Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


ven 20 settembre 2019

Il 9° film di Quentin Tarantino è un saggio di guerriglia culturale

Superando il suo consueto “meta-cinema”, Tarantino stavolta imprime su celluloide un incredibile saggio di guerriglia culturale, un manuale di rivolta urbana contro l’industria addomesticata di Hollywood e delle odierne piattaforme.

Jay Sebring: «Is everyone okay?». Rick Dalton: «Well... the fuckin’ hippies aren’t. That’s for goddamn sure».

Il passato non è mai esistito, se non come contenitore dei germi della tragedia del presente. L’omaggio che Quentin Tarantino fa al cinema in C’era una volta a Hollywood (ora nelle sale italiane) è il medesimo struggente atto di amore, di morte e malinconia contenuto nella pellicola a cui si è ispirato fin dal titolo: l’immortale capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America.
«Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato davvero”. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari» scrive Walter Benjamin in Sul concetto di storia, poco prima della famosa interpretazione dell’Angelus Novus di Paul Klee.

E l’immagine a cui si aggrappano Tarantino e Leone – registi materialisti, anzi materici come due artigiani della celluloide nella sua accezione più sublime – è quella della fine di un mondo che non c’è mai stato, il mondo del cinema: industria culturale, apparato ideologico contro cui, nel loro più eclatante atto d’amore, scagliano una molotov che, come in Inglorious Basterds (il 6°), brucia i rotoli di pellicola, incendia la sala intera e decreta la morte del dittatore che più aveva usato il cinema stesso a sostegno del suo delirante sogno di dominio.
I cappelli a falda larga e le pistole, gli occhi e le mani, i sigari, le corde, i cavalli e la dinamite, persino l’emblematica pastarella alla panna del valore di cinque cents di C’era una volta in America.

Quentin ci trasporta in un mondo fatto di insegne e titoli, poster e locandine, oggetti, cibi, macchine, fino ai piedi appoggiati sulla poltroncina di pelle rossa del cinema attraverso cui Sharon Tate guarda se stessa e tutti i film del suo “attuale” regista: Tarantino.

Non è pornografia né coprofilia, ossessione di catalogare o impulso di citare, è puro godimento fisico: è la materialità del desiderio. Dal cowboy senza nome e privo di passato che uccide “per un pugno di dollari” a quello depresso e senza futuro che insegue i suoi vecchi fantasmi; dalla nascita di una nazione al risveglio dal sogno.

Siamo nel 1969, in una Hollywood «usata come continuo set dove non capisci mai chi recita e chi no, chi esce dal personaggio e chi no», scrive Marco Giusti. Due perdenti, intrappolati in quella di terra di mezzo che è il cinema di serie B, trascinano le loro esistenze rimbalzando tra i sogni di gloria e i calci in faccia della realtà.
Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) è un attore sul “viale del tramonto”, relegato a ruoli da villain in b-movie che, peraltro, sono remake dei film dello stesso Tarantino. Cliff Booth (Brad Pitt in una versione al tempo stesso lunatica e implacabile) è uno stuntman che non trova più lavoro sul set e per questo si è reinventato ad autista e tuttofare di Dalton.

Intorno a loro, da una parte il luccicante jet set delle feste e di chi ce la sta facendo, impersonato dalla stella in ascesa di Sharon Tate (Margot Robbie, che può permettersi di recitare sé stessa), dall’altra l’infernale comparsa della Manson Family: l’iniziatica deriva assassina che contiene in sé i germi della fine, forse gli stessi che avevano generato l’inizio del sogno (americano).

Del resto lo stesso Rick Dalton, oltre che alcolizzato, è bipolare: nella Hollywood di fine anni ’70 tutto ciò che intorno a lui è meraviglioso si trasforma in un attimo in incubo, e viceversa.
E dunque nessun ricordo è davvero concesso. Nessuna nostalgia del passato, che non deve essere celebrato ma serve solo come benzina, a incendiare il futuro. Nessun romantico ritratto di un’epoca, nessun pastiche postmoderno in costume.

«Non c’entra la nostalgia. Non si tratta di voler tornare a quell’epoca. Fu una stagione breve e affascinante in cui a Hollywood è cambiato tutto» dice Tarantino in un’intervista di Luca Celada del «Manifesto» in cui celebra la fine di un certo modo di fare cinema. La fine delle star, del cinema in sé.

Parole dietro cui riecheggiano quelle di Leone su C’era una volta in America: «la fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema».

Ma se la celebre pellicola di Leone è un classico, che a sua volta si rifà al cinema dei grandi maestri a partire da Chaplin, il film di Tarantino è uno studio su quel classico. D’altronde non aveva detto Leone che il cinema era finito?

Così, oltrepassando il suo consueto “meta-cinema” già sublimato in una vera e propria opera di (ri)scrittura con Django Unchained (il 7°) e The Hateful Eight (l’8°), Tarantino stavolta imprime su celluloide un incredibile saggio narrativo, i cui oltre 120 minuti di durata sono cadenzati da struggenti atmosfere fatte per lo più di dialoghi e silenzi, quasi nessuna azione.

Il film nel film diventa addirittura realtà aumentata quando la camera – in una scena in cui Rick Dalton è davanti a un bicchiere nel saloon – gira come solo Tarantino farebbe, ma poi torna al suo posto quando riparte il ciak, obbligandoci a chiederci chi e perché la stesse manovrando. Si sgretola il muro della fiction, si cancellano i confini della percezione del reale.
C’era una volta a Hollywood è una “lectio magistralis” non conforme sulla storia del cinema, sul mestiere dell’attore e sulle maestranze. Sui corpi e sulla materia necessaria a costruire una narrazione. Di più: sull’utilizzo politico del passato.

Riprendendo la riflessione sulla “ripetizione differenziale” di Walter Benjamin (che infatti utilizza il cinema come esempio), Tarantino si impossessa del passato per smontarlo e quindi restituircelo identico ma diverso, contenente in sé i germi della rivoluzione.

Ben lungi dal configurarsi come un’opera di fradicia erudizione, il 9° film di Tarantino è un saggio di guerriglia culturale, un manuale di rivolta urbana contro l’industria addomesticata (di Hollywood e non solo) e volto a sviscerare il contropotere dell’immaginario e dell’illusione, al fine di decostruire e sabotare.
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