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MONITOR


mer 30 ottobre 2019

Hong Kong è un magma che ribolle e non si arresta

È una questione di spazio, dicono. Il Capitale ha bisogno di espandersi, di gonfiarsi all’infinito. Occorre ottimizzare, tagliare dove si può, erigere templi dell’efficienza. Sembrano essere decisioni insindacabili. Ma la “marea” di Hong Kong non ci sta, e avanza inesorabile.

È un magma, il mare di Hong Kong. Ribolle di profitti e plusvalenze, lambisce la città stato fiore all’occhiello del capitalismo finanziario. E come un moto ondoso, specie nell’ultimo decennio, si riversa e si ritrae per i viali cittadini a cadenza regolare.

È successo nel 2013, con lo sciopero dei portuali. Nel 2014, con gli studenti dell’Umbrella Movement.

E dopo cinque anni di apparente bassa marea, nel 2019 la protesta è tornata a infrangersi con violenza sulle vite di oltre sette milioni di persone, tra autoctoni e migranti, votate allo sviluppo verticale: non solo architettonico, prima di tutto sociale.

Una competizione verso il cielo per mettere al sicuro la famiglia, il lavoro, il conto in banca, il futuro. Lontano dal mare incandescente che si abbatte, senza sosta, contro gli argini delle fondamenta cittadine.

È una tempesta globale, dal Libano al Perù, da Parigi a Barcellona, dal Cile all’Ecuador. È una marea che monta informe e travalica i confini nazionali.

I motivi delle proteste – la legge sull’estradizione, la tassa su Whatsapp, l’aumento dei biglietti dei mezzi pubblici e delle accise sulla benzina – incendiano un risentimento strutturale, comune e molteplice. Tanto da passare presto in secondo piano, e riempire le strade con rivendicazioni che vanno ben oltre la semplice rabbia repressa.

La legge sull’estradizione promossa dall’amministrazione di Hong Kong, e ispirata dal governo cinese, è stata la miccia per riaccendere una rabbia giovane, spesso giovanissima.

Avanguardia di un dissenso globale che si oppone al controllo ipertecnologico, inghiottendo dispositivi e telecamere che vogliono riconoscere la faccia della marea e mapparne gli spostamenti.

Essere come l’acqua è l’unico modo per continuare la guerriglia, per rimpiazzare i feriti e gli arrestati degli scontri. Nuove prime file pronte a sabotare e sovvertire, per alimentare un conflitto dall’esito segnato ma non per questo evitabile.

Nella storia delle insurrezioni che emergono ciclicamente nell’ultimo decennio, risiedono le origini radicali e materiali di una crisi che trascende l’epica dei giovani contro le autorità. È un risentimento antico, che attraversa classi e generazioni diverse per confluire nella liquidità postmoderna di una protesta senza leader. E a volte, senza precisi programmi politici.

È la brutalità di un mercato che spreme la manodopera in turni di lavoro sfiancanti e introduce il salario minimo solo nel 2011, rimasto invariato a fronte di un costo della vita in costante aumento. Cinquanta ore a settimana, una delle “libertà” garantite dall’amministrazione che con una mano ti tiene in ufficio, e con l’altra ti toglie la casa e ti spinge sempre più in là, sempre più lontano dal mare.

È una questione di spazio, dicono. Il capitale ha bisogno di espandersi, di gonfiarsi, con sempre nuovi complessi commerciali o residence di lusso. Occorre ottimizzare, tagliare dove si può. Occorre erigere templi dell’efficienza nei sobborghi.

Alveari verticali pensati come magazzini senza vita, unità minime di stoccaggio per parcheggiare migliaia e migliaia di lavoratori non specializzati – autoctoni e stranieri, cinesi e sudest asiatici – tra un turno di lavoro e l’altro.
Colonie umane di serie B, laboratori dove coltivare in vitro discriminazioni razziali e sociali.

In questo contesto, la marea di Hong Kong si ritrova a gestire una serie di delicate contraddizioni ad alto rischio di esplosione, minacciando la sopravvivenza del movimento nella forma in cui lo abbiamo conosciuto.

L’ormai celeberrima educazione degli studenti in agitazione, pronti a chiedere scusa ai turisti per aver arrecato disagio paralizzando il traffico aereo di Hong Kong nel mese di agosto, convive a fatica con le accelerazioni in avanti di una prima linea sempre più dura. E oramai ripudiata dall’opinione pubblica internazionale.

“Non è modo di manifestare”, dicono, senza provare a capire le profonde ragioni del violento esacerbarsi delle proteste.

E avanza strisciante anche il rischio che la componente nativista del movimento finisca per risalire dalle retrovie, imponendosi su chi vorrebbe invece allargare la base del conflitto. Su chi vorrebbe coinvolgere anche i lavoratori migranti e gli studenti della Repubblica Popolare, rifiutandosi di cadere nello slogan tendenzioso e inaccettabile dei “cinesi brutti, sporchi e cattivi”.

Si tratta di spaccature che la protesta liquida nasconde ma che, in profondità, già hanno colpito intrecci e relazioni compromessi irrimediabilmente dalla lotta.

Figli che disconoscono genitori, accusandoli di essere troppo pavidi per la guerriglia. E genitori che disconoscono figli, secondo loro troppo naif per la dura realtà di un presente immutabile. Rapporti di amicizia infranti lungo le divisioni pro e anti governative.

E gli uomini e le donne delle forze dell’ordine, considerati traditori e braccio armato al soldo di Pechino. A Hong Kong è difficile trovare onta più grave.

Quale futuro attende il tessuto sociale fatto a pezzi da mesi di conflitto, è un quesito sospeso.

Il punto di fuga della protesta, però, e minimo comun denominatore della piazza di Hong Kong, si stringe sulla richiesta del suffragio universale. Tema alla base di decenni di dissenso nell’arcipelago e probabilmente l’unica concessione che la Cina assolutamente non può permettersi.

Scrivevamo che è l’epoca dei riots 4.0. Ora il magma ha sfondato gli argini, dall’Asia all’Europa, dal Medioriente all’America Latina. All’orizzonte la sovversione è globale.
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