Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


lun 24 giugno 2019

THE AGE OF SURVEILLANCE CAPITALISM

“Benvenuti” nell’epoca del capitalismo di sorveglianza. Il nuovo panottico è digitale, un Grande Altro che, attraverso l’accumulo dei nostri dati, agisce come un dispositivo di controllo simile a un super-ego collettivo in grado di gestire e orientare da remoto i comportamenti umani, per monetizzarli. Se prima eravamo "forza lavoro", ora siamo anche “materia prima”. Lo racconta Shoshana Zuboff nel suo ultimo libro “The age of surveillance capitalism”.

SE IL CAPITALISMO INDUSTRIALE AVEVA DOMINATO LA NATURA, IL CAPITALISMO DI SORVEGLIANZA DOMINERÀ LA NATURA UMANA.
The age of surveillance capitalism di Shoshana Zuboff è un libro che oltrepassa le vecchie categorie di critica alla tecnologia e le riunisce all’interno di una nuova cornice più ampia e capace di racchiudere tutte le sfaccettature del capitalismo di sorveglianza, la forma di tardo capitalismo che sta già incidendo e continuerà a incidere pesantemente su tutti i processi produttivi rimodellando le passate sovrastrutture sociali e politiche.
L’autrice parla di una terza modernità che sta impattando sulla società con la stessa potenza che ebbe il fordismo nel secondo dopoguerra. In questo dialogo tra passato, presente e futuro, la Zuboff si rifà ai pensatori del ‘900, tra cui Karl Polanyi che già settant’anni fa ammoniva sulla deriva apocalittica del sistema capitalistico e sulla catastrofi sociali e ambientali che sarebbero esplose.
La Zuboff riparte dalle riflessioni di Polany e svolge il nastro in avanti, nel futuro che è ormai il presente, chiedendosi quale sarà il destino dell’umanità all’ombra del nascente capitalismo di sorveglianza.
La velocità con la quale il surveillance capitalism si sta imponendo è paragonabile alla tattica bellica del «shock and awe», “colpisci e terrorizza”, cioè una forma di dominio pervasivo e imposto con una rapidità tale da sembrare ineluttabile.
I congressi e i parlamenti mondiali non riescono a legiferare in tempi congrui, spesso non vogliono e così la politica si ritrova «behind the curve», dietro la curva rispetto alla tecnologia che la sorpassa in accelerazione continua.
La difficoltà della politica nello stare al passo con l’avanzamento tecnologico – e quindi a controllarlo – ricorda il discorso di Max Weber sulle Affinità elettive di Goethe, in cui si consuma il passaggio del politico dalle “relazioni affettive” alle “ragioni economiche”. Cioè la politica si pone sempre in contiguità al potere economico e allora la “lentezza legislativa” nel fornire regole precise ai giganti dell’high tech non è altro che un adattamento alle esigenze del nuovo capitalismo dominante, cioè quello di “sorveglianza”.
L’affinità da considerare in questo riguarda la libertà che viene concessa al “potere” tecnologico di costruire una posizione così prevalente da non essere passibile di regolamentazione, presente o futura. Quindi “tempo” e “rapidità del processo” giocano in questo momento storico un ruolo ancor più cruciale.
Di fronte a una vera e propria tecnica di dominio con modalità simile a quelle belliche, il potere iniziale viene così alimentato da una forma di accumulazione originaria che viene protratta senza soluzione di continuità.
Come spiega bene David Harvey, è «un’accumulazione tramite spoliazione», ossia tramite esproprio: la collettività viene legalmente “spoliata” dei propri dati che sono estratti e monetizzati in un flusso continuo all’interno del quale il patrimonio delle piattaforme, padrone delle informazioni della società umana, raggiunge valutazioni impensabili.
Eccoci nella “terza modernità”, afferma la Zuboff, un’epoca che disarticolerà le vecchie categorie politiche e sociali: la privacy diventerà un concetto obsoleto, e questa nuova fase si avvarrà di un potere destituente. Il IV emendamento della Costituzione americana, ad esempio, sarà fagocitato dallo IOT (internet of things, “l’internet delle cose”) e nessun livello di privacy avrà più ragione di essere garantita quando tutti gli oggetti che ci circondano saranno collegati e immagazzineranno informazioni su tutto ciò che facciamo e diciamo.
E dunque: cosà sarà la privacy al tempo della biometria e del riconoscimento facciale? Questo salto quantico, spiega la Zuboff, sostituisce la politica con la governance strumentale, cioè lo strumento principale della governabilità diverrà l’infallibilità matematica delle previsioni basate sui dati a disposizione, in una parola: l’algoritmo.
Gli equilibri sociali saranno monitorati in tempo reale, estrazioni e classi tradizionali saranno sostituite da cluster comportamentali attraverso cui si potrà agire, singolarmente, per imporre uno status quo collettivo.
Struttura sociale e ripercussioni comportamentali, psichiche. La Zuboff recupera infatti le categorie psicanalitiche lacaniane per descrivere il panottico digitale come il «Grande Altro», un dispositivo di controllo non più dispotico come il “Grande Fratello” orwelliano, ma molto più simile a un super-ego collettivo che aleggia sulla socialità e riesce a gestire e orientare da remoto i comportamenti umani, a seconda delle necessità.
Di qui la digressione della Zuboff sulla differenza tra totalitarismo e governance strumentale, e sull’erroneo paragone tra il “Big Brother” di 1984 e l’attuale “stato di sorveglianza”: i regimi totalitari puntavano a controllare gli individui sin dentro l’anima attraverso progetti di ingegneria sociale che ricorrevano anche a stermini di massa per garantire la società perfetta; la governance strumentale è invece un remote control che registra tutto senza mai intervenire, incamera dati ma si fonda sulla necessità di uno status quo a sua volta retto da un’apparente libertà diffusa.
La potenzialità di incidere sui comportamenti umani attraverso i processi “pacificati” dell’algoritmo è uno dei punti focali del volume. La Zuboff cita in più passi lo psicologo statunitense Burrhus Frederik Skinner, l’esperto di analisi comportamentale che nel 1948 scrisse un romanzo utopico chiamato Walden 2 con chiaro riferimento al Walden di Henry David Thoreau ma ribaltandone completamente il frame: la vita solitaria nei boschi diventava nell’immaginario di Skinner una vita comunitaria in cui la «behavioural engeneering», ossia “l’ingegneria comportamentale”, riusciva a garantire un’esistenza pacificata e appagante a tutti i membri della collettività.
Un’utopia, quella di Skinner, che a ben vedere già profetizzava anche i risvolti inquietanti e distopici del controllo comportamentale, esercitato attraverso il dispositivi algoritmici di quello che la Zuboff definisce “Grande Altro”.
A volerlo catalogare oggi, Skinner rientrerebbe senza dubbio nella schiera dei tecno-utopisti raccontati in Essere una macchina, e non è un caso che molti dei suoi concetti siano aderentissimi a quelli espressi dalla “Sylicon Valley ideology”.
Ma il libro della Zuboff, bel lungi dall’affrontare la questione tecnologica da un’angolatura puramente sociologica, affonda le sue argomentazioni nella ragione economico-finanziaria, e lo fa partendo dai concetti di «appropriazione originaria per sottrazione» e di «surplus comportamentale».
Il vero profitto estratto dalle piattaforme tecnologiche, afferma l’autrice, è un’eccedenza comportamentale: i servizi digitali sempre più attraenti servono infatti a estrarre dati sui comportamenti umani, dati che vengono lavorati, aggregati e rivenduti per prevedere il futuro, anticipare tendenze o addirittura determinarle.
Il vero campo di battaglia del capitalismo digitale è dunque la realtà e non il mondo virtuale, “datificare” il reale è la grande sfida per profetizzare il domani e monetizzare le montagne di dati accumulati finora.
Per questo la Zuboff ribalta i piani di lettura odierni asserendo che l’individuo connesso in realtà non sta (solo) lavorando per l’industria digitale ma sta fornendo ad essa la materia prima sotto forma di dati attitudinali e comportamentali, gli stessi che verranno elaborati dall’intelligenza artificiale e utilizzati dalle stesse aziende per sviluppare nuovi servizi e accumulare nuove informazioni.
La collettività connessa è la miniera e i dati sono il frutto dell’estrazione. L’IA, infine, la fabbrica di lavorazione e raffineria del prodotto finito.
O ancora, per utilizzare la metafora dell’autrice, si può parlare della «mano e del guanto»: laddove la mano è l'individuo sempre connesso alla strenua ricerca di un’identità digitale in grado di provare la sua stessa esistenza nel mondo contemporaneo; e il guanto è l’immane bolla dei social nella quale la mano entra portando le sue informazioni personali in forma di “like”, istantanee e quant'altro fino al punto in cui guanto e mano avranno la stessa identica forma e i comportamenti futuri saranno automaticamente prevedibili.
L’individuo connesso si illude di avere accesso a servizi sempre migliori e personalizzati senza nessun costo, ma la realtà è che si trova in una sorta di trappola in cui sono i suoi dati comportamentali a essere l’inconsapevole moneta di scambio.
E per rafforzare questo concetto la Zuboff ricorre all’ulteriore immagine, molto potente, del «doppio libro» o «specchio unidirezionale»: ossia da un lato esiste il libro pubblico – scritto dalla collettività, cioè composto da tutti i dati immessi consapevolmente e quindi di dominio pubblico –, dall’altro c’è il libro segreto, il frutto dell’elaborazione dei dati che risulta “privato”, “oscurato” e “per pochi”.
Se il primo libro è free, il secondo è esclusivo e ha una capitalizzazione di borsa che supera svariati trillioni di dollari. La Zuboff rileva questa immensa asimmetria informativa e cita Émile Durkheim – il sociologo francese che a fine ‘800 redige la “divisione del lavoro sociale” – per allertare sui progressivi squilibri economici e sociali che andranno ad esacerbare ancor più la società umana, cristallizzandola su uno status quo che eluderà i conflitti e renderà sistemiche le disuguaglianze.
L’esempio più emblematico di questi processi “interattivi” legati all’estrazione del valore e allo scandaglio dei comportamenti umani è senza dubbio quello legato all’esplosione – ormai di qualche anno fa – del game Pokemon Go, attraverso cui il virtuale ha fatto la sua irruzione nel mondo reale indirizzando traiettorie umane verso potenziali luoghi di consumo. Una prova generale del nuovo approccio a luoghi e spazi su cui si stanno rimodellando le smart-city del futuro, anzi: del presente.
La tecnologia, insomma, che da strumento diviene cifra pervasiva dell’esistenza umana. I social networks come un grande alveare all’interno del quale tutti si muovono come se fossero orchestrati, controllati e sfruttati.
Secondo l’autrice, è questo il momento storico in cui il “controllo” viene esercitato al meglio e con estrema facilità anche su quelle generazione che in tempi passati riuscivano a sottrarvisi.
Se prima, infatti, i più giovani avrebbero avuto un lasso di tempo da fruire in “semi-libertà”, osserva la Zuboff, nel quale sarebbe stata plasmata la loro personalità prima di venire catapultati nei processi produttivi del mondo adulto, adesso il tempo tecnologico è un continuum pervasivo che non lascia nulla al caso.
In questo senso i giochi e la gamification rappresentano un altro dei capisaldi del capitalismo di sorveglianza: da una parte il tempo di connessione che viene dilatato attraverso i giochi in Rete; dall’altra la gamification come strategia di ingaggio in attività non ludiche (lavorative) attraverso stimoli ludici quali punteggi, livelli e record da superare.
Il corposo trattato della Zuboff, qui provato a riassumere, si conclude con una nota amara in cui l’autrice tira le somme su tutto il suo lavoro di analisi definendo il capitalismo di sorveglianza una sorta di “pacifico golpe dall’alto”, perpetrato senza spargimenti di sangue ma volto a un vero e proprio rovesciamento di potere che avviene grazie al cavallo di troia della tecnologia.
Tecnologia che oggi permette al Capitale di appropriarsi di una quantità di conoscenza senza precedenti, e di utilizzarla per estrarre valore e accrescere il suo potere a dismisura.
Se il capitalismo industriale aveva dominato la natura, il capitalismo di sorveglianza dominerà la natura umana.
Una visione apocalittica? Può darsi. O forse una voluminosa disamina critica del momento storico che viviamo, per ammonirci sui nuovi fronti di lotta sociale, perché il comportamento umano non venga mercificato e si provi invece a liberarlo – anche e soprattutto in virtù del progresso tecnologico – dalle dinamiche spietate del libero mercato e dalle manipolazioni, fisiche e virtuali.
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