Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


gio 25 giugno 2020

C’ERA UNA VOLTA MASSIMO RUGGERO

Arrivai a Londra all’inizio dei ’90. La mia fame di vita pulsava al ritmo dei palazzetti vittoriani di Kensington e Notting Hill ancora pieni di squatters: sembrava impossibile che potessi saziarmi. Mi lasciavo alle spalle la città eterna, con la sua atmosfera incantata e le università attraversate dalle utopie del movimento. Sceglievo il realismo lampeggiante della City, l’inarrestabile ascesa, le promesse di successo. E i loro risvolti oscuri.

Londra negli anni ’90 è la controcultura degli squatters e il faro lampeggiante della City, il vento di ribellione e il gonfiarsi delle nuove bolle di speculazione finanziaria. Per Massimo Ruggero è dove l’incanto del passato tramonta per lasciare spazio a un ruggente e cinico futuro. Stavolta il nastro si riavvolge sullo spartiacque esistenziale dell’iconico protagonista de I diavoli (di nuovo in libreria nella nuova edizione Rizzoli in occasione dell’uscita dell’omonima serie tv) di Guido Maria Brera.

***

Arrivai a Londra all’inizio degli anni Novanta. L’ultima recessione mordeva ancora forte. La prima guerra del Golfo segnava il primo conflitto del mondo che usciva dai blocchi. La violenza fratricida correva verso la Jugoslavia, le due Germanie ufficializzavano la riunione.

Nulla lasciava intravedere ciò che sarebbe successo.

La mia fame di vita era come i palazzetti vittoriani di Kensington e Notting Hill ancora pieni di squatters: sembrava impossibile che potessi saziarmi, come sembrava impossibile che quegli edifici sarebbero stati venduti a milioni di sterline, di lì a poco.

Mi lasciavo dietro la mia città, Roma, e il mio Paese. Era il tempo della Pantera: scuole ed università venivano occupate, l’aria era frizzante. Guardavo con curiosità quello che sembrava un ritorno agli anni Settanta, ma non ero disposto a partecipare. Non mi sarei impegnato di persona in una scommessa a perdere. In effetti si sarebbe dimostrata nient’altro che una fiammata, si spense in fretta.

Per un ventenne, la Londra di allora esercitava un fascino che quella di oggi non è capace di avere. C’era il suo passato recente, che aveva segnato una generazione con le ondate musicali dei trent’anni precedenti. C’era l’avamposto della finanza in Europa, la City, che esercitava un’attrazione enorme su molti giovani laureati che non sapevano bene cosa fare della vita.

Ero uno di quelli, io. Incerto sulla direzione da prendere ma pieno di un’energia rabbiosa. Diviso a metà tra una spinta alla ribellione e un desiderio di scalare il mondo così com’era. Arrivare da qualche parte, viaggiare, essere contemporaneo. Quella voglia ebbe la meglio, la mia carriera iniziò così.

La City lampeggiava come un faro.

La finanza si stava espandendo e internazionalizzando, la globalizzazione chiamava. La deregulation finanziaria era una diretta conseguenza della caduta dei blocchi, la libera circolazione di capitali doveva diventare il motore del mondo. Ero al posto giusto al momento giusto.

Entrai in una banca americana che mi inserì nel training programme. Una specie di addestramento militaresco per cadetti con una laurea e molta ambizione: in due anni bisognava girare tutti i dipartimenti della banca, lavorare giorno e notte, farsi piacere da un desk per essere assunti in pianta stabile. Estenuante, ma io non sentivo la fatica.

Venni assunto dopo sei mesi, alla prima rotazione nel dipartimento del fixed income. Il mercato italiano era in ebollizione, diviso tra l’eterna propensione al fallimento e la nuova opportunità europea di diventare un mercato stabile e affidabile. L’Italia era diventata una miniera d’oro per la banca e io ne beneficiavo.

Per di più in quel periodo al Tesoro italiano era sceso un alieno, che si chiamava Mario Draghi ed era il più competente di tutti. Un’aggiunta di fortuna per me e per qualunque italiano che lavorava nella City. Draghi creò una task force di esperti d’altissimo profilo, le banche e gli investitori internazionali si fidarono della sua autorevolezza.

Scalavo posizioni nella banca. Da trader, parlavo con gli investitori, stilavo bollettini di ricerca, aiutavo gli economisti a decifrare il mio Paese. Londra intorno a me cambiava pelle, trainata dalla City. I valori delle case raddoppiavano, gli squatters venivano sgomberati, i rifugiati jugoslavi cominciavano a tornare nelle loro nuove nazioni.

La mia vita da giovane banchiere era frenetica. Difficile starmi accanto, assecondare i miei ritmi, capirli. Avevo orari di lavoro impossibili e lo svago era un clubbing selvaggio. L’ultima ondata di creatività inglese si riversava sulla musica elettronica, rave che iniziavano il venerdì notte e finivano la domenica pomeriggio. In quel mondo non c’erano barriere, partecipava chiunque: il rampollo aristocratico e il giovane banchiere in rampa di lancio; lo studente universitario e l’ex punk disoccupato che si avviava all’estinzione.

Poi, quella stagione avrebbe lasciato posto a club molto più esclusivi, a mostre d’arte contemporanea, a luoghi d’aggregazione fasulli frequentati sempre dalle stesse persone.

Anche in banca c’erano meno barriere rispetto a prima. Il ricambio generazionale era senza precedenti, i vecchi bankers della City venivano scalzati senza remore, la tecnologia operava la selezione naturale. Noi giovani credevamo in una crescita senza fine, il long lasting boom annunciato in una copertina di «Wired», la nostra bibbia contemporanea. Eravamo i figli scaltri del nuovo illuminismo e portavamo alla banca montagne di soldi.

Oltre alla fame, però, ci vuole fortuna, sempre. Allargando il campo, il recruiting era senza esclusione di colpi. Essere italiano mi portava offerte allettanti, potevo fantasticare su hedge fund di primo piano, avvicinare il mio nome a quello di banchieri leggendari, fino all’americano in cima alle gerarchia del mito: Dominic Morgan.

Alla fine del millennio tutto iniziava a farsi confuso.

Le certezze si stavano frantumando, vacillava anche la sensazione che la Storia corresse in una direzione precisa. Io percepivo qualcosa di instabile, di profondamente sbagliato. Vivevo lungo un confine.

Da una parte ero affascinato dai miei coetanei che sfilavano in ogni angolo del pianeta contro il G8, l’emblema della globalizzazione imminente, una protesta tanto lontana dal mio presente quanto vicina al mio passato. D’altra parte la mia vita era immersa in quell’esagerazione fatta di aerei privati e migliaia di sterline spese per intrattenere clienti e controparti. Gli anni Novanta sarebbero stati la più grande bolla della Storia. E io ero sotto le sue superfici che si tendevano.

Quando si entrò nel 2000 non ci fu il temuto collasso tecnologico. Ci si illuse che il millennio iniziasse sotto buoni auspici. Quasi subito, però, esplose la bolla del Nasdaq e i titoli tecnologici precipitarono. I paragoni con la crisi del ‘29 si sprecavano, eppure la volatilità dei mercati e la diversificazione finanziaria attutirono l’urto, e il sistema resse.

Bastò arrivare al 2001 perché la Storia ricominciasse sul serio. A luglio i cortei contro il G8 furono repressi nel sangue, e io dovetti nascondere l’impressione, il turbamento che mi diedero quelle immagini. A settembre crollarono le Torri Gemelle, e invece di assecondare la commozione che sentivo dovetti tirare dritto. Perché la macchina operativa era tornata efficiente dopo una settimana. Perché se pure l’immaginario collettivo veniva segnato dallo shock, gli ingranaggi della finanza non si fermavano.

Cambiava la cornice ma tutto sembrava in continuità, mentre alle porte di un grattacielo di Manhattan bussava il tempo di una nuova classe dominante.

Avevo solo trent’anni ed ero già un banker Senior. Sentivo che la folle cavalcata era finita ma invece di pacificarmi vedevo aumentare i miei dubbi insieme al mio conto in banca. A casa leggevo, di nascosto anche da una parte di me stesso, un libro che portava a galla le contraddizioni della globalizzazione: Impero di Michael Hardt e Toni Negri.

Hardt insegnava alla Duke come un’altra mia vecchia conoscenza, tormentata almeno quanto me, che proprio in quel periodo rientrava a Londra dagli States. Mi riferisco al professor Philip Wade.

La foga ingenua dei ‘90 era anche la mia, ed era finita. Puff, scoppiata come una bolla. Diventavo sempre più consapevole che i compromessi sarebbero aumentati. Restavo impotente davanti ai miei tormenti. L’unica via d’uscita per me sarebbe stato mollare tutto, ma non lo feci. Avevo scelto la parte dei vincitori.



La nuova edizione de I diavoli, il romanzo di Guido Maria Brera da cui è liberamente tratta la serie tv sky.
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