. Lui stesso era diverso: più giovane, appassionato, pronto a reagire con rabbia al mutamento del Labour, che proponeva le stesse ricette economiche dei Tories e poneva le basi per l’era di Tony Blair.

Sì, il quadro era parecchio diverso. Perché nel Regno Unito che andava alle urne, al tramonto degli anni Dieci del nuovo secolo, i conservatori si sono presentati più a destra che mai e i laburisti hanno avanzato un programma di riforme radicali, mentre la Brexit ha egemonizzato lo scontro. Ora che il voto ha espresso un responso così netto, Jeremy Corbyn si è trasformato politicamente nei poveri resti del buffone Yorick che Amleto trovò al cimitero. Il suo scherzo – portare il socialismo in Gran Bretagna – è già finito.

Il professor Wade attraversa la strada. Intorno a lui sembra davvero un giorno qualunque. In effetti Londra ha dormito sonni tranquilli, in questi mesi, mentre il resto del Paese si tormentava. È una città-stato, d’altronde, con la forza di metabolizzare qualunque cosa. Avrebbe retto l’urto dell’hard Brexit, della soft Brexit, del Remain. L’unico rischio reale sarebbe stato la vittoria outright dei laburisti, ma l’ipotesi era così remota da non spaventare nessuno.

Questa profonda indifferenza, a Phil fa venire in mente il carattere di una città – Roma – dove ha vissuto per alcuni anni, molti anni fa, quando Margaret Thatcher non era ancora stata eletta per la prima volta. D’altronde Roma, la città dove lui ha studiato con Federico Caffè, nella sua lunga storia non solo ha ragionato su scala globale ma ha personificato il concetto di città-Stato fino a portarlo all’estremo.

Le vetrine scintillanti dei negozi di Oxford Street gli sembrano tutte uguali. E i negozi sono gli stessi che Philip troverebbe, in questo esatto momento, percorrendo il corso commerciale di una grande città in un qualunque punto del globo. La stessa Londra è diventata una vetrina, seguendo le proprie ambizioni, perché è esattamente ciò che vuole: offrire comfort e visibilità alle aziende innovative, attrarre e ospitare energie nuove e selezionate. I capitali che arrivano qui sono inattaccabili: sono quote di fondi, partecipazioni azionarie, palazzi in costruzione o da ristrutturare, campioni del calcio pagati a peso d’oro.

Non è una città che ricicla, accuse del genere fanno sorridere: il lavoro sporco viene fatto altrove, a Londra arriva tutto pulito e luccicante come queste vetrine. Brexit o non-Brexit, è e rimarrà una città globale.

Per il professor Wade è come se Londra avesse una forma di presbiopia: non mette a fuoco da vicino – i confini del regno – ma ha una vista perfetta se deve guardare lontano, alla sfida su scala planetaria. Alla sua destra si distende Soho ma Philip prosegue dritto. Boris Johnson, il vincitore, l’uomo che ha convinto il Nord impoverito e ha stretto la mano all’estrema destra, non guasterà la sua Londra.

Non riuscirà neanche a scalfirne la pelle dura. Quella pelle è già cambiata dopo il 2008 e continuerà ad adattarsi al capitalismo globale, pensa Phil, come l’acqua si adatta a qualsiasi contenitore. Londra non subirà alcuna ripercussione dalla Brexit. Perché la città globale risponde a regole proprie e l’unica cosa che le interessa è posizionarsi nella competizione con le altre città globali. Il resto del Paese non può interferire con i suoi obiettivi, perché è solo un serbatoio: Londra ne seleziona il capitale umano migliore, e lo assorbe.

Parallelamente al marciapiedi scivola un’auto elettrica: un passaggio quasi impercettibile, una carezza lungo l’asfalto, in confronto all’andatura appesantita del professor Wade. La consapevolezza ambientale si avverte in ogni angolo della città. Mentre in tutto il mondo si organizzano i Global Climate Strikes e nascono movimenti come Extintion Rebellion, per Londra il green è già un business che vale miliardi.
Philip ha una simpatia istintiva per queste proteste, che riuniscono la società civile contro la passività dei governi di fronte alla catastrofe climatica. Al tempo stesso ha visto l’installazione di Eliasson alla Tate Modern che muove dall’ecologia ed è interamente sponsorizzata da Michael Bloomberg. Ha visto la gentrificazione senza cemento a Hackney o sui canali di Little Venice dove si sono stabilite le aziende green, ben lontano dai grigi palazzi del vecchio centro finanziario. Ha visto come le energie rinnovabili possono danneggiare l’ambiente sociale mentre proteggono l’ambiente fisico.

La facciata d’ingresso del British Museum si allinea davanti a Philip Wade. Il primo museo nazionale – slegato da proprietà reali o ecclesiastiche. Lo frequentava con un senso di familiarità già quand’era uno studente e con lo stesso ammirato rispetto di allora lo frequenta oggi che è un autorevole professore del Birkbeck College. Di colpo, mentre sta varcando la soglia alle prese coi suoi pensieri, avverte la bellezza quasi commovente di non dover pagare un biglietto. È qualcosa che appartiene alla storia del British: fu il primo museo del Paese ad aprire gratuitamente al pubblico.

Eppure lui lo sente scemare quel gusto, quel senso di libertà e di giustizia. Philip è troppo consapevole che i musei ormai vivono delle donazioni di billionaires e di fondazioni private. Che il mercato dell’arte contemporanea è sostenuto da capitali in eccesso alla ricerca di destinazioni sicure. Non ha bisogno di trattenersi a leggere le placche che rivestono le superfici, per saperlo. Il fatto è che la finanza si è incuneata ovunque.

Ristoranti e bar sono catene di proprietà dei fondi di private equity. Le ristrutturazioni immobiliari sono sostenute dai fondi real estate. Le start-up tecnologiche sbocciano come fiori grazie al venture capital. Il cinema e le serie tv vengono finanziate da obbligazioni high yield. Non resta fuori nulla.

Cammina deciso lungo i corridoi, scorrendo accanto a opere inestimabili alle quali nemmeno bada. Si fa largo tra i visitatori, alcuni di loro lo guardano sorpresi. Ma Philip sa in quale sala è diretto, e improvvisamente il desiderio di raggiungerla diventa un’urgenza che lo scuote.

Un giovane uomo che proviene dalla direzione opposta lo saluta, chiamandolo «professore», e con discrezione continua oltre. Phil rallenta, confuso, si gira a studiare la figura ormai di spalle. Accostandosi a una grande finestra dai vetri scuri, prova a riflettere su chi fosse il giovane uomo. Gli viene in mente che questo tipo di vetri servirà senz’altro a proteggere le opere dalla luce naturale. Si direbbe più un velo che una barriera, perché in effetti le forme della città sono ben riconoscibili. Un tempo Londra era dominata dalla City, pensa il professor Wade, ora Londra è la City.

Senza troppa convinzione, decide che quello potesse essere un suo studente al Birkbeck, qualcosa come cinque o sei anni prima. Il panorama è più interessante di quello stupido inciampo della memoria.

Là fuori la City si è riversata oltre i confini. Si è diffusa al punto di allargare lo spettro d’azione sulla città intera. Là fuori la Grenfell Tower e il suo rogo di classe sono stati liquidati come un tragico errore, riflette Phil con le dita sul vetro scuro. Là fuori la Peckham delle rivolte del 2013 è diventata un quartiere cool da visitare per i suoi murales. Là fuori i quartieri-dormitorio degli anni Sessanta del secolo scorso – «il mio secolo», non può evitare di dirsi a mezza bocca – sono una tappa turistica. Tutto, anche le zone che venivano più duramente stigmatizzate: tutto è in mostra, nella metropoli che ambisce a essere vetrina.

È una città messa a reddito, che sposta altrove le criticità e si pone come il più importante mezzo di produzione dell’intero Regno Unito. Ogni pezzo di questa città globale è più vicino a un pezzo di New York o Singapore piuttosto che a un suo sobborgo o anche solo ai resti della Grenfell.

È qui che doveva arrivare. Il passo di Philip, nervoso lungo i corridoi, sembra pacificarsi nella sala dove sono esposte le stampe di William Heath. Le conosce bene, ha trascorso parecchio tempo a studiarle. Eppure negli ultimi giorni, come poi gli capita con l’arte in certi momenti della sua vita, ha sentito un’esigenza crescente di confrontarsi ancora col tratto visionario di questa serie. Sentiva parlare ovunque di Brexit e in testa lo martellavano le figure della società immaginata da Heath.

Tutto questo parlare di Brexit, senza capirla... La Brexit non è la rivolta della classe media impoverita del Nord, secondo Phil. Non è la de-industrializzazione né la paura dei migranti. No: la Brexit è la libertà di scegliere i capitali da importare, la conoscenza da importare, il capitale umano da importare.

Si avvicina alla stampa che sopra ha la scritta: «Lord how this world improves as we grow older». Uomini col cappello a cilindro scambiano un saluto mentre uno dei due è sospeso a mezz’aria, alato. Volano mongolfiere, volano ratti giganti. Cinque figure sono in groppa a un essere meraviglioso – per metà cavallo e per metà macchina – che al posto della coda ha una ciminiera, e più sopra un cartello con scritto «VELOCITY». Philip chiude un occhio, in modo da leggere solo “CITY”. Poi lo riapre.
La velocità è ancora un fattore determinante nel capitalismo di duecento anni dopo. Dove la crescita incontra interruzioni, lascia macerie. Dev’essere continua, infinita. Le città che riescono a intercettare i flussi globali sopravvivono, le altre no. Oggi siamo all’apice del processo capitalistico, si dice Phil, e chi parla di crisi è miope – non vede quel che ha sotto il naso: il capitalismo non è mai stato così in salute. Boris Johnson ha chiesto un pieno mandato per move on, per andare avanti. E l’ha ottenuto.

Non c’è più tempo da perdere a discutere, le sfide degli anni Venti sono alle porte e non aspettano nessuno. Ecco perché le elezioni di ieri sono state un bluff: perché il futuro era già scritto. Ecco perché la Brexit non avrà alcun impatto: l’economia della conoscenza è pronta già da anni e non esistono frontiere per il pensiero.

Si sposta a osservare un’altra delle stampe di Heath. Il professor Wade non saprebbe scegliere quale preferisca della serie. Sono tutte di una modernità sbalorditiva, considerando che vennero realizzate negli anni Venti dell’Ottocento. Si sofferma sulle carrozze a vapore, poi sugli scivoli che conducono dai balconi direttamente in strada. Proprio in quel periodo, nel pieno della rivoluzione industriale, nacque l’università in cui Philip insegna. Non si chiamava Birkbeck College, ma London Mechanic’s Institute. L’intento era di affrontare a livello accademico il rapporto tra uomo e macchina, per studiare le conseguenze sociali ed economiche della meccanizzazione.
Erano gli anni di Robert Owen, del socialismo utopico, dell’intelletto in marcia che dà il titolo a queste opere di William Heath. Erano gli anni in cui, per la prima volta, si sentiva parlare di general intellect – intelligenza collettiva. Il sapere sembrava un’arma prodigiosa, universale, definitiva, nelle mani degli uomini. Sembrava pronto a spazzar via chiunque non si adeguasse al ritmo di quella marcia. Come quest’uomo immerso nel fango, lì lì per esserne risucchiato, mentre la carrozza sta arrivando troppo di corsa per non travolgerlo.

C’è una nave nel cielo, sollevata da due enormi palloni d’aria. Philip si accosta. La sua memoria sta invecchiando assieme a lui, ma gli balena l’esatto ricordo di un passaggio del Frammento sulle macchine in cui Marx sembra descrivere alla perfezione la contemporaneità del primo XXI secolo. E tra sé e sé, davanti a una delle March of Intellect di Heath, il professor Wade srotola quelle parole tanto lungimiranti:

A causa dell’accumulazione di General Intellect, il lavoro diviene secondario rispetto all’accumulazione capitalistica, causando la crisi della teoria del valore del lavoro e spingendo i fondamenti del capitalismo alle stelle.

Si tratta di un processo ciclico, riflette Phil, che si ripete inesorabilmente a ogni loop tecnologico. Dimostra come sia inutile analizzare il nostro passato prossimo, perché le risposte non le troveremo mai. Le risposte le dobbiamo immaginare.

Le ultime elezioni sono frutto dei cambiamenti dei rapporti di produzione, e i frammenti sono gli individui disorientati che cercano nella politica risposte che non possono ricevere, se non come promesse di un ritorno a ideali del passato. Solo quando si distanzia di qualche passo dalla stampa, Philip si accorge del ponte: un’opera che l’immaginazione dell’artista ha reso delicata, quasi fiabesca, benché sia abbastanza robusta per collegare Dover e Calais, il Regno Unito e la Francia – l’Europa.

Non gli pare di aver mai notato quel ponte prima d’oggi. I suoi pensieri corrono come la carrozza a vapore, nella sala del British Museum dove nessun altro visitatore è entrato da quand’è qui. La politica non cerca neanche di decifrarlo il futuro, pensa Phil. Si rifugia nel passato delle identità perdute, per adeguarsi poi alle nuove condizioni materiali a cui costringe il rinnovamento dei processi produttivi.

Il professore, inconsapevolmente e senza distogliere lo sguardo, si porta una mano alla gola. Le elezioni politiche sono ridotte a creare illusioni. Solo questo. A tentare di tenere insieme nazioni già frantumate.
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