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dom 6 agosto 2017

DISUGUAGLIANZE INACCETTABILI

Assolutamente no, le disuguaglianze non vengono abbattute dalla crescita economica anzi è vero il contrario

La povertà aumenta anche nei Paesi sviluppati, così come la distanza tra chi è ricchissimo e chi è poverissimo. In pochi detengono patrimoni superiori al Pil di alcuni Paesi africani. Per combattere la disuguaglianza basterebbe, dunque, ridurre la povertà?
In teoria sarebbe possibile ridurre la povertà con effetti molto limitati sulla disuguaglianza. Questo vogliono coloro che considerano la povertà il problema principale, e credono che la disuguaglianza in quanto tale non sia un problema.
Si potrebbe fare con provvedimenti che aumentano il reddito dei poveri, senza ridurre il reddito di quelli più in alto nella scala sociale. Così chi sta in basso ne beneficia, ma chi sta in alto non ne viene molto penalizzato. Si tratta, però, di decidere quale sia il problema rilevante: solo la povertà o anche le disuguaglianza.
Potremmo avere una società dove tutti si trovano appena sopra la soglia di povertà, tranne pochi ricchissimi con disuguaglianze enormi. È chiaro che così non potrebbe funzionare, la disuguaglianza è qualcosa di cui ci si deve occupare di per sé e non solo relativamente alla povertà che ne potrebbe derivare.
L’Italia è un Paese con una forte immobilità sociale. Cosa è cambiato a riguardo durante la crisi economica?
Non abbiamo dati certi riguardo ai fenomeni in corso, ma ci sono molti segnali che fanno pensare a un peggioramento di questa situazione. Uno dei fattori da cui dipende l’immobilità sociale è il fatto che coloro che provengono da famiglie meno abbienti in genere non si laureano, mentre in generale i titoli di studio elevati sono la condizione per disporre di redditi elevati da adulti.
Con la crisi molte persone provenienti da famiglie non benestanti hanno abbandonato gli studi o hanno scelto di non iscriversi proprio all’università. Tutto questo fa pensare che tra qualche anno il fenomeno dell’immobilità sociale sarà aggravato. La diseguaglianza è un fattore che aggrava l’immobilità sociale, non la migliora.
Oggi avere una laurea non dà la certezza di trovare un buon posto di lavoro o guadagnare molto di più di chi ha un diploma. Il riferimento è ai cosiddetti working poors, coloro che hanno una laurea e un lavoro a tempo pieno, ma non hanno un reddito sufficiente.
Mediamente il titolo di studio più alto rende: chi ha la laurea guadagna di più di chi possiede solo un diploma. Ciò non significa che non ci sono laureati che se la passano male, ma ci sono diplomati che se la passano ancora peggio dei laureati. La laurea non è una garanzia al cento per cento di poter godere di una vita decente, ma resta un fattore che migliora la vita.
In Italia, rispetto agli altri Paesi, esiste in genere una maggiore variabilità di reddito tra coloro che hanno lo stesso titolo di studio. Occorrerebbe quindi capire da cosa dipende. Uno dei fattori, secondo le nostre indagini, è l’origine familiare: a parità di titolo di studio anche se il figlio di un povero riesce a laurearsi non guadagnerà la stessa cifra del figlio di un ricco con la sua stessa laurea, ma guadagnerà di meno.
Ci sono dei vantaggi in Italia che derivano dalla famiglia e che non vengono compensati dall’impianto sociale. Questa è una cosa grave, perché vuol dire che non ci sono le stesse opportunità neanche quando si permette a chi parte svantaggiato di arrivare con lo studio allo stesso punto di arrivo di un figlio di famiglia privilegiata.
Cosa può fare la politica?
La politica può fare molto, aumentando le opportunità di istruzione per coloro che vengono da ambienti meno favoriti. D’altronde uno dei compiti più importanti cui dovrebbe assolvere la scuola pubblica è proprio quello di favorire la mobilità sociale. È chiaro che questo compito viene facilitato o reso più difficile dalle riforme che vengono attuate dalla politica.
Inoltre, si possono correggere molto i vantaggi che derivano dai “non meriti”. Il ragionamento è questo: se viene remunerato di più qualcuno che non è più bravo significa che esiste un reddito che si può dare anche a chi non fa cose utili per il Paese.
Gli economisti le chiamano rendite e per combatterle bisognerebbe creare una condizione di concorrenza buona. Impedire di avere delle rendite vuole dire anche impedire di pagare di più chi non se lo merita.
Fare buone politiche della concorrenza o meno dipende da ciò che decidono i politici. C’è un legame abbastanza interessante tra certe forme di concorrenza e la lotta a certe disuguaglianze.
più chi non se lo merita. Fare buone politiche della concorrenza o meno dipende da ciò che decidono di fare i decisori politici. C’è un legame abbastanza interessante tra certe forme di concorrenza e la lotta a certe disuguaglianze.
A differenza di altri economisti, non attribuisce dunque al capitalismo la responsabilità delle diseguaglianze in sé?
Il capitalismo non è uno solo, ce ne sono tanti. Dipende da quali sono le regole, da come vengono fronteggiati i malesseri sociali. Il capitalismo che non è concorrenziale in senso buono e favorisce le rendite, è presente in alcuni Paesi più che in altri, ma non è l’unico modello possibile.
Da noi c’è un’influenza forte della famiglia sul destino dei figli, che va oltre il percorso di studi. Significa che abbiamo un retaggio antico, scarsamente concorrenziale, che aggrava le ingiustizie sociali.
Chi propone di andare oltre il sistema capitalistico dovrebbe spiegare un po’ meglio come si dovrebbero disegnare le istituzioni per far funzionare le cose meglio di oggi.
Sono del parere che anche all’interno di un mercato che tutela i diritti di proprietà privata si possano fare cose buone, molto migliori di quelle cui assistiamo nel nostro Paese in particolare.
Prima della crisi si sono registrati tassi di crescita notevoli, ma ciò non ha influito sulla diminuzione delle disuguaglianze. Cosa significa?
Le disuguaglianze non vengono abbattute dalla crescita economica anzi è vero il contrario. Dall’inizio degli anni Novanta fino a 2007- 2008 la crescita in molti Paesi è stata sostenuta, ma le diseguaglianze sono notevolmente aumentate.
Dunque, non si può sostenere che tutto si risolva con la crescita economica. Chi sostiene questo non vuole affrontare davvero il problema delle diseguaglianze. Se la crescita contribuisce o meno a diminuire le diseguaglianze dipende da un insieme di altre politiche: da come funziona il mercato del lavoro, dalle forme di regolamentazione e accesso ai mercati finanziari, da come viene concepita e realizzata la concorrenza, se i diritti della proprietà intellettuale come i brevetti sono super protetti (come accade oggi), oppure si hanno forme di protezione più deboli.
Ecco, tutto questo è certamente compatibile con la crescita e, a seconda di come viene declinato dall’uomo, influisce sulle diseguaglianze.
Secondo alcuni, la disuguaglianza si può ridurre con un welfare finanziato da una tassazione maggiormente progressiva, con l’obiettivo di correggere i meccanismi distorti del mercato. È questa la soluzione?
Serve una politica redistributiva congegnata molto meglio di quella che abbiamo oggi. Sarebbe necessaria una forma di tassazione abbastanza omogena sui patrimoni a livello internazionale: una cosa sicuramente molto utile per la lotta alle disuguaglianze.
Un problema in Italia è la mancanza di strategia contro la povertà. La maggior parte delle disuguaglianze createsi negli ultimi vent’anni si sono prodotte nei mercati. Non sono, quindi, il risultato di uno Stato che non distribuisce più come faceva prima.
Il mercato del lavoro, ad esempio, è diventato un luogo di disuguaglianze enormi, prima non lo era. Occorre quindi intervenire nei mercati per evitare che si creino le disuguaglianze.
Una volta create le disuguaglianze, si mettono in moto dinamiche politiche che rendono più difficile un’equa redistribuzione, a causa dei molti avvantaggiati che premono affinché non si alzino le aliquote delle imposte per i redditi più alti.
C’è molto lavoro da fare sulla prevenzione della corruzione e sulla distribuzione degli utili, una volta che la disuguaglianza si è manifestata nei mercati.
Eppure in Italia è solo l’1 per cento della popolazione ad avere in mano più del 40 per cento della ricchezza nazionale complessiva. Perché la politica non riesce a ridimensionare i privilegi di un numero così esiguo di persone, in modo che beneficiarne sia la stragrande maggioranza, definita dal movimento Occupy Wall Street il «99 per cento»?
Questo dato si riferisce ai patrimoni, alla ricchezza e non ai redditi. La ricchezza e i patrimoni sono molto concentrati per loro natura. Una patrimoniale andrebbe fatta, ma coordinata almeno a livello europeo. Altrimenti potrebbe creare più problemi di quelli che risolverebbe.
Inoltre l’1 per cento e i vicini all’1 per cento più ricco sono molto potenti. Ci sono studi che dimostrano, per l’Italia e per gli altri Paesi, che le opinioni e le preferenze di una piccola quota di persone molto ricche contano di più delle opinioni di un grandissimo numero di persone.
La capacità dei molto ricchi di condizionare la politica è molto forte e questa è una delle più grandi preoccupazioni che suscita la disuguaglianza in questi anni. Dà luogo a un sistema politico che funziona in maniera oligarchica, fortemente condizionato dal potere di pochi.
C’è poi un altro aspetto che rende difficile politiche diverse. Sono le lacerazioni all’interno di quel 99 per cento che non è un blocco omogeno, ma è composto da persone con interessi diversi, che nutrono speranze molto diverse di uscire da eventuali difficoltà economiche.
Tra chi sta vicino all’1 per cento più ricco e chi sta in fondo, al polo estremo della povertà non c’è nessun collegamento né possibilità di dialogo o accordo per sostenere politiche diverse.
Abbiamo una società che ha al vertice un piccolo gruppo di persone molto potenti e per il resto è molto frazionata. I potenti hanno grande influenza sulla politica e gli altri sono molto deboli, perché divisi. Non è una bella storia.
Come vede il futuro dell’Italia?
Non lo vedo tanto bene, se devo essere sincero. La mia speranza è che quella parte di popolazione fortemente danneggiata da ciò che è accaduto si renda conto di essere stata danneggiata e in qualche modo spinga i politici, anche quelli che non fanno parte dell’establishment, a porsi i problemi in modo diverso.
La mia idea è che il governo va per la sua strada anche per la debolezza molto forte nella capacità conoscitiva da parte di chi dovrebbe ostacolarlo.
Se si guardano le proposte per combattere le diseguaglianze da parte dei diversi schieramenti politici si noterà che sono deludenti, poco articolate. Sembrano più degli spot pubblicitari che non progetti seri, concreti basati su analisi competenti su cui costruire un’alternativa.
*Maurizio Franzini è Professore Ordinario di Politica Economica alla Sapienza, Università di Roma, e direttore del “Menabò di Etica e Economia”. In precedenza ha insegnato nell’Università di Siena e nell’Università della Calabria. E’ direttore del Dipartimento di Economia e diritto; direttore del Centro di Ricerca Interuniversitario sullo Stato Sociale, CRISS- Network on the economics of the Welfare State (Università di Siena, Sapienza Università di Roma e Università Bocconi Milano ); direttore della Scuola di Dottorato in Economia della Sapienza, Università di Roma; co-direttore della rivista Meridiana; coordinatore dell’area di ricerca “Economy and the Environment” nella European Association for Evolutionary Political Economy. Ha pubblicato “Disuguaglianze inaccettabili”, Laterza 2013, e, con Elena Granaglia e Michele Raitano, “Dobbiamo preoccuparci dei ricchi? Le disuguaglianze estreme nel capitalismo contemporaneo”, Il Mulino, 2014. I suoi interessi di ricerca attualmente sono rivolti allo studio delle disuguaglianze, al rapporto tra ambiente e mercati, all’analisi economica delle istituzioni, al rapporto tra politiche sociali e crescita economica.

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