Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


gio 4 novembre 2021

CRONACHE ANTICAPITALISTE

A dispetto del titolo, “Cronache anticapitaliste” di David Harvey è un gioiello argomentativo attualissimo e necessario, capace di traghettare le battaglie contro lo sfruttamento dell’essere umano e del pianeta in una cornice pratica e tutt’altro che ideologica, radicale, sì, ma calata nella più assoluta contemporaneità.

Cronache anticapitaliste (Feltrinelli, 2021), l’ultimo libro di David Harvey, potrebbe apparire come un volume “inattuale”, che evoca titoli e slogan vetusti, analisi e categorie politiche fuori tempo massimo. E invece non è così: il libro – un volumetto breve e ficcante – non rientra affatto nel vizio di retrotopia (quella che Bauman spiega essere l’inverso dell’utopia, cioè un’utopia rivolta all’indietro, regressiva) ma è al contrario un gioiello argomentativo attualissimo e necessario, capace di traghettare le battaglie anticapitaliste in una cornice pratica e tutt’altro che ideologica, radicale, sì, ma calata nella più assoluta contemporaneità.

Le possibilità che il capitalismo scompaia sono le stesse che ha un meteorite di colpire e distruggere un pianeta, ha detto una volta Fredric Jameson, ed è proprio questa ineluttabilità che secondo Harvey ci deve spingere a lottare contro le modalità predefinite in cui siamo ingabbiati e a trovare nuove soluzioni più adeguate all’intera collettività. “L’utopia” liberista viene così riconfigurata in uno scenario che, pur certificandone il tremendo fascino a livello planetario, ne analizza e decostruisce le trappole nascoste. A partire dalla prima: che il concetto di libertà non può essere elevato a valore assoluto se finisce per danneggiare i molti a favore dei pochi. Come spiega anche Polanyi nel suo libro La grande trasformazione, le libertà buone si distinguono da quelle cattive: le prime sono i diritti civili, le seconde sono le cosiddette “libertà” di sfruttamento e accumulazione, per definizione a somma zero e in cui si prevede una parte che soffre smisuratamente e un’altra che invece gode di questa (presunta) libertà di sfruttare.

«Esiste ancora la lotta di classe? A che ci serve oggi Marx? Siamo destinati a subire le regole del capitale, che ormai è inseparabile da ogni aspetto delle nostre vite?»

In questo senso la questione ecologica è un esempio classico nel quale la spoliazione delle risorse del pianeta crea squilibri che danneggiano la collettività; proprio come lo sfruttamento del lavoro porta a squilibri di reddito crescenti, in uno scenario in cui la globalizzazione – o almeno quella che si è data a partire dal modello neoliberista – non fa altro che amplificare e agevolare sfruttamento e squilibri su scala planetaria.

Ma le forme di utopismo liberale sono spesso anche molto più subdole, come il meccanismo del “consumismo compensativo” descritto da André Gorz, che di fatto rende l’accesso ai consumi più agevole scaricandone tuttavia i costi sulla classe lavoratrice a cui si svalutano via via tutele e salari in maniera direttamente proporzionale al ribasso dei prezzi dei prodotti consumati. Come se la qualità della vita umana potesse ridursi ai soli consumi materiali e non anche (e soprattutto) al diritto di accedere a tutte le forme d’assistenza e sviluppo istituzionali.

Le cronache anticapitaliste raccolgono dunque storie di resistenza e contrasto a meccanismi ormai sedimentati nel tempo e assimilati a tal punto da risultare scontati e “realisticamente accettabili”, mai messi in discussione se non nei loro meri aspetti esteriori e superficiali. Di contro Harvey, com’è solito fare, cerca di colpire a fondo.


Cos’è dunque l’odierno strapotere dei giganti digitali se non un tremendo squilibrio tra capitale e lavoro in cui conoscenze e risorse collettive vengono assorbite dal capitale fisso degli algoritmi e il lavoro vivo degli utilizzatori e sviluppatori viene pagato zero o comunque meno del valore intangibile creato?

La tecnologia – nella declinazione capitalistica – occulta il lavoro, brilla d’una luce sottratta alla collettività e diventa la massima espressione dell’alienazione intesa come sottrazione di valore al lavoratore. Marx, che reinterpretato rappresenta per Harvey uno strumento ancora validissimo per comprendere la contemporaneità, lo aveva descritto (così bene da prevederlo) nei Grundrisse: la conoscenza scientifica è ormai inglobata nella macchina e totalmente alienata dalla proprietà del lavoratore; l’evoluzione dell’intelligenza artificiale non farà altro che estremizzare il concetto fino a portarlo a conseguenze irreversibili.

Altra plastica dimostrazione è il land grabbing, ennesimo caposaldo dell’accumulazione capitalista che muta di continuo le sue forme ma rimane fondamentalmente uguale: dal colonialismo ottocentesco eseguito tramite il braccio armato degli eserciti alla conquista di terre attraverso il potere economico delle trade war, sempre si tratta di sottrarre risorse alle comunità per ragioni speculative. Harvey la chiama «accumulazione per espropriazione». Come raccontato nella rubrica #Materia, è avvenuto, avviene e avverrà con l’acqua, il coltan, il litio, la carne, l’oro e il petrolio. E tanto altro ancora.

Un sistema che nasce su delle basi violente dell’espropriazione, del resto, perpetuerà sempre quell’ingranaggio premurandosi soltanto di ritoccare le modalità d’ingaggio. Il sistema capitalistico nasce per restare identico a sé stesso, per rimanere sostanzialmente uguale al suo passato in quanto il tempo del capitale è un tempo piatto. Lo “spatial fix”, come Marx definiva l’espansione del capitale nello spazio, è la grande strada maestra: quando il saggio di profitto in una regione scende o si assiste a una crisi di sovrapproduzione, vengono aggrediti nuovi mercati sia per trovare lavoro a basso costo sia per creare dei nuovi sbocchi per le eccedenze di produzione invendute.

E così nella storia il capitale ha ricorso al colonialismo, poi alle trade war e infine ai sofisticati dispositivi d’ingegneria finanziaria costruendo infrastrutture in paesi emergenti tramite prestiti strutturati in modo tale da creare una vera e propria dipendenza politica dei territori più poveri nei confronti di quelli più ricchi: una sorta di “soft power” che sostituisce un controllo invisibile (ma altrettanto violento) alla brutalità manifesta delle arti. Non sempre. Perché un tale ecosistema “perfetto”, afferma Harvey, ha bisogno di supporti politici adeguati a garantirne lo sviluppo in termini economici, cioè dei mercati. Ed ecco la matrice d’interesse – ancor prima che ideologica – dell’impiantare governi fantoccio in paesi strategici unicamente a fini speculativi e provocando così la maggior parte delle radicalizzazioni terroristiche e delle guerre a cui assistiamo.
La tensione creata dall’espansionismo del capitale si trasforma inevitabilmente in una serie di conflitti senza fine. Lo stesse schermaglie contemporanee tra Cina e Stati Uniti non sono altro che un vano tentativo di bloccare la transizione della potenza orientale dall’essere “grande fabbrica del mondo” al tramutarsi in un’economia ad alta concentrazione capitalistica – quale peraltro è già. È un conflitto perverso dietro la cui presunta opposizione ideologica si cela una pura guerra tra competitor dentro la solita e ben nota cornice speculativa. Anche se in tal senso il capitalismo autoritario cinese rappresenta per l’occidente anche la minaccia di mettere a nudo una volta per tutto le inefficienze e contraddizioni del modello liberale nella gestione delle emergenze sociali.

Dalle piccole comunità in rivolta contro il fracking che sta devastando le loro valli e montagne a intere popolazioni che respingono il “Washington consensus”, le cronache anticapitaliste raccontate nel volume di Harvey sono spesso storie di ribellioni giuste ma confinate a una marginalità storica, ed è proprio questo il più grande trionfo del capitalismo: isolare le lotte per poi gestirle – e soffocarle – prima che si tramutino in movimenti dalla portata globale.

Sempre più globali, del resto, rimangono i mercati. Mentre le lotte rimangono confinate a livello locale. In questo scenario l’unico grande movimento che ha le potenzialità di ergersi a livello planetario è quello che riguarda il cambiamento climatico, e non a caso la rapida contromossa operata dal capitale per neutralizzarlo è stata d’inglobarlo nel suo sistema di consenso e riferimento, ingabbiandolo in una cornice autoreferenziale e perversa per cui gli stessi grandi inquinatori avranno il compito di trovare le soluzioni adatte, trasformando in realtà il problema nell’ennesima occasione di business: il green.

Ma la soluzione allo devastazione del pianeta e allo sfruttamento del genere umano, ammonisce Harvey, se mai ce ne fosse una è senza dubbio fuori dal sistema capitalistico e passa per un ridimensionamento drastico dei modelli di iper-produzione a cui siamo stati abituati senza alternative di sorta. Le risoluzioni win-win promosse dalla retorica liberista sono un fallimento già scritto, c’è invece bisogno di un’autorità collettiva e planetaria in grado di prendere decisioni diametralmente opposte al delirante “realismo capitalista”.
#david harvey#cronache anticapitaliste#pianeta#sfruttamento

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