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RECENSIONE


gio 18 ottobre 2018

BLACKKKLANSMAN

Si intitola “BlacKkKlansman” l’ultimo film di Spike Lee, opera che da una parte riavvolge il nastro del tempo per ricostruire un fatto storico e dall’altra dipinge un impietoso e dissacrante affresco dell’America trumpiana. La pellicola si inserisce nel solco di una serie di opere cinematografiche che attraverso diverse cifre avvertono l’inquietante e regressivo collasso che ha investito gli Usa e il mondo intero.

Si intitola BlacKkKlansman l’ultimo “joint” di Spike Lee, un viaggio intenso e di quelli giusti: il film da una parte riavvolge il nastro del tempo per ricostruire un fatto storico avvenuto negli anni in cui si consumava il conflitto tra il Black Panthers Party e la brutale repressione perpetrata dai bianchi, e dall’altra dipinge un impietoso e dissacrante affresco dell’America trumpiana.

La pellicola si inserisce nel solco di una serie di opere cinematografiche che – attraverso diverse cifre: il grottesco, l’horror, l’historical – avvertono l’inquietante e regressivo collasso che ha investito gli Usa.
Ma fa di più: sceglie di giustapporre due dispositivi narrativi – la fiction e la docufiction – per suggerire, in maniera quasi didascalica, che le peggiori insidie del passato e le peggiori insidie del presente trovano in questo momento storico una congiuntura perfetta.
Questo film è tratto da una fott*ta storia vera.

Primi anni ’70, l’agente Ron Stallworth (John David Washington) approda a Colorado Springs, nella contea statunitense di El Paso, ed è il primo poliziotto afroamericano a prendervi servizio.
Viene assegnato all’archivio e, vessato dagli insulti razzisti dei suoi colleghi, chiede di essere trasferito alla divisione degli agenti sotto copertura.
Assegnato a tale divisione, lo incaricano di infiltrarsi in un comizio per i diritti civili dei neri – dove conosce l’affascinante attivista Patrice Dumas (Laura Harrier) e con cui scatta un’attrazione fatale – ma, rientrato in dipartimento, mentre sfoglia un giornale gli cade l’occhio su un annuncio di reclutamento del Ku Klux Klan e a Ron balena nel cervello un’idea sconvolgente.
Senza pensarci troppo afferra la cornetta, chiama il numero dell’annuncio e, quando gli rispondono dall’altro capo, si dichiara un fervente suprematista bianco che odia i neri – oltre che gli italiani, gli ebrei, gli irlandesi, i messicani e i cinesi, ma «soprattutto i vermi neri» – ed è deciso a militare nelle fila del Klan.
Instaurato il contatto con il KKK, parte l’operazione che prevede intrufolarsi nell’organizzazione e sgominarne gli intenti criminali.

A infiltrarsi fisicamente però, non potendo essere Ron stesso in quanto afroamericano, sarà il suo collega Flip Zimmermann (Adam Driver) dando vita a un vero e proprio sdoppiamento investigativo in cui la mente sarà quella del poliziotto nero e il braccio quello del poliziotto bianco.
Riassunto così, il plot del film potrebbe sembrare l’ennesima e brillante trovata narrativa del regista afroamericano. Eppure non è così, perché la trama, come recitano i titoli di testa, si ispira a «una fott*ta storia vera».
Vero è lo sfondo storico ricostruito, veri sono i personaggi della vicenda – tra cui spiccano le figure storiche dell’attivista Kwame Ture del Black Panther Party e dell’ancora tristemente attivo David Duke, antisemita e negazionista, sostenitore del suprematismo bianco e “Gran Maestro” del Ku Klux Klan –, vera (e risalente al 1979) è l’operazione sotto copertura dell’agente Stallworth.

E verissimi – in quanto inserti documentari e non ricostruzioni finzionali – sono i fotogrammi che in chiusura rievocano la terribile vicenda di Charlottesville dello scorso anno, quando un suprematista bianco si scaglia con la sua auto contro il corteo antirazzista in Virginia, provocando un morto e oltre trenta feriti.
La bandiera scolorisce.

Spike Lee sente ancora una volta l’urgenza di raccontare l’America contemporanea e sceglie di partire dall’archivio, andando a pescare una storia degli anni ‘70 che rimbomba di attualità in modo eclatante.

Per centrare al meglio questo intento utilizza i canoni estetici dei movimenti Black Power dell’epoca, in un modo così iconico da sembrare una sorta di nichilismo glamour: un ripescaggio dal passato insieme paradossale (perché fuori tempo massimo) e ineluttabile (perché c’è urgenza di radicalismo).
Il personaggio dell’attivista nera di Colorado Springs (Patrice Dumas) è infatti un clone perfetto della mitica Angela Davis. Donna e nera, due appartenenze da cui, ora più che mai, devono ripartire i movimenti di protesta.
Le capigliature afro sono riprodotte a perfezione e con la medesima perizia viene tratteggiato esteticamente il gruppetto di suprematisti bianchi che formavano il cantone locale del KKK.
Il rimando ai fanatici trumpiani è così percepibilissimo e non mancano, del resto, i riferimenti ai mantra dell’ultima campagna elettorale: da «America First» a «Make America Great Again». Due slogan mai davvero passati di moda.
Il riferimento ai suprematisti bianchi e alla loro configurazione grottesca, ai limiti del “freak”, viene rafforzato di continuo con il sempiterno feticismo per le armi, l’odio razziale il disprezzo per le donne che si occupano di politica, per arrivare fino all’antisemitismo sfrontato e, quindi, alla convinzione di essere vittime di un incombente complotto internazionale che mira alla sostituzione etnica del “vero” popolo americano.
Ecco allora che il freak americano si fonde con il freak europeo, convinti entrambi dell’esistenza del fantomatico piano Kalergi che porterà al ricambio della popolazione europea con quella africana e asiatica.
Il messaggio del film sembra essere di una chiarezza lampante: quei tipi strani, quasi caricaturali, sono diventati la maggioranza degli americani e sono stati totalmente sdoganati come controparte legittima nell’agone politico globale.
Il suprematista bianco da “freak” si è fatto moltitudine, al punto da ricevere una (in)degna rappresentazione nelle istituzioni.
E a proposito di istituzioni anche la polizia viene descritta in modo ambivalente.

Da un lato infatti permette che l’indagine (condotta dagli agenti infiltrati nel KKK) faccia il suo corso e riveli la superficie del malessere razzista presente nella piccola cittadina, ma dall’altro protende per un insabbiamento che sembra essere lo specchio dei nostri giorni: estirpare il male superficiale – quello che mina gli standard minimi del decoro e del vivere civile –  è concesso, ma guai a portare a galla il male più profondo, perché il sistema immunitario del Paese non può farsi carico di un’impresa così radicale.
E ancora attraverso la giustapposizione di una cifra estetizzante e della cruda realtà  applicata agli attori della messinscena che Spike Lee ci restituisce la lucida follia dei tempi che corrono.
La figura di David Duke (leader storico del KKK) è infatti sì sbeffeggiato dal personaggio del poliziotto nero ma, a conti fatti, risulta ancora presente e parlante nel 2018, come mostra un reperto televisivo in cui lo si vede incitare una folla di suprematisti bianchi pro-Trump.
Questa miscela di realismo e affettazione narrativa è tenuta insieme attraverso la fiction per l’intera pellicola, salvo i fotogrammi finali in cui – attraverso l’incursione della docu-fiction (cioè video veri dell’attentato di Charlottesville e di svariate marce di suprematisti bianchi) – il regista sembra svelare il “bluff” e confessare: attenzione, la messinscena con cui vi ho intrattenuto finora è reale, e il suo set è proprio il mondo in cui vivete, i suoi attori sono le persone attorno a voi o, peggio, siete voi stessi.
Il tramonto dell’epopea a stelle e strisce, sembra dichiarare il più emblematico fotogramma del film, è una bandiera che scolora mostrando i suoi veri contrasti cromatici: bianchi e neri. Il suo conflitto di sempre.

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