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RECENSIONE


mer 8 marzo 2017

I CORPI «ALLEATI» DI BUTLER E LA POLITICA DELLA STRADA

Riunire, riempire, rinegoziare significa riappropriarsi della dimensione collettiva. I corpi fanno la loro apparizione uno accanto all’altro, insieme, sono "alleati". Lo stesso assembramento reclama un’istanza, spiega la filosofa americana Judith Butler nel suo ultimo libro uscito in italiano, "L'alleanza dei corpi". Tornano alla mente piazza Tahrir al Cairo, Gezi Park a Istanbul, piazza Syntagma ad Atene, i movimenti Occupy e Black Lives Matter negli Stati Uniti.

Riunirsi, riempire, rinegoziare lo spazio pubblico: è come un refrain incessante quello che attraversa le righe dell’ultimo libro di Judith Butler, L’alleanza dei corpi, uscito in edizione italiana per Nottetempo con la minuziosa traduzione di Federico Zappino (L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Nottetempo 2017, 352 pp.; Notes Toward A Performative Theory of Assembly, Harvard University Press, 2015, 248 pp.).
Riunire, riempire, rinegoziare significa riappropriarsi della dimensione collettiva. I corpi fanno la loro apparizione uno accanto all’altro, insieme. Sono «alleati», nelle parole della filosofa americana. Si espongono nelle piazze e per le strade delle nostre città, partecipano alla dimensione pubblica con la loro presenza fisica.

Ergo: lo stesso assembramento reclama un’istanza. Tornano alla mente piazza Tahrir al Cairo, Gezi Park a Istanbul, piazza Syntagma ad Atene, i movimenti Occupy e Black Lives Matter negli Stati Uniti.
«Le politiche identitarie non sono in grado di esaurire la questione piú ampia di cosa significhi, politicamente, vivere insieme, attraverso le differenze, talvolta in una prossimità che non è frutto di una scelta deliberata, specialmente in quei casi in cui vivere insieme, per quanto difficile, resta un imperativo etico e politico. La libertà, d’altronde, è qualcosa che si esercita il più delle volte insieme agli altri, e non necessariamente in modo unitario o conforme. Tale esercizio non presuppone né produce un’identità collettiva, quanto, piuttosto, un insieme di possibilità e di relazioni dinamiche che includono forme di supporto reciproco, conflitto, rotture, gioia, solidarietà».

Corpi «alleati», soggetti «dispensabili»

Quella dei corpi descritti da Butler in questo libro – composto da sei capitoli densi, dal linguaggio accademico, ma comunque divulgativo nell’articolazione di concetti complessi –  non è un’alleanza sancita da un patto sociale. L’alleanza diventa intelligibile attraverso il raduno collettivo. Assembrandosi, i corpi esercitano una funzione critica, ma non chiedono nulla alle istituzioni che possa trovare risposta immediata.

La filosofa americana esplora il «diritto di apparizione» dei corpi e li inserisce in quella che chiama «cornice coalizionale». Il riferimento è a un framework che abbraccia tutti i soggetti «precari», dunque le persone definite «vulnerabili» perché esposte alle disparità economiche, alle discriminazioni di genere, relegate a una scarsa o pregiudizievole visibilità all’interno dello spazio pubblico come i migranti, i disabili, i transessuali. Butler naviga le relazioni che si possono intessere tra le minoranze oppure quei segmenti di popolazione che definisce «dispensabili».

L’esistenza precaria come collante sociale

La vita precaria intesa in questa sua accezione più ampia funziona così come un collante sociale all’interno della dimensione pubblica. Allora,  i soggetti performano la loro precarietà, rivendicano le loro modalità di azione, inscenano i loro bisogni all’interno di uno spazio che è di tutti. Vivono uno accanto all’altro, dormono in piazza nel caso delle occupazioni, condividono: sono i soggetti esclusi i nuovi protagonisti della sfera pubblica.

Il carattere che assumono gli assembramenti è, dunque, rivoluzionario nella tesi di Butler che guarda, tra gli altri, all’esempio di piazza Tahrir al Cairo. In quel preciso momento storico, che ha sancito la fine del governo di Hosni Mubarak, gli egiziani sono stati in grado di organizzare la loro opposizione al regime e hanno de facto permesso una riformulazione dello spazio pubblico.

Oltre il genere

Se il genere è sempre una forma di negoziazione con il potere, la filosofa americana in questo libro va oltre e investiga le connessioni tra performatività (anche di genere) e precarietà, che si concretizzano attraverso gli assembramenti spontanei di rivendicazione che portano a denunciare un’esistenza tanto precaria quanto condivisa.
«Il genere è qualcosa che riceviamo; non è semplicemente iscritto sui nostri corpi, come fosse gesso sull’ardesia, come fossimo passivamente obbligati a portare un marchio. Ciò che siamo obbligati a fare, semmai, è recitare la parte di genere che ci è stata assegnata, e ciò significa, a un livello inconscio, che la nostra formazione si deve a un insieme di fantasie estranee che ci sono state trasmesse attraverso interpellazioni di vario tipo».
Butler va oltre il genere e allarga la lente a tutti coloro che sono esposti a una marginalizzazione nella sfera pubblica. Ma la vulnerabilità di chi trova la sua voce nell’alleanza dei corpi non è da considerarsi come una categoria fissa o cristallizzata nel tempo e nello spazio, perché dipende da una distribuzione diseguale di visibilità e presenza all’interno della dimensione sociale e pubblica. Essa può essere cambiata, trasformata e dunque superata.

Le rivendicazioni dei vulnerabili, dei precari, degli esclusi

La vulnerabilità è politicamente costruita dai soggetti maggioritari (bianchi versus neri, uomini vs donne, nazionalisti vs migranti) e spesso strumentalizzata dagli stessi: ad esempio la narrazione ormai pressoché quotidiana a cui siamo sottoposti che racconta di una minaccia percepita, relativa alla presunta invasione dei migranti in Europa come negli Stati Uniti.

Ma, se la vulnerabilità è politicamente costruita, può essere anche decostruita e quindi trasformata in uno strumento di lotta. La debolezza della precarietà, che è funzionale al discorso del potere, assume così una nuova identità: diviene tattica politica dei corpi alleati e uniti nello spazio pubblico.
«La nozione di «precarietà» designa quella condizione politicamente indotta per cui determinate persone soffrono piú di altre per la perdita delle reti economiche e sociali di sostegno, diventando differenzialmente esposte all’offesa, alla violenza e alla morte. (…) La «precarietà», inoltre, caratterizza la condizione politicamente indotta di vulnerabilità ed esposizione massimizzata di persone soggette all’arbitraria violenza di stato, alla violenza domestica o di strada, così come ad altre forme di violenza non perpetrate dallo stato, ma rispetto alle quali gli strumenti legali degli stati non sono in grado di offrire sufficiente protezione o riparazione».

La risignificazione del concetto di popolo

Gli esclusi si mobilitano, secondo Butler, e sanciscono tacitamente una vera e propria alleanza che in primis implica una riflessione critica del potere e una consapevolezza delle discriminazioni e delle «differenze». Questo, però, non vuol dire che le pratiche di raduno di cui parla la filosofa americana conducano necessariamente alla formazione di un’identità collettiva, che potrebbe invece portare a nuove modalità di esclusione.

Dagli assembramenti nasce una nuova idea di popolo, principale agente dei contesti democratici che si appropria dello spazio pubblico per denunciare la propria condizione precaria. Il concetto di popolo assume nel libro nuovi significati, perché i corpi nelle strade e nelle piazze non fanno altro che esprimere un’alleanza già latente.

Con le parole di Butler:
«Ogni “io” prevede un “noi”, tutte le volte in cui si entra o si esce dalla porta di casa, o ci si trova in uno spazio privo di protezione, o esposti in mezzo alla strada. Potremmo dire che c’è un gruppo, se non proprio un’alleanza, che passeggia là fuori, visibile o meno. […] Questo «io» è allo stesso tempo un «noi», senza che ciò significhi un’impossibile totalità. Essere attori politici è una funzione, un modo di agire in un’ottica di uguaglianza con altri umani – e questa è un’importante idea di Hannah Arendt che resta centrale per le lotte democratiche contemporanee».
I nostri corpi parlano attraverso la loro pluralità, sperimentano la loro stessa precarietà proprio attraverso la percezione collettiva. E se i corpi sono alleati, we the people (dal titolo di un capitolo del libro sulla «libertà di assembramento», con chiaro riferimento alla Costituzione americana, ndr), siamo in grado di concretizzare le nostre istanze attraverso nuove azioni di lotta.

Chi è «il popolo», a questo punto? Esso non corrisponde necessariamente a una determinata popolazione. Le persone che lo costituiscono ne sono l’essenza, ma cercando definizioni precise implicitamente o esplicitamente stabiliamo delle «linee di demarcazione» e, quindi, di esclusione. Allora, ragiona Butler, l’unica strada percorribile per attivare un processo di inclusione è quella che conduce non solo all’estensione del concetto di «riconoscibilità» di un soggetto all’interno di un gruppo di persone, ma che porta all’avvio di un meccanismo di risignificazione e trasformazione del «popolo» in chiave democratica. Prima di tutto, serve fare un passaggio logico:
«Possiamo ora tornare alla domanda più generale: cosa significa rivendicare diritti quando non se ne ha nessuno? Significa rivendicare il potere che ci viene negato, per mettere in evidenza la negazione e combatterla».
Alla fine, però, il ragionamento di Butler sembra mancare di un aspetto: dopo che succede, visto che non è stata prodotta un’identità collettiva?
Alcuni estratti del libro sono online qui e qui

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