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RECENSIONE


mar 8 giugno 2021

CARLOTTO, L’ERETICO DEL NOIR ITALIANO

Massimo Carlotto è l’autore più radicale ed estremo del noir italiano: un eretico. Per venticinque anni si è mosso tra gli schemi della letteratura crime senza rimanere invischiato nella rete di tic, cliché e stereotipi propri del genere. “E verrà un altro inverno”, il suo ultimo romanzo uscito per i tipi di Nero Rizzoli, ne è l’ennesima conferma.

Massimo Carlotto è l’autore più radicale ed estremo del noir italiano. Per venticinque anni si è mosso tra gli schemi della letteratura crime senza rimanere invischiato nella rete di tic, cliché e stereotipi propri del genere. Non a caso la sua creatura più iconica e longeva – l’investigatore privato senza licenza Marco Buratti detto l’Alligatore – ha conosciuto i ritmi di una serialità insolita.

Carlotto non è mai stato scrittore da un libro l’anno. Giocare facile non gli piace. Ancora meno gli interessa “fidelizzare” i lettori, legarli con rigida cadenza periodica, in modo più o meno morboso, a dei personaggi. E chi se ne frega se oggi la scena del poliziesco italiano è segnata dalla tendenza inversa: cioè, dalla presenza ingombrante di fascinosi, eroici protagonisti le cui vicissitudini – soprattutto nelle questioni di cuore – calamitano e appagano la curiosità del pubblico. Il giallo made in Italy è diventato la fase suprema del romanzo sentimentale. Carlotto, al contrario, rimane fedele a se stesso e tira dritto a caccia di storie capaci di proiettarci alla radice delle cose.

Nelle pagine di E verrà un altro inverno, il suo ultimo romanzo uscito per la collana Nero Rizzoli, la radice delle cose è la “valle”, un lembo di terra del profondo Settentrione d’Italia piantato tra le montagne, punteggiato dalle insegne d’una miriade di aziende e solcato da un nastro d’asfalto: la statale su cui viaggiano tir pieni zeppi di merci. Un giorno, in valle arriva Bruno Manera, un facoltoso immobiliarista sulla cinquantina che ha sposato Federica Pesenti, bella trentacinquenne erede di una delle dinastie più in vista della zona. Nonostante abbiano patito un momento di difficoltà a causa della spericolata delocalizzazione di alcune linee produttive nel Sudest asiatico, i Pesenti rimangono potenti capitani d’industria, esponenti di quella schiatta di Signori che domina da sempre sul territorio. Li chiamano i “maggiorenti”, e a loro si deve rispetto. Perfino devozione.

Bruno e Federica avrebbero le carte in regola per essere felici, per godersi agi e piaceri di un’esistenza da privilegiati. Invece niente va come dovrebbe e tutto si mette malissimo. Manera, infatti, è il tipico forestiero che non tarda a catalizzare su di sé l’ostilità degli autoctoni: così finisce per subire una serie di gravi atti intimidatori, l’ultimo dei quali gli costa un proiettile nella clavicola e un altro in un ginocchio. Quelle pallottole sono l’innesco di una tragica catena di eventi che travolge – in un effetto domino – alcune esistenze della valle.

Da qui in poi non è permesso aggiungere altro sulla trama, perché all’insegna d’imprevedibili capovolgimenti di fronte e fulminanti colpi di scena Carlotto costruisce un intreccio registrato al millimetro. I rapporti tra compaesani diventano il tavolo da gioco su cui si consuma una partita mortale, nel segno del più bieco vantaggio personale. Menzogne, ricatti, doppi e tripli giochi… non ci si fa mancare nulla pur di trarre il meglio dal peggio.

E verrà un altro inverno indica una precisa via d’uscita dal perimetro più noto e consolidato della crime fiction. L’autore rinuncia alle dinamiche della detection, senza per questo annoiare mai o deludere l’attesa del lettore, e rimarca il ruolo del caso, dei tiri mancini del destino, senza perdere un colpo in termini di coerenza e tenuta narrativa. All’opposto, la fatalità – elemento di solito bandito dalla grammatica del poliziesco – conferisce al racconto un’autenticità amara. “Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato” oppure “Essere nel posto giusto al momento giusto” sono esperienze che segnano profondamente il vivere umano e che è sacrosanto ricollocare nello spazio della verosimiglianza letteraria dedicata al crimine.

Il libro, inoltre, è un perfetto esempio di “romanzo corale”, narrazione polifonica che mette in scena una comunità di provincia avvelenata dalle passioni tristi: dalla paura, dalla frustrazione, dal rancore. Padri premurosi e mariti affettuosi, lavoratori solerti e audaci industriali, preti intransigenti e carabinieri severi sono i prototipi della “brava gente”: ovvero, i campioni di un’umanità orrenda che – in nome di dio e della famiglia, della prestazione d’opera e del profitto – sono disposti a compiere qualsiasi delitto. Se paragonati a queste persone tanto perbene quanto abiette (“abiette” proprio perché fanno di tutto per essere perbene), i malviventi sembrano dei galantuomini. La considerazione è ironica solo all’apparenza e il ribaltamento umoristico cela come al solito una buona dose di verità.

E verrà un altro inverno è figlio del cambio di passo che Carlotto ha impresso alla sua prosa a partire da La signora del martedì (e/o, 2020). Acuto indagatore delle strutture criminali e dei professionisti del delitto, lo scrittore padovano è celebre per aver esplorato i molteplici territori dell’illegalità, raccontando della mafia del Brenta e del suo capo Felice Maniero ribattezzato Tristano Castelli, rispolverando i vecchi precetti e gli antichi codici della malavita d’antan, immergendosi nella spregevole psicologia di un maledetto traditore bastardo del calibro di Giorgio Pellegrini, indimenticabile protagonista di Arrivederci, amore ciao (e/o, 2001).

Da qualche tempo, Carlotto ha smesso di occuparsi della criminalità in quanto universo a sé stante, regolato da precise meccaniche, che sceglie come e quando interagire con gli interessi cosiddetti legali, e ha cominciato a esaminare la disposizione a delinquere della società in generale. Così ha preso corpo la rappresentazione di una realtà da incubo, in cui la familiarità col delitto è diventata condizione endemica. Perciò in E verrà un altro inverno sono tutti dilettanti del male a eccezione di Fausto Righetti, un bandito di mezza tacca che fatica a districarsi in mezzo a un branco di pecore trasformate in lupi feroci.

Carlotto perlustra le pieghe più oscure del capitalismo manifatturiero, mostra l’anima nera di uno di quei distretti da sempre considerati il cuore pulsante della produzione italiana e investiti, di recente, della missione di trainare il rimbalzo del PIL all’indomani della crisi provocata dalla pandemia. Di questa rete di piccole e medie imprese, operose, innovative, radicate nel locale ma in grado d’integrarsi nelle catene globali del valore, lo scrittore svela l’essenza marcia. E benché non menzioni mai il virus, non è difficile riconoscere nella valle del romanzo una di quelle provincie lombarde flagellate dal Covid-19. Il virus, infatti, ha attribuito nuova consistenza al triplice comandamento che recita “produci consuma crepa”.

Intorno all’impresa si articola un tessuto sociale definitivamente corrotto, edificato sull’etica oppressiva del lavoro (precario), retto dal patriarcato, intriso di misoginia, razzismo e classismo, orientato dal culto proprietario e dalla brama di successo. In un simile inferno, il fallimento – l’allontanarsi da dettami e prescrizioni del modello imposto – non è ammesso. Ecco perché il delitto è un’opzione tangibile, immediatamente praticabile, che si spoglia di ogni tratto di eccezionalità.

“Alla fine, qui in valle, siamo sempre noi maggiorenti, le famiglie con il nome a caratteri cubitali sui tetti delle aziende, a trovare le soluzioni giuste per superare i momenti difficili. Voi siete solo capaci di approfittare, di chiedere e di lamentarvi.”

Viene da pensare a una versione allucinata e allucinante della teoria del trickle-down, del “gocciolamento dall’alto verso il basso”, tesi (neo)liberista secondo cui i vantaggi economici concessi ai ceti abbienti – soprattutto in termini di laissez-faire e alleggerimento della pressione fiscale – comporterebbero una ricaduta positiva, una diffusione della ricchezza che gocciolerebbe per l’appunto dall’alto verso il basso finendo per favorire le classi più deboli. In questo caso a piovere che dio la manda non è tanto la ricchezza, bensì il disprezzo per la vita umana, la smania di sopraffazione e la furia omicida. Il “lasciar fare” assume una concretezza inedita e particolare.

Va specificato che dall’impietoso confronto tra maggiorenti e strati sociali più bassi emerge una verità inappellabile: i secondi sono peggio dei primi. Se Jacopo Pesenti, padre di Federica e prestigioso notabile, incarna l’archetipo del grande Vecchio, cioè del titolare di un piano diabolico ma comunque solido e di respiro strategico, le aspettative, i progetti e i sogni dei soggetti marginali che agiscono nel romanzo (i cugini Vardanega, per esempio) sono un concentrato di pulsioni e fantasie reazionarie.

Carlotto non manda solo in frantumi le retoriche granitiche sulle presunte virtù della manifattura italiana, si spinge oltre: spazza via il discorso populista, para-populista, neo-populista che in un recente passato – da destra a sinistra – ha magnificato l’appartenenza identitaria, decantato gli ambiti comunitari, brandito il “vicino” contro il “lontano”, presentato la lotta anti-capitalista come estranea ai processi di “modernizzazione” delle relazioni sociali, mitizzato i working poor, i lavoratori del terziario arretrato e il lavoro servile, liquidato il lavoro cognitivo nelle sue punte più avanzate e i knowledge workers in genere come appartenenti alle élite creative metropolitane, sradicate, apolidi e subalterne alla “logica dei flussi”. E allora, compagni, provate a farla con Robi Vardanega, la rivoluzione, che poi ne riparliamo.

Massimo Carlotto ha coraggio da vendere. È stato tra i principali interpreti del noir mediterraneo quando il racconto del delitto narrava le contraddizioni esplosive di terre e città bagnate dal mare nostrum ed è stato il primo a bruciarsi le navi alle spalle annunciando che il noir mediterraneo era annegato a Lampedusa. Ha smantellato il mantra apologetico che, negli anni Novanta, celebrava il paradigma di accumulazione e sviluppo del Nordest in quanto “locomotiva d’Italia”. Con il ciclo de Le Vendicatrici ha anticipato le mode editoriali puntando sulle donne nel ruolo di protagoniste.

Oggi, oltre a essere il più radicale ed estremo dei noiristi di casa nostra, è tra i più americani degli scrittori italiani, tra i pochi capaci di sondare gli abissi dei territori profondi, componendo la sua personale declinazione dell’elegia degli hillbilly, il canto tragico e nerissimo di quegli ultimi e di quei diseredati che vogliono poco, si accontentano del minimo, ma sono pronti a tutto pur di averlo.
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