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RECENSIONE


lun 7 dicembre 2020

“ETHOS” È UNA TERAPIA COLLETTIVA

Ambientata in una Istanbul cupa e malinconica, in cui i minareti e il lungomare da cartolina sono relegati ai margini delle inquadrature, la serie turca “Ethos” prodotta e distribuita da Netflix è già considerata un caso internazionale, soprattutto a partire dalla forte componente psicoanalitica che caratterizza regia e sceneggiatura.

Siamo in uno studio di un’analista in un quartiere alto borghese di Istanbul. Meryem è una giovane musulmana con il capo coperto dal velo e dopo essere svenuta alcune volte in circostanze poco chiare viene indirizzata dalla psicologa Peri, senza velo e non credente, per iniziare un percorso di analisi.

Gli svenimenti, dicono i dottori a Meryem, non sono dovuti a scompensi fisici. Se c’è qualcosa che non va, bisogna trovarlo nella testa. O meglio, nel subconscio.
Così inizia la prima delle otto puntate di Bir Baskadir, serie turca prodotta e distribuita da Netflix già considerata un caso internazionale. In Italia e nel mondo anglosassone è indicizzata col titolo Ethos, sottolineando la forte componente psicoanalitica junghiana presente nella sceneggiatura di Berkun Oya.

Ma «Bir Baskadir» in turco significa «è un altro» o «è un’altra», senza distinzione di genere o indicazioni di oggetto animato o inanimato, in grado di evocare con più efficacia un’alterità antropologica che funge da motore narrativo.

Trovando in Meryem il proprio fulcro, la narrazione si espande a raggiera includendo la rete di relazioni che gravita attorno alla giovane donna, fino a ricreare, in scala, la moltitudine eterogenea che vive il territorio di Istanbul.

Emergono intrecci tra personaggi che sembrano appartenere a mondi diversi e antitetici – la figlia di una guida spirituale islamica chiusa in un bagno di un night con quella che sembra essere la sua compagna; l’ex soldato d’élite, fratello di Meryem, che sbarca il lunario come buttafuori nel centro di Istanbul; l’intellettualoide Peri che diventa amica di una starlette da soap opera «per campagnoli» conosciuta a yoga… – ma tutti contenuti all’interno dei confini di una Istanbul volutamente cupa e malinconica.

Le riprese insistono su vialoni anonimi, periferie rurali desolanti, appartamenti freddi, ospedali e locali notturni come non-luoghi per antonomasia. L’Istanbul da cartolina, con i minareti, le cupole delle moschee, i mercati brulicanti e il lungomare sul bosforo, è relegata fuori dall’inquadratura, come una distrazione di cui liberarsi.

«Bir Baskadir», appunto, parla di “altro”. Mette sullo schermo una realtà fatta di incomprensioni, incomunicabilità, insoddisfazione e, soprattutto, solitudine. Una condizione in cui tutti i personaggi si trovano perché prigionieri di pregiudizi o traumi che non riescono né ad affrontare né ad accettare.

Come Peri, la psicologa, che scoppia a piangere prendendo coscienza del proprio disprezzo per “loro”, i musulmani osservanti, «che ormai comandano tutto». O Yasin, il fratello soldato di Meryem, intrappolato in una gabbia emotiva che gli impedisce di aiutare la moglie affetta da una depressione catatonica.

La scelta della colonna sonora, composta da temi Arabesk molto noti in Turchia, all’apparenza rimanda a un passato recente ricordato con nostalgia. Ma, come nota l’utente @hazirananiz su Twitter, potrebbe indicare un’ulteriore chiave di lettura per l’intera serie.

Il primo episodio, ad esempio, si conclude col video di un concerto di Ferdi Ozbegen, cantante arabesk omosessuale e figlio di padre cretese e madre armena, «due tra le comunità più odiate nella sua società». Ozbegen, secondo @hazirananiz, «porta sulle sue spalle un fardello sociale senza fine, proprio come i personaggi di Bir Baskadir».

Lanciata su Netflix nel mese di novembre, Bir Baskadir è al centro di un forte dibattito nella società turca.
Nazlan Ertan scrive su «Al-Monitor»: «La prima reazione alla serie quando è uscita il 12 novembre – almeno tra i turchi e gli spettatori turchi all’estero – è stata di elogio. “La serie mostra come tutti in Turchia sono estranei a tutti gli altri…e questo genera odio in chiunque” ha twittato lo storico Soner Cagaptay, autore e senior fellow al Washington Institute. Sina Kologlu, critico cinematografico per il quotidiano «Milliyet», ha detto che la gente aspettava da molto una serie del genere: “L’ho vista con tutta la famiglia” ha scritto il 16 novembre. Identità etniche, il velo, secolari contro conservatori, gay e transessuali, c’è tutto».

Ma la prima ondata di entusiasmo ha generato una contro-ondata di critiche, rivolte in particolare alla caratterizzazione un po’ stereotipata data dallo sceneggiatore e regista Berkun Oya ai suoi personaggi. Sempre su «Al-Monitor», Ertan parla di una “check-list” delle contraddizioni della Turchia contemporanea e riporta l’opinione di Oray Egin, editorialista del quotidiano «Haberturk», che «scredita la serie per la sua romanticizzazione, per lo “sguardo orientalista” che riserva ai conservatori, e per la caricatura che fa dell’élite secolare».

Al netto del dibattito in seno alla società turca, Bir Baskadir resta un prodotto di indubbia qualità. Più che un documentario romanzato sulla Turchia contemporanea, la serie mette in scena una terapia (junghiana) collettiva che, pur ambientata a Istanbul, risuona in un pubblico internazionale.

Bir Baskadir non esprime giudizi. Come in una seduta psicanalitica, invita i personaggi – e chi li guarda – a scavare dentro di sé. A lasciare emergere un doloroso subconscio con cui riappacificarsi, per meglio stare con sé stessi e con gli altri.
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