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RECENSIONE


mar 14 luglio 2020

“REALITY” DI GIUSEPPE GENNA: VIAGGIO AL TERMINE DELLA PANDEMIA

Nel suo ultimo libro, “Reality”, Giuseppe Genna compie un viaggio al termine della pandemia, attraversa i luoghi – strade, fabbriche, ospedali, terapie intensive, case, chiese, grattacieli, cimiteri – e le figure centrali e periferiche degli ultimi mesi – il barista, l’infermiera, il prete, il politico, il funzionario, lo sbirro, l’ambulante – per restituirci i tasselli indispensabili a compilare il puzzle, a giungere a quella che potrebbe essere la soluzione di un vero e proprio “giallo”, esplicitato fin dal sottotitolo del libro: “cosa è successo”.

«Perché veglio? Uno deve vegliare dicono. Uno deve essere presente». E questa presenza è l’io narrante del libro, lo scrittore Giuseppe Genna, protagonista di un impetuoso viaggio al termine della pandemia nel libro Reality. Cosa è successo (Rizzoli, 2020), di cui pubblichiamo un estratto per gentile concessione di autore e casa editrice.

In un testo ibrido tra narrativa e saggistica Genna si fa carico del fardello e della necessità di testimonianza che gli appartiene, attraversa i luoghi – strade, fabbriche, ospedali, terapie intensive, case, chiese, grattacieli, cimiteri – e le figure centrali e periferiche degli ultimi mesi – il barista, l’infermiera, il prete, il politico, il funzionario, lo sbirro, l’ambulante – per restituirci i tasselli indispensabili a compilare il puzzle, a giungere a quella che potrebbe essere la soluzione di un vero e proprio “giallo”, esplicitato fin dal sottotitolo del libro: “cosa è successo”.

Un cahier de doléances, un diario della contaminazione, un disperante reality show girato in una Milano «collassata, severa, pudica, pretenziosa, iper-contemporanea, internazionale, boriosa, spaventata, notturna, attonita, funebre, funestata, assediata, rattrappita, raddoppiata, irredenta, rugginosa, performativa, rivelata, impenitente, darwiniana» dove la pandemia c’era già, ancora prima di deflagrare. Una veglia compassionevole alla ricerca di una flebile e tremula speranza.


Reality. Cosa è successo
[un estratto dal primo capitolo del libro]

Giriamo la notte divorati dal fuoco, consumati dalla vita e dall’ansia di non essere più noi giriamo e giriamo, per la città concentrica giriamo e facciamo questo: guardiamo.
Siamo attoniti.

Guardiamo l’uomo, vediamo dio, che è oggettivo. Sono i giorni della piaga, della piaga celeste e terrestre. Non sappiamo più cosa sia la terra, il cielo è basso la notte quando giriamo per le strade camionali deserte, spettrali sotto i grandi lampioni a led che creano una polvere di luce arancione e fredda, sembriamo alieni lungo i Navigli che a raggiera escono dal perimetro e irrorano le campagne chimiche. I Navigli di Leonardo da Vinci fumano nella notte gelida e svuotata, la loro acqua è pesante e nera, a gorghi lenti in superficie, e sugli argini corrono i grandi ratti oscuri dalla vita misteriosa. La nebbia confonde le nostre solitudini in questo hinterland in vetrocemento, nei prati di erba gelata tra i tronconi delle tangenziali.

Abbiamo in vista la città Milano, la città divina, è una raggiera, un sistema circolare, adagiata su un piano in fossato che contribuisce all’insalubrità dell’aria e vive da sempre le sue celebri epidemie dimenticandole, chiusa nelle mura a cerchio, mura medioevali in cotto annerite dallo smog di tutto il Novecento, infiniti lazzaretti e cimiteri a fosse comuni, secoli di morti per pestilenze mai debellate, corpi infetti a migliaia murati nella calce sottoterra, ossa degli appestati ad adornare le pareti delle chiese in centro, obliati i comitati di salute pubblica, muti nei secoli i cardinali che hanno tuonato dal Duomo – la cattedrale al centro delle cerchie concentriche ci acceca – e l’idea stessa dell’epidemia solo da poco fatta fashion, fatta food, fatta design, in un tempo recente e friabile. Una metropoli che si è glitterata nell’ultimo decennio, una pandemia del consumo veloce, il piombo reso oro atomicamente instabile. La capitale immorale della nazione Italia, ma priva delle dolcezze italiane, disattenta e attrattiva, dieci milioni di turisti l’anno. Produce. Produce e produce. Le sfilate sotto i fari numinosi sulle passerelle, le top lunari nella luce assoluta dei défilé, gli chef master che si affacciano dalle tv, è la capitale delle tv private, patria dei premier più contestati e ambigui. Milano a ondate elettriche si accende e la guardano le metropoli del pianeta.
E adesso è buia.

Lo scrittore va e vede, lo scrittore sono io. Chino sul serbatoio della Vespa male in arnese, lungo la pista del viale a tre corsie dall’aeroporto civile punto al centro di quest’urbe indecente che non si illumina, io sono l’unico mezzo circolante, anche in direzione contraria non c’è nessuno, vado a penetrare le mura della città dal passaggio a sudest detto “I tre ponti”, provenendo dallo scalo cittadino di Linate all’undicesima settimana dell’anno, al ventesimo giorno del contagio, ora che tutto è chiuso, ora che tutto è rivelato. Ogni giorno della pandemia illumina i precedenti, distorce le percezioni che avevamo del contagio, ne ridevamo, erano i cinesi all’inizio, abbiamo dimenticato ogni cosa, ogni data. Viviamo solo adesso. Viviamo in attesa che il premier e le infinite autorità preposte ci parlino, dai social, dai vecchi televisori al plasma, ci chiudano ancora un poco di più, un poco di più, ci sottraggano qualche grammo ancora di libertà. È dolce e senza memoria perdere le libertà un poco alla volta.
Sui tabelloni elettronici delle autostrade mentre punto verso il centro pulsano le scritte arancione freddo NON VIAGGIATE.

Sono uscito verso le tangenziali per apprezzare il profumo dei tubi di scappamento che non c’erano, per credere nell’invisibile, fosse dio o fossero le molecole di virus poco importa, qualunque invisibile mi va bene, sono uscito per vedere sospesi sopra l’erba medica e la veccia gli stracci dei sacchetti in cellophane lacerati nelle zone di mezzo tra statale e tangenziale, gonfiati dall’aria primaverile, che gela di colpo. Voglio vedere tutto. Vedo tutti: non c’è nessuno.

Ho il muco nei polmoni, io, tossisco respirando con lo spasmo, l’asma mi prende, a volte uso il Ventolin, fumo come non mai, inalo i batteri che tossisco nel casco integrale, c’è un odore batterico dell’alito, non sono andato a fare il tampone, potrei avercelo addosso. Tossisco da tre mesi senza febbre e di giorno in giorno mi vedono nei soprassalti della raucedine, ho gli accessi, nessuno mi badava a inizio marzo, ma ora si allontanano spaventati, adesso stanno iniziando a biasimarmi. La tosse è una colpa…

Raggiungo i massimi chilometri orari verso Milano la collassata. È un infarto della città vetrina. Gli Airbnb non sono andati in crisi: non esistono più. Le economie circolari non sono più un’esigenza. I contagi dei prossimi giorni sono l’effetto delle incubazioni dei giorni scorsi. La crisi ecologica pare dimenticata, la catastrofe futura è mutata nell’apocalisse del presente. L’aria è radioattiva di virus, l’ambiente non è più da salvare. L’ambiente non salva più. L’ambiente è il figlio di puttana, un capriccio della morte, un elemento selenico e antagonista, il cardiogramma piatto di una natura acuta perché insidiosa, subdola, del tutto inorganica.

Pubblicato per Rizzoli
© 2020 Giuseppe Genna. Estratto pubblicato per gentile concessione dell’autore in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)



Giuseppe Genna è autore di numerosi romanzi tra cui Nel nome di Ishmael; Dies Irae; Io, Hitler; La vita umana sul pianeta Terra; Assalto a un tempo devastato e vile; History.
Reality. Cosa è successo è il suo ultimo libro.
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