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RECENSIONE


lun 20 gennaio 2020

CLINT EASTWOOD CONTRO LO STATO

Ci vuole il vecchio Clint, con il suo ultimo film "Richard Jewell", per sorprendere ancora una volta e colpire al cuore il sistema con un atto di accusa violentissimo agli abusi del potere.

Nessuno tocchi Caino. Già in questa epoca oscura non è facile difendere le libertà fondamentali dell’individuo, la presunzione di innocenza, il diritto alla miglior difesa, quando si tratta di un normale cittadino. Figuriamoci quando il presunto colpevole è uno stronzo.

Ci vuole Clint Eastwood per sorprendere ancora una volta e colpire al cuore il sistema con un atto di accusa violentissimo contro gli abusi del potere. Con una storia per nulla epica o eroica, ma minimale, silenziosa, quasi sordida, l’ex straniero senza nome alla veneranda età di 89 anni si scaglia a testa bassa contro i tre poteri pilastri dello Stato moderno (politico, legislativo, giudiziario) e contro il quarto: quello dei media.

La presunzione di innocenza deve valere anche per Richard Jewell, il maschio bianco americano che ama le armi e odia le donne. Il lurido, grezzo, violento e razzista redneck con l’ossessione per la legge e l’ordine, il fascista che oggi voterebbe Trump e che è stato già licenziato dalla polizia e da società private di sicurezza per avere abusato del potere della divisa. Deve valere anche per lui, altrimenti non vale per nessuno.
Contro la sinistra liberal ed elitaria che quotidianamente schifa i Jewell di questo mondo, colpevoli di non cogliere le magnifiche e progressive sorti della socialdemocrazia capitalista. Contro la sinistra accelerazionista che fa dei vari Jewell i protagonisti idioti dei suoi sprezzanti meme. Contro la sinistra populista che vorrebbe imporre il suo significato storico sul contenitore vuoto dei tanti Jewell, barattoli buoni solo a cambiare etichetta per fare massa. Clint Eastwood ci racconta che Richard Jewell è innocente: il nemico è lo Stato borghese.

Siamo dalle parti di M - Il mostro di Düsseldorf, capolavoro di Fritz Lang (1931).
E infatti nell’Italia di brava gente, pane amore e fantasia, dove ancora non si riescono a fare i conti con il fascismo e con il colonialismo, e nemmeno un film su Craxi riesce a portare a galla le contraddizioni di quel momento storico, come nell’America in cui Trump continua ad accrescere il suo consenso, la stampa liberal si è affrettata a demolire il film di Eastwood.

Non solo ha letto il film come l’apologia del redneck bullizzato dalle testate liberali e dalla giustizia democratica – una visione così riduzionista che faticherebbe a essere valida persino nel caso in cui la pellicola l’avesse girata Steve Bannon –, ma si è accanita su una singola scena, quella in cui la giornalista si sarebbe portata a letto l’agente del Fbi per ottenere le informazioni necessarie al suo scoop.

E così il «Guardian», il «New York Times» e il «Washington Post» mentre da un lato digeriscono le bombe intelligenti e le guerre coloniali, dall’altro si scagliano sul presunto reazionario e maschilista Eastwood.

Con buona pace della retorica very democrat, la scena è chiara: Kathy Scruggs, la reporter investigativa dell’Atlanta Journal (interpretata da un’inetta e arrivista Olivia Wilde) che decide consapevolmente di portarsi a letto l’agente Tom Shaw (un idiota, vanesio e superficiale John Hamm) solo “dopo” che ha ottenuto lo scoop, e a prescindere da questo. Tanto che l’agente stesso sembra rimanerci sorpreso.

Nessuno si salva. Né la madre Bobi (un’oppressiva e anaffettiva Kathy Bates), né l’avvocato Watson Bryant (un Sam Rockwell sempre fuori fuoco e fuori sincrono), né tantomeno Richard Jewell stesso (un Paul Walter Hauser talmente complessato che sembra sempre sul punto di esplodere e fare una strage). In questa incredibile asciuttezza scenica, di attori e persone, tutti sono squallidi e colpevoli e nessuno è innocente. Eppure, tutti devono essere innocenti, fino a prova contraria. Anche Caino.

Forse mai come stavolta, Clint Eastwood, sublime narratore che da sempre dissacra l’eroismo, era arrivato a scegliere un protagonista così smaccatamente schierato dalla parte sbagliata della storia.
Stilisticamente minimale e volutamente minimalista, sporco, povero e forse nemmeno troppo sincero (proprio come il Jewell), il film è una specie di Kammerspiel, tutto ambientato in interni e con la telecamera sempre puntata sul volto e sul corpo dei personaggi principali. Il montaggio di Joel Cox e la fotografia di Yves Balanger rinunciano consapevolmente a ogni epica, uccidono il pathos, tradiscono la narrazione e ne espongono i difetti.

Curioso che, in una regia centrata sulle persone e i relativi personaggi (ogni carattere e caratterista è allo stesso tempo dimesso e sopra le righe), l’unica scena di massa non sia l’attentato ma, nello stesso luogo, un’improvvisa esplosione di ballo al ritmo della Macarena. Solo lì, la telecamera si alza e abbraccia la folla. Nell’atto vitale più stupido e schietto possibile, nel corpo flaccido e deforme che esplode di gioia trasportato dalle note della canzone popolare più inflazionata possibile.

Jewell è il lato oscuro di ciascuno di noi. Non è l’anti-eroe che sfida il sistema come William “Will” Munny negli Spietati (1992), e nemmeno lo è a dispetto del sistema come Sully Sullenberger che atterra sull’Hudson in Sully (2016). Non è il melodramma nero sull’iniquità dell’essere umano come Mystic River (2003) e nemmeno la tragedia sulla legge dell’uomo che sfida quella di dio, come Frankie Dunn in quell’Antigone moderna di Million Dollar Baby (2004).

Con Richard Jewell si torna alla radicale messa in discussione del sistema, alla sovversione della farsa orchestrata dallo Stato borghese. Si torna alla ribellione dinamitarda, appresa da Clint sul set di Sergio Leone.
E chi poteva farlo, se non l’unico regista – orgogliosamente americano – che ha avuto il coraggio di smitizzare la violenta e guerrafondaia icona del suo impero: la bandiera a stelle e strisce ridotta a brandelli in Flags of Our Fathers (2006) e Lettere from Iwo Jima (2006).

Richard Jewell non è nemmeno il Walt Kowalski di Gran Torino (2008), il Luther Whitney di Potere Assoluto o lo Steve Everett di Fino a prova contraria (1999). Resta solo il circo politico e mediatico che condanna i presunti colpevoli a priori, per diletto, come nell’immaginifico Mezzanotte nel giardino del bene e del male (1997).

E così Richard Jewell è reo di essere un bifolco, razzista e violento. E sebbene lo spettatore sa già come andrà a finire la storia, con mestiere sublime e a tratti hitchcockiano Clint Eastwood continua a riempire la trama di scheletri, verità nascoste, parole non dette, sottolineando in simultanea tutte le manchevolezze dell’imputato e le debolezze della difesa, e assecondando il sospetto che in fondo possa essere colpevole davvero.
L’anti-eroe è un miserabile stronzo. Come lo sono la giornalista e l’agente del Fbi. Come lo sono la madre e l’avvocato. Le scontate dicotomie di bene e male, giusto e sbagliato, il sangue e la merda. Spiacente, signore e signori, non di bellezza idealizzata, presunto benessere e suprema virtù è composto l’essere umano.

Nessuno tocchi Caino. Siamo tutti brutti, sporchi e cattivi. Per questo abbiamo diritto a essere considerati innocenti fino a prova contraria. Perché viviamo in un sistema che opprime e colpevolizza, in un panottico inquisitorio in cui chiunque non può mai sentirsi al sicuro dal legittimo abuso del potere e dei suoi apparati.

Non Richard Jewell, ma ancora una volta Clint Eastwood, è il nemico dello Stato.
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