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RECENSIONE


gio 21 febbraio 2019

BILLION DOLLAR WHALE

“Billion Dollar Whale” racconta la storia di una delle più grandi stangate perpetrate attraverso un fondo sovrano, portando a galla il culmine delle contraddizioni che tempestano il sistema finanziario globale. Il libro ha il merito di descrivere con accuratezza le reti di connivenza tra entità governative e banche d’affari, dimostrando come l’eccentrico personaggio al centro dello scandalo, definito “il grande Gatsby asiatico”, sia solo all’apparenza il vero protagonista della vicenda, che in realtà è il sistema con le sue zone grigie in cui si “regolarizzano” le più grandi frodi ai danni della comunità internazionale.

Approdato nelle librerie d’oltreoceano lo scorso autunno e divenuto a stretto giro un best-seller nella lista del New York Times, Billion Dollar Whale (Hachette Books, 2018) è il libro di Tom Wright e Bradley Hope (entrambi finalisti al premio Pulitzer) che riavvolge il nastro sulla storia di un’incredibile stangata internazionale e dei suoi protagonisti, portando a galla il culmine delle contraddizioni che tempestano il sistema finanziario globale, tra paradisi del riciclaggio e incallite cleptocrazie.
Siamo nel 2009 e mentre nel mondo imperversa la crisi dei subprime, un giovane laureato alla Wharton School of Business della Pennsylvania, un po’ paffuto e dall’aria sempliciotta, mette a segno una truffa senza precedenti per grandezza e impatto sul sistema della finanza globale.
Si chiama Jho Low, passaporto malese, e nel giro di un decennio ha sottratto miliardi di dollari da un fondo di investimento sovrano, facendola sotto il naso dei maggiori organismi di vigilanza finanziaria.
In principio fu la creazione del “1MDB” (1Malasya Development Berhad). Sfruttando il suo bagaglio di relazioni e contatti tra oriente e occidente, Low convince l’ex primo ministro della Malesia Najib Razak a creare un fondo di investimento finanziato con il denaro del governo malese.
A gestirlo, dietro le quinte, sarà proprio lui.
Anche Goldman Sachs e altre banche d’affari sono della partita e contribuiscono a raccogliere un’ingente somma, di circa 10 miliardi, perché il 1Malasya Development Berhad, almeno sulla carta, nasce allo scopo di sviluppare l’economia del Paese asiatico  promuovendo partnership globali e investimenti esteri.
Le cose, tuttavia, vanno diversamente. Dal fondo si volatilizzano in un breve lasso di tempo 5 miliardi, e scoppia lo scandalo internazionale. Dov’è finita una simile somma di denaro?
«Alcol, donne e macchine costose, il resto l’ho sperperato» suggerirebbe lo spirito del calciatore tutto genio e sregolatezza, George Best.

Difficile da credere, eppure è andata così. Nel novembre del 2012 Low festeggia il suo trentunesimo compleanno a Las Vegas: tra gli ospiti del party, che definire “sfarzoso” sarebbe eufemistico, figurano Leonardo Di Caprio, Benicio del Toro e altra mezza Hollywood.

Gran parte dei partecipanti arrivano da un night club – tappa compresa nell’intrattenimento della serata – a bordo di lussuosissime limousine, da cui saltano fuori celebrità del calibro di Kim Kardashian e Kanye West, oltre a banchieri e affaristi di alto rango.

Il festeggiato, che alterna i suoi spostamenti tra moto Ducati e un’auto sportiva da tre milioni di dollari, soffia le candeline su una torta gigante da cui spunta fuori Britney Spears avvolta in un luccicante vestito dorato.
Questa e altre stravaganti sortite valgono al rampante affarista cinese l’appellativo mediatico di “grande Gatsby asiatico”.
Ma non finisce qui, perché tra uno sfavillante party e l’altro Low finanzia elezioni, entra con puntate milionarie da “balena” – di qui il titolo del libro – ai tavoli da gioco dei più ambiti casinò, acquista immobili di lusso, yacht, jet privati e produce persino film, tra cui The Wolf of Wall Street, la pellicola diretta da Martin Scorsese e in cui Di Caprio veste i panni di Jordan Belfort, lo spregiudicato broker arrestato nel ’98 per frode e riciclaggio di denaro.
Un personaggio, quello di Belfort, del tutto adiacente a quelli che realmente hanno orbitato nella bolla affaristica di Low.
È recente la notizia dell’arresto dell’ex primo ministro Najib Razak per presunta manomissione dei conti e corruzione. Low, invece, è a oggi latitante e ricercato internazionale.

Ma al di là delle vicende giudiziarie, il libro ha il merito di descrivere con accuratezza e scrupolosità le reti di connivenza tra entità governative e banche d’affari, dimostrando come l’eccentrico Low sia solo apparentemente il vero protagonista della vicenda.
Che invece sono proprio le governance e il mondo della finanza, con le loro zone grigie.
Quando l’FBI istituisce al suo interno un’unità speciale “anti-cleptocrazia” lo fa, sulla carta, per far fronte al trilione di dollari di beni reali acquistati con denaro proveniente dalla corruzione globale di tutto il pianeta. Ma a ben vedere, è una misura tardiva, in odore di ipocrisia.

È storia nota, infatti, che negli Usa non è obbligatorio dichiarare il beneficiario di società di capitali che investono sul suolo americano. Gli Stati Uniti sono stati e rimangono il paradiso del riciclaggio internazionale, i cleptocrati di tutti gli angoli del pianeta lo considerano il porto sicuro per eccellenza.
Per questo gli Usa sono il vera protagonista di Billion Dollar Whale.
La truffa è avvenuta dopo lo scandalo Lehman e la crisi dei subprime, proprio quando la grande finanza aveva annunciato il più grande “mea culpa” della sua storia tentando di rassicurare il mondo attraverso una nuova “moralizzazione” di usi e costumi, di contro ai vecchi eccessi perpetrati.

Riavvolgendo ancora il nastro ci si trova all’indomani di “Occupy Wall Street”, il movimento che aveva destato l’attenzione globale dei media e avuto un serio impatto sull’immaginario collettivo.
In questo scenario Low parte dalla Malesia e crea un fondo sovrano con la complicità del primo ministro malese e ammantandosi di una veste ufficiale, e appunto sovrana, cela la sua macchinazione.
Low si inserisce nelle pieghe delle nuove regole che il mondo della finanza si era auto-imposta e architetta la sua truffa in una zona grigia fuori dall’attenzione dei “regulators”.

Eppure gli strumenti fraudolenti sono sempre gli stessi e viene assistito dal sistema bancario tradizionale per dare vita al suo piano. Il 1Malaysian Development Berhad viene così caricata di debiti e i miliardi raccolti vengono distratti dal fondo per comprare consensi al partito di governo e per costruire un’immagine da “billionaire” globale.
La distrazione dei fondi avviene con il solito vecchio gioco delle scatole cinesi tutte protette dall’anonimato di paradisi fiscali e con l’ausilio di banche svizzere che vedevano transitare miliardi di dollari sui propri canali senza battere ciglio.
La trama di The Wolf of Wall Street si dipana nella realtà prima ancora che nella pellicola di Scorsese.

Il meccanismo principale, che il libro svela, è dunque la ricerca di nuovi bacini di estrazione da parte delle grande banche nel momento in cui il mondo occidentale era stato messo in sicurezza da una serie di norme di sorveglianza per far fronte al disastro dei subprime.

Le banche di investimento spostano interi team in Asia, terra ancora “vergine” dal punto di vista delle grandi speculazioni finanziarie, per fare affari con un mondo ancora poco regolato: i fondi sovrani funzionano da vero e proprio grimaldello, essendo spesso molto liquidi perché reinvestono i proventi delle materie prime estratte nel Paese di origine e, se fanno ricorso al debito, il debito viene sempre garantito da asset reali.
Una panorama da “sogno”: da un lato i proventi delle materie prime, dall’altro ciò che Yanis Varoufakis ha definito il “minotauro globale”, ossia gli Usa in cui tutto può essere riciclato in tutto.
Il petrolio che si trasforma in azioni del Nasdaq, in attici fronte Central Parke, in alberghi a Los Angeles e Miami o in quadri di Jean-Miche Basquiat e di Andy Warhol, seguendo la mono-direzionalità dei flussi di capitale: dall’Asia agli States.

Ed è in questo contesto che i fondi sovrani sono diventati un fattore determinante nel nuovo millennio; i Paesi del golfo hanno comprato interi pezzi della Sylicon Valley, di fatto scambiando petrolio con dati, come il fondo giapponese  Soft Bank che è diventato il primo azionista di Uber.

I fondi sovrani, spesso gestiti da dittatori o da capi di Stato che li usano alla stregua di salvadanai personali, hanno beneficiato dei tassi a zero e della loro capacità di avere accesso al credito e gonfiare bolle nel mercato immobiliare e nella tecnologia avanzata, contribuendo allo smantellamento di interi settori dell’economia tradizionale.
Così Jho Low diventa la “billion dollar whale” e lo fa tramite i servizi di Goldman Sachs che, nel giro di 2 anni, di fatto finanzia la truffa portando a casa circa 600 milioni di dollari di commissioni.
Il palcoscenico calcato da Goldman Sachs è il famigerato “pivot to asia”, un programma inaugurato da Obama e secondo il quale gli Usa avrebbero indirizzato risorse militari ed economiche in Asia per contrastare l’egemonia cinese.
Ecco che la truffa si tinge anche di una coloritura geopolitica.
Mentre le relazioni tra Malesia e Stati Uniti si rafforzavano politicamente, i truffatori avevano un ulteriore scudo per le loro malversazioni: la divisione asiatica di Goldman poteva cioè finanziare la truffa del 1MDB.

L’importanza e il grande risvolto di Billion Dollar Whale non è dunque il lato “glamour” della faccenda, ossia un gruppo di rampanti avventori finanziari che sperperavano centinaia di milioni di dollari impunemente, e neanche l’elemento del cleptocrate (il ministro malese Najib Razak) a capo di un Paese emergente, ma l’aver portato alla luce che questa truffa sia ancora possibile nell’epoca posteriore alla crisi dei subprime.

E ancora: l’aver svelato i meccanismi e la compiacenza di chi invece dovrebbe sorvegliare; il paradosso di chi usa le regole a corrente alterna e a seconda dell’entità dei guadagni che riesce a ottenere dai propri clienti.
Last but not least: il lato oscuro di una nazione, gli Usa, che pretende di  “esportare democrazia” salvo accogliere a braccia aperte i capitali provenienti dai regimi dittatoriali di mezzo mondo, per poi istituire un’unità anti-cleptocrazia quando i casi esplodono in scandali di pubblico dominio.
Jho low, la “billion dollar whale”, non ha inventato nulla. È salito su un auto in corsa e si è schiantato per il solo motivo di aver premuto troppo sull’acceleratore.

Ma se avesse tenuto una velocità “di crociera” moderata, sarebbe ancora a Las Vegas a stappare bottiglie di Cristal in “ottima compagnia”, coperto dallo stesso establishment che ora lo espone al pubblico ludibrio.

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