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RECENSIONE


gio 9 maggio 2019

“GO HOME”, LA POLITICA È HORROR

In una metropoli che non è mai stata così grigia e decadente, squallida e delusa, in cui gli echi delle vicende razziste di Torre Maura e Casal Bruciato divengono di un’ultra-attualità, assistiamo da subito allo schema classico degli assediati e degli assedianti, un’allegoria il cui rimando alla realtà è di un’aderenza bruciante. Perché non è “Go Home” ad essere un horror politico, semmai è la politica a essere un horror.

«I respingimenti sono l’unica via per salvare vite e per evitare un’invasione.» Matteo Salvini
Go Home-A casa Loro è la pellicola di produzione indipendente scritta da Emiliano Rubbi e girata – tra gli spazi sociali romani dello Strike e dell’Intifada – da Luna Gualano che, rifacendosi alla grammatica horror, racconta l’Italia ai tempi dei revival xenofobi e reazionari.
Avvalendosi di una messa in scena “punk” e priva di alte pretese, il film si smarca da ammiccamenti di sorta (solitamente) riservati al genere orrorifico e punta dritto al cuore e alla coscienza dello spettatore, a cui sembra dire: guarda in che schifo di società sei immerso.
Fin dai primi fotogrammi ci si trova spiazzati e attoniti, ed è una cifra artistica che sceglie di non risparmiare nulla ai danni di una Roma al collasso, riflessa in un’ambientazione che da mitica “città eterna” la trasla in una landa desolata e terrificante, d’improvviso popolata da famelici zombie.
In una metropoli che non è mai stata così grigia e decadente, squallida e delusa, in cui gli echi delle vicende razziste di Torre Maura e Casal Bruciato (solo per citare le più recenti di un’ormai lunghissima lista) divengono di un’ultra-attualità, assistiamo da subito allo schema classico degli assediati e degli assedianti, un’allegoria il cui rimando alla realtà è di un’aderenza bruciante e in contemporanea una mise-en-abyme dell’intreccio stesso del film.
Il plot si apre infatti in medias res con un nutrito gruppo di fascisti intento a manifestare contro l’apertura di un centro d’accoglienza per immigrati, fronteggiati da una schiera altrettanto numerosa di militanti di sinistra.
Poi, tutto d’un tratto, quasi fosse presupposto ontologico degli avvenimenti, esplode l’apocalissi zombie.
Enrico (Antonio Bannò), vicino ai militanti d’estrema destra, si ritrova l’unico sopravvissuto in mezzo a una calca di zombie (in cui si sono tramutati tutti i manifestanti) che si accaniscono sui pochi corpi ancora agonizzanti. Terrorizzato, cerca una disperata via di fuga e la trova proprio all’interno del centro d’accoglienza contro cui fino a pochi attimi prima manifestava indignazione.
I migranti lo sentono bussare forsennato alla porta in ferro, e gli aprono offrendogli rifugio.
Una volta dentro, inutile dire che Enrico si troverà a dover celare la sua appartenenza politica tra coloro che considera nemici da odiare e al tempo stesso – simile a quanto accade al Derek del celebre American History X – farà i conti con l’ineluttabile messa in crisi del suo credo.
La condizione del protagonista, insieme surreale e inerosabile, diviene la drammatica cartina al tornasole di un Paese in cui paranoia e diffidenza pervadono l’esistenza di ognuno di noi.
Riuscirà la permanenza coatta con gli ospiti – tra cui si impongono i personaggi del piccolo Alì (Pape Momar Diop) e del gigante Ibraihim (Sidy Diop) – e gli operatori del centro a mutare le idee di Enrico? Senza dubbio il dover oscillare tra un risentimento represso e una solidarietà imposta dalle condizioni di sopravvivenza costringerà il protagonista a guardarsi allo specchio, stavolta senza i filtri degli slogan politici.
Lo scioglimento del film passa per un finale capace di restituire un senso profondo e forse inaspettato, sottraendo quindi l’opera a una classificazione stringente e candidandola ad annoverarsi tra quei piccoli gioielli underground che imprimono il loro graffiante giudizio su un momento storico.
Ma c’è dell’altro. Al netto del focus sul tema centrale (che è il folle odio razzista nei confronti dell’altro), almeno un paio di elementi, strettamente connessi tra loro, meritano una riflessione aggiuntiva.
Il primo è l’immediato orizzonte universale su cui si staglia un prodotto che all’apparenza ha una ragion d’essere particolare, locale.
Cioè se Roma, per evidenti ragioni di cronaca, è il disastroso teatro scelto coscientemente per rappresentare questa trama orrorifica, l’allegoria della crisi sociale e degli odierni deliri xenofobi  si propaga ben oltre la Capitale d’Italia e, a pochi giorni dalle elezioni Europee sferzate dai venti del sovranismo e dei populismi reazionari, assurge al ruolo di monito continentale.
Il secondo riguarda l’immaginario collettivo e l’orbita culturale in cui si potrebbe iscrivere quest’opera.
Go-Home è stato infatti definito come un “horror politico” per l’inconfondibile messaggio da cui muove la matrice espressiva. Tuttavia non è certo l’unica opera (di genere horror e non solo) che sta assorbendo queste istanze, e lo si nota in tutta evidenza nella produzione hollywoodiana di questi ultimi anni il cui imperativo – con esplicita denuncia rispetto alle derive discriminatorie riacuitesi negli Usa di Trump – sembra essere diventato “fuggi via”.
Questo significa forse che “vecchi” cult quali Profondo Rosso di Dario Argento, il cinema di John Carpenter o i vari “zombie movies” di George A. Romero non fossero (horror) politici? Certo che no.
Nella loro carica avveniristica e insieme conturbante, nelle loro pieghe distopiche e stranianti, nella loro demolizione totale di ogni conciliante standard espressivo erano forse ben più politici di qualsiasi opera che contempli un’esplicitazione dei suoi messaggi sociali.
Eppure è proprio questa odierna esigenza di dover demarcare in senso esplicito le proprie categorie di denuncia – riscontrabile, come già detto, tanto in Go Home quanto in altri prodotti culturali contemporanei – che risulta essere sintomatica rispetto ai tempi che corrono.
Quasi a dire che l’allegoria da sciogliere non basta più, oggi c’è bisogno di esplicitare la metafora, rendere chiaro che gli zombi al collasso siamo noi quando ergiamo un muro di odio in difesa di una presunta e superiore identità nazionale.
Quasi a dire che d’altronde l’apocalisse, almeno quella valoriale, è qui e ora. E quindi lo spazio che intercorre tra una metafora e il suo futuribile dispiegarsi nella realtà contemporanea, è pari a zero.  Perché non sono gli horror a diventare politici, semmai è la politica a essere horror.

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