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MONITOR


ven 16 marzo 2018

LA GUERRA DELLE SPIE NON È MAI FINITA

Il caso di Sergei Skripal riporta la Storia al centro, dopo la sua fine. La fine della Storia, da far coincidere con la fine dello Stato, ci ha raccontato un nuovo spionaggio. Industriale. Non nuovo, in verità. Sui libri è scritto di spionaggio civile, attinente alla sfera del guadagno privato e non della pubblica amministrazione, fin dai tempi dei commercianti fenici e dei latifondisti egizi. Informatori, infiltrati, doppiogiochisti al servizio del padrone, da sempre. Una dimensione parallela e tangente allo spionaggio politico, della cosa pubblica. Ma con la fretta di finire la Storia, chiudere il libro, dopo la Guerra Fredda si è decretata la morte della spia al soldo dello Stato. Falso. Ieri Guerra Fredda, oggi Cyber e Trading War. La guerra delle spie non è mai finita.

The leaders of the United States, France and Germany joined Britain on Thursday in blaming Russia for poisoning a former spy with a powerful nerve agent, calling the attack “the first offensive use of a nerve agent in Europe since the Second World War.”
(Associated Press, 15 marzo 2018)

Allora Bioy Casares ricordò che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva dichiarato che gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.
(Jorge Luis Borges, Finzioni)
Nel labirinto di specchi che conclude magistralmente The Lady from Shanghai (Orson Welles, 1947) si riverbera all’infinito il gioco dell’arte.
E tale è lo spionaggio, un’arte. Essere immagine riflessa della porzione di mondo di cui la spia si fa emblema e significato, o di quello che finge di rappresentare lavorando per il suo nemico. Essere altro da sé. La figura rimbalza da ogni direzione, perde l’origine, l’originale si trasfigura nel suo doppio. Si moltiplica all’infinito. Rimangono solo molteplici immagini copia.
Il caso di Sergei Skripal, la spia russa avvelenata insieme alla figlia Yulia nel ristorante della zona commerciale di Salisbury, e tutto quello che ne è seguito, è uno di questi specchi. L’immagine che restituisce, frutto di infinite moltiplicazioni, diramata in molteplici direzioni, è uno dei mille nodi di una narrazione rizomatica che non si esaurisce in una guerra diplomatica.
Riporta la Storia al centro, dopo la sua fine. La fine della Storia, da far coincidere con la fine dello Stato, ci ha raccontato un nuovo spionaggio. Industriale. Non nuovo, in verità. Sui libri è scritto di spionaggio civile, attinente alla sfera del guadagno privato e non della pubblica amministrazione, fin dai tempi dei commercianti fenici e dei latifondisti egizi.
Informatori, infiltrati, doppiogiochisti al servizio del padrone, da sempre. Una dimensione parallela e tangente allo spionaggio politico, della cosa pubblica.
Ma con la fretta di finire la Storia, chiudere il libro, dopo la Guerra Fredda si è decretata la morte della spia al soldo dello Stato. Deliberato il passaggio dell’agente segreto alla dimensione ordoliberale, dove il diritto privato si sostituisce a quello pubblico.
Uno dei più raffinati romanzieri di spie, l’ex agente britannico John Le Carré, con la caduta del Muro di Berlino decide che non è più il caso di raccontare le vicende di George Smiley, ma le cospirazioni della finanza o di Big Pharma.
Lo spionaggio si evolve. Entra nella dimensione cibernetica. Eppure anche qui gli specchi restituiscono immagini antiche, in bianco e nero o virate seppia, di ombrelli londinesi e innevate dacie moscovite, fumosi quartieri berlinesi e luridi compound thailandesi.
Occidente e oriente. Stati Uniti e Russia, sempre loro.
La nuova Cold War è la Cyber War. Ma il tavolo da gioco è sempre lo stesso. Quello della Storia.
Lo specchio, insegnava Jacques Lacan, è la fondazione dell’immagine nell’inconscio. Lo specchio è lo strumento attraverso cui si portano a galla i sintomi di quello che si nasconde eppure è visibile, di quanto si vuole celare eppure è.
E così, mentre ci viene raccontato che chi è stato è stato, e lo Stato si è estinto, e forse è rimasto solo in quei mondi antichi a cavallo del 38° parallelo, negli archivi dei giornali degli anni Zero e degli anni Dieci si susseguono piccole grandi notizie di chiusure di ambasciate, espulsioni di diplomatici. Le solite, vecchie, coperture dell’antico spionaggio politico.
Il clamoroso scambio di prigionieri del 2010, in cui la figura più nota è proprio Sergei Skripal. I casi di Anna Chapman e Alexander Litvinenko, gli hacker Fancy Bear e il caso doping nello sport.
La Cyber War è sempre la buona vecchia Cold War. Oltre le multinazionali, resiste il potere dello Stato, della guerra tra Stati.
C’è questo posto, dimenticato da Dio e dagli uomini. Si chiama Kirkenes. È una piccola cittadina norvegese di poco meno di 4mila abitanti. Si affaccia sul Mare di Barentes, a nord del Circolo Polare Artico, e si situa al confine tra Norvegia, Finlandia, Russia e Cina. È uno dei luoghi più decisivi per la tenuta degli Stati. È l’epicentro della guerra tra gli Stati. È il labirinto di specchi di Orson Welles.
A Kirkenes uno specchio mostra un’infinita distesa d’acqua, il bene più prezioso. Uno specchio restituisce l’immagine di una delle maggiori riserve mondiali di petrolio, conteso tra diverse agenzie pubbliche e private. Uno specchio racconta che è il porto da cui partono le spedizioni per la conquista dell’Artico, l’approvvigionamento di nuova energia.
Uno specchio riflette, sull’altra sponda, quella penisola di Kola che ospita più della metà dell’arsenale nucleare russo.
Uno specchio ammonisce che Kirkenes è la città occidentale più vicina alla Cina, che da lì vuole fare passare la diramazione polare della Via della Seta, quanto di più decisivo è in gioco oggi.
A Kirkenes c’è il vecchio e il nuovo, il pubblico e il privato, le multinazionali e gli Stati. A Kirkenes passano chilometri di fibra ottica. A Kirkenes passano i container della logistica.
A Kirkenes, lo scorso dicembre, è stato arrestato Frode Berg, 62 anni, ex ispettore di confine norvegese in pensione, subito tradotto nel carcere di massima sicurezza russo di Lefortovo con l’accusa di spionaggio.
È una storia incredibile. Accade solo pochi mesi prima del caso di Sergei Skripal.
Il caso di Sergei Skripal è un avvertimento, o una vendetta. È un capitolo nell’infinito libro dello spionaggio politico.
Il caso di Sergei Skripal è una mossa sulla scacchiera della guerra tra gli Stati, declinata in conflitti commerciali e per gli armamenti.
È un’immagine riflessa in una miriade di specchi. È un sintomo lacaniano, ci avverte che nell’epoca della sua estinzione, lo Stato c’è. E gioca alla guerra.

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