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mer 3 agosto 2016

THERESA MAY, LA “VERGINE DI GHIACCIO” CHE VOLEVA RIFORMARE IL CAPITALISMO

Questa è la storia di una ragazza diligente di nome Theresa. Il suo rigore la porta da Eastbourne e dalle contee sud d’Inghilterra, fino al numero 10 di Downing Street, Londra

“L’Inghilterra della deindustrializzazione e dei servizi finanziari, delle start-up e del sistema educativo meritocratico ma riservato ai milionari, l’Inghilterra dei minatori sconfitti e della società che non esiste. Una copia degli Stati Uniti, ma senza il potere. Thatcher e Reagan, Blair e Clinton, le guerre stupide, la City e Wall Street: sempre paralleli, sempre convergenti.” Da: L’esercito degli invisibili: UK ai tempi del Brexit – Il Tredicesimo Piano
3 agosto 2016 – Questa è la storia di una ragazza diligente di nome Theresa. Il suo rigore la porta da Eastbourne e dalle contee sud d’Inghilterra, fino al numero 10 di Downing Street, Londra.
A pochi mesi dai sessanta anni, il 13 luglio 2016, diventa infatti primo ministro britannico. Conservatrice, moralista, per un capitalismo «responsabile» e anti-immigrazione: a lei è affidato il compito di traghettare il Regno Unito fuori dall’Unione Europea nell’era post-Brexit.
Nata Brasier, prende il cognome del marito dopo il matrimonio con Philip May, il 6 settembre del 1980. È da quel giorno che la ragazza diligente, ormai una donna, si fa chiamare Theresa May.

Da «Goody Two Shoes» a «The Ice Maiden», la vergine di ghiaccio

A tredici anni, per gli amici era «Goody Two-Shoes», la classica brava ragazzina (il nome viene dal personaggio di una storia per bambini scritta da John Newbery a fine Settecento). Oggi, per il liberaldemocratico Nick Clegg, è «The Ice Maiden», la vergine di ghiaccio. May è una «bloody difficult woman», nelle parole del conservatore Ken Clarke. È una «Angela Merkel d’Inghilterra», ripetono diversi giornali europei, perché il suo conservatorismo pende più verso il solidarismo che per il liberalismo sociale à laDavid Cameron. I paragoni con Margaret Thatcher, la «Lady di ferro d’Inghilterra», si sprecano.
Il suo cuore batte a destra da quando era una ragazzina, la sua retorica è intrisa di buone intenzioni. Per questo sembrerebbe più una Gordon Brown in versione Tory. Come lui di famiglia religiosa, avvezza al comando, approdata a Downing Street dopo le elezioni, vendutasi come una che «non ama spettegolare in pausa pranzo».
Nelle cronache più generose è descritta come leale, attenta, disciplinata. In quelle più taglienti come una «bigotta imprevedibile», ossessionata dal bisogno di controllare tutto, «noiosa e competente». Competente, sì, ma forse priva di visione proattiva. L’esperienza – dicono i sostenitori – è il suo «crucial factor».
Figlia di un pastore anglicano, studia in una scuola privata cattolica, poi geografia ad Oxford, dove conosce il marito Philip in una discoteca. È Benazir Bhutto (poi due volte premier in Pakistan) a presentarglielo. A ridosso della laurea perde il padre in un incidente stradale, un anno dopo viene a mancare la madre per malattia. Tra il 1986 e il 1994 è assessore a Merton, Londra. Nel 1997 diventa deputata, nel 2002 presidente dei Tories. Nel 2010 conquista la poltrona da ministro degli Interni, il più a lungo in carica negli ultimi cent’anni. Ammirata dalle donne della sua cerchia per la sua dedizione alla causa della «corretta sorellanza», sostiene anche il matrimonio gay.
Raccontata troppo spesso per il colore delle décolleté che indossa(dei commenti dice di infischiarsene), l’ex ragazza coscienziosa Theresa ha costruito il suo personaggio su uno stile sobrio e determinato. Le scarpe, però, vuole farle all’immigrazione, alcapitalismo spericolato, al Labour, al modello industriale, alterrorismo. E giorno dopo giorno, almeno dall’università in poi, lavora solo in questa direzione.

«Economia, produttività, lavoro» prima della Brexit

May sa bene che agli elettori pro-Leave, cioè per il divorzio da Bruxelles al referendum sulla Brexit del 23 giugno scorso, interessano poco le questioni di principio. Le questioni economiche pesano di più. Nonostante abbia fatto campagna per il Remain, quando diventa primo ministro Theresa chiarisce che «Brexit significa Brexit», non ci sono sconti. C’è un però. In un discorso tenuto a Birminghan, poco prima della nomina a Downing Street, pronuncia la parola Brexit solo dopo aver fatto riferimento a tre fattori molto più importanti per gli inglesi: economia, produttività e lavoro. Dice, e non a caso: «Nelle prossime settimane, scenderò in campo per guidare la nostra economia in questo periodo di incertezza, per spingere l’economia in crescita in tutte le parti del paese, per risolvere il problema della produttività di lunga data della Gran Bretagna, per creare posti di lavoro ben pagati, per negoziare condizioni migliori riguardo all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e per darci un nuovo ruolo nel mondo».

Politica monetaria. La retorica della giustizia sociale contro l’austerity

Appena arrivata, May sostituisce il ministro del tesoro George Osborne con Philip Hammond. E non è una mossa da poco: la narrazione è quella del mai-dire-austerity, Osborne deve quindi fare subito le valigie. È la retorica della «giustizia sociale», raccontata da destra, contro il liberismo del governo Cameron. «La politica monetaria, sotto forma di tassi di interesse super bassi e quantitative easing, ha aiutato i proprietari (quelli più in alto sulla scala sociale), a scapito di coloro che non possono permettersi di possedere una casa propria», dice.
“In realtà il Leave è stato votato da un esercito d’invisibili, cittadini solo di nome, fantasmi di fatto, molto spesso sfuggiti ai big data, ai sondaggi, alla finestra sempre aperta dei social network.” Da: L’esercito degli invisibili: UK ai tempi del Brexit – Il Tredicesimo Piano

Sicurezza, libertà, opportunità: i tre pilastri del conservatorismo à la May

Già nel 2013, da ministro dell’Interno in una riunione dei Tories, May snocciolava rimedi contro la disuguaglianza nel Regno Unito e proponeva «un tipo diverso di conservatorismo» (ovvero, altro che quello di Cameron), un nuovo «partito per tutti». Tre i «pilastri»fondanti: sicurezza, libertà e opportunità. Nel 2016 parla direttamente alla pancia d’Inghilterra, alla classe media ma anche alla working class: «In questo momento, se sei nato povero muori in media nove anni prima degli altri. Se sei nero, sei trattato più duramente da parte del sistema di giustizia penale che se sei bianco. Se sei un ragazzo bianco della classe operaia, hai meno probabilità di chiunque altro di andare all’università. Se vai in una scuola statale, hai meno possibilità di arrivare a professioni alte. È diverso se sei stato istruito in una scuola privata. Se sei una donna, guadagni ancora meno di un uomo. Se hai problemi di salute mentale, troppo spesso non hai aiuto sufficiente. Se sei giovane, sarà sempre più difficile comprare una casa».
In un momento di crisi come il 2016, anno zero della Gran Bretagna che si isola dall’Europa e promette battaglia all’immigrazione, le buone intenzioni morali fanno breccia.

Il piano economico della «bambina cresciuta nelle contee d’Inghilterra»

La «bambina cresciuta nelle contee d’Inghilterra», poi ragazza modello e oggi animale politico matricolato, ha un obiettivo dichiarato: «un’economia che funziona per tutti». L’istinto sembra interventista, segnerebbe una cesura storica rispetto all’era Cameron e le divisioni all’interno dei Tories potrebbero aiutarla. Nei suoi discorsi pubblici, però, è molto cauta. La Brexit (che è la sfida principale) avverrà «di sicuro». Per adesso, però, di mettere mano all’articolo 50, ovvero alla via legale che detta tempi e modi per l’uscita dall’Ue, non se ne parla. Almeno finché i termini di negoziato non saranno chiari. Theresa rimanda. Per quanto riguarda il pareggio di bilancio, al momento l’obiettivo 2020 fissato da Cameron sembra molto lontano.
Ciò su cui May vuole concentrarsi è quello che chiama «capitalismo responsabile». È pronta a fissare un tetto agli stipendi dei manager, ma anche a resuscitare le politiche industriali come via d’uscita dalla crisi. Mostra un’ostilità «sorprendente» – a detta dell’Economist – alle acquisizioni estere di imprese britanniche. Meno scioccante è la sua battaglia contro le aziende che evadono le tasse. Per lei, in fabbrica, dovrebbe essere applicato il “modello tedesco” di gestione: ovvero i rappresentanti degli operai e i dirigenti industriali insieme nei consigli di amministrazione.
Andiamo per ordine, seguiamo il filo della storia.

Mercato libero? Sì, grazie. Ma il «capitalismo è da riformare»

È il 2013, Theresa May parla al congresso conservatore. In giacca scura e camicia bianca, guarda dritta alla sua platea, ogni tanto sbircia il discorso scritto che è poggiato sul leggìo davanti a sé. Spiega cosa significa credere nel libero mercato, perché il capitalismo «non è sempre perfetto». Rovescia i paradigmi dei Tories e dei Labour. Si appropria della retorica di sinistra delle possibilità per tutti, accostandola al linguaggio neoliberista. La cornice, però, è leggermente diversa.
«Crediamo nel libero mercato perché la storia ha provato che sono il mezzo migliore per distribuire opportunità a tutti, indipendentemente da chi sei e da dove vieni. L’opportunità è il terzo pilastro del Conservatorismo», dice. «Ma credere nel mercato libero non significa che crediamo che ogni cosa vada bene e non significa che il capitalismo, qualsiasi forma assuma, sia sempre perfetto. Quando è chiaramente fallimentare, quando perde sostegno popolare, quando non aiuta a dare opportunità per tutti, allora dobbiamo riformarlo», continua.
Tre anni dopo, a luglio 2016, è lo scandalo BHS a riportare Theresa alle sue critiche al capitalismo. Si tratta del crac di una delle storiche catene di grande distribuzione inglesi, che ha aperto a Londra nel 1928. La malagestio del patron Philip Green finisce in un rapporto della commissione parlamentare “Lavoro e Pensioni”, che definisce il retailer «volto inaccettabile del capitalismo».Undici mila lavoratori sono sul lastrico.
Questa volta, però, l’ex ragazza rigorosa affida le sue dichiarazioni ufficiali al portavoce di Downing Street. Fa sapere che il «governo ha intenzione di agire». Il sottotesto è: stroncare i comportamenti irresponsabili. La morale ritorna anche in economia. «Il primo ministro ha già stabilito che dobbiamo affrontare l’irresponsabilità aziendale e riformare il capitalismo in modo che funzioni per tutti, non solo per pochi privilegiati. Ciò significa che sul lungo periodo bisogna fare di più per prevenire comportamenti irresponsabili e sconsiderati», si legge in una nota.
Ora la domanda è: come il capitalismo può essere «responsabile»? Per iniziare, sostiene May, si può fissare un tetto agli stipendi dei manager. Ma non solo.

Capitalismo «responsabile»: lavoratori nei Cda

Nella prefazione a “Per la Critica dell’Economia Politica” (1859), Karl Marx scriveva che «a un certo punto dello sviluppo, le forze di produzione della società entrano in conflitto con le esistenti relazioni di produzione. Dalle forme di sviluppo delle forze di produzione, queste relazioni si trasformano nelle loro catene». Ciò che Marx teorizza, a distanza di oltre centocinquant’anni, incrocia la storia di Theresa May. Come? Procediamo con i fatti. Il Financial Times racconta che la premier inglese, per riformare i consigli di amministrazione delle aziende, ha intenzione di seguire il “modello tedesco”: ovvero piazzare i rappresentanti dei lavoratori nei board aziendali. Il riferimento è al mitbestimmung, caratteristica peculiare del capitalismo tedesco. Significa co-determinazione, cioè un sistema decisionale congiunto. A esportarlo in Germania nelle fabbriche di carbone e acciaio del dopoguerra, sono stati proprio gli inglesi. L’obiettivo era evitare che le industrie «si rimilitarizzassero», come spiega al FT Markus Roth dell’università di Marburg. Di fatto, si tratta di un modo per annientare il conflitto di classe nelle fabbriche, visto che, con il mitbestimmung, il rischio è che i rappresentanti dei lavoratori si allineino più agli interessi aziendali che a quelli dei lavoratori.
Resuscitare le politiche industriali come strategia post-Brexit
Se anni di avidità e disuguaglianza hanno preparato il terreno per la vittoria della Brexit, rifare gli errori degli anni Trenta (mercati sguinzagliati e austerità al governo) probabilmente non è una tattica tanto sensata. Così Theresa May pensa non tanto di sostituirsi al Labour nelle politiche industriali, ma di assimilarne parte degli slogan con l’obiettivo di ingraziarsi l’elettorato operaio e di sinistra.
È agosto 2016, la premier è alla sua prima riunione con il “Comitato Economia e Strategia Industriale”. Dice: «Abbiamo bisogno di una strategia industriale adeguata che si concentri sul miglioramento della produttività, premiando la gente che lavora con salari più alti, con la creazione di maggiori opportunità per i giovani, qualunque sia il loro background». La difficoltà, e quindi la sfida (posta in primis dalla globalizzazione), è trovare una formula in grado di fermare il declino del settore manifatturiero inglese.
Mentre il partito laburista si è incistato in una lotta ideologica interna, May ha l’opportunità di puntare a guadagnare influenza nelle storiche roccaforti operaie che hanno votato Leave. Il problema è proprio lì, come spiega David Bailey, professore alla Aston Business School: «Brexit ed euroscetticismo sono stati più forti nelle ex zone manufatturiere, dove l’industria è andata via, i buoni posti di lavoro sono finiti e le persone sono demotivate. Se May vuole fare qualcosa, il settore manufatturiero deve essere parte della storia».
Last but not least, in campo energetico May non è di certo una verde, visto che le sue priorità sono «affidabilità delle forniture e costi bassi per gli utenti».

Immigrazione, populismo e pari opportunità: May «non è quello che sembra»

Fino a questo punto la storia di Theresa May potrebbe sembrare quella di una conservatrice un po’ progressista, una moderata dedita al lavoro e molto attenta al rigore morale. Non è così. È radicalmente ostile all’immigrazione, e sulla disuguaglianza usa una retorica opaca.
Theresa May, già nel 2010, dice di essere in grado di ridurre l’immigrazione senza arrecare alcun danno all’economia britannica. Nello stesso anno, elimina un requisito legale che imponeva agli enti pubblici di ridurre (ove possibile) le disuguaglianze causate dallo svantaggio di classe. Secondo May, il provvedimento inserito nella legge per le Pari Opportunità inglese, il New Equality Act dalla laburista Harriett Harman, è semplicemente «ridicolo». Qualche mese dopo, nel 2011, introduce nuovi paletti ai neolaureati stranieri nelle università britanniche. Si scaglia contro chi «ha approfittato della generosità del governo». Nel 2015 afferma che è «impossibile creare una società coesa dove c’è l’immigrazione», perché «le conseguenze (dell’immigrazione, ndr)arrivano sempre a caro prezzo».
Il linguaggio di questi attacchi appiattisce ogni complessità. I toni sono incendiari, le leggi che ne derivano durissime. Il passaggio da frasi come: «I migranti pensano che le nostre strade siano lastricate d’oro, credono che la Gran Bretagna sia un posto dove fare soldi, ma non è così», alla traduzione legislativa di certe politiche è esattamente l’Immigration Bill, che dà maggiori poteri ai proprietari di casa, liberi di buttare fuori gli inquilini considerati “irregolari” senza bisogno di un giudice.
Una volta arrivata a Downing Street a luglio 2016, l’ex ragazza modello non può essere più cristallina: «Il voto del 23 giugno per la Brexit ha lanciato un chiaro messaggio. La gente vuole il controllo della libera circolazione delle persone all’interno dell’Ue».
Tra uno sfottò al rivale laburista, James Corbyn, per aver «sfruttato le regole per fare carriera» (senza però rispondere alle domande del leader Labour su disuguaglianza e salari) e una sosta dai fotografi, Theresa May torna alla carica contro le università. La loro colpa è quella di essere una «via facile per la migrazione economica». Ergo: è pronto un nuovo piano per imporre nuove restrizioni sui requisiti per i visti d’ingresso nel Paese.

Terrorismo. May la (dis)umana?

È sempre il 2016, fine maggio. Theresa è ancora ministro dell’Interno. Suggerisce di abbandonare la Convenzione dei Diritti Umani perché «può legare le mani del parlamento, non aggiunge nulla alla nostra prosperità, ci rende meno sicuri, impedendo la deportazione di cittadini stranieri pericolosi – e non fa nulla per cambiare l’atteggiamento dei governi come la Russia, quando si tratta di diritti umani».
Ma non è nuova a queste sparate. Quattro anni prima, nel 2011, si scaglia contro lo Human Rights Act, reo di impedire le espulsioni facili di soggetti considerati pericolosi per la sicurezza nazionale. «Lo vedo, qui nel Ministero degli Interni in particolare, il tipo di problemi che abbiamo. Non siamo in grado di espellere persone che forse sono sospettate di terrorismo. Lo abbiamo visto con alcuni criminali stranieri che si trovano nel Regno Unito».

Orgreave e violenza della polizia. May avrebbe potuto fare la differenza

Theresa May avrebbe potuto fare la differenza riguardo a una storia. Forse è ancora in tempo. Lei, nel 1984, era poco meno che trentenne. Quell’anno succede che i minatori dello Yorkshire sono in sciopero contro le politiche dell’allora primo ministro Margaret Thatcher. La «Lady di Ferro» vuole chiudere tutti gli impianti. A Orgreave inizia uno sciopero lungo un anno. Ma è il 18 giugno, dopo quattro mesi di picchetti, che cominciano le violenze della polizia. L’ente pubblico per il Carbone dà l’ok all’avvio del piano di dismissione di venti pozzi, mentre il sindacato del NUM, guidato da Arthur Scargill promette sciopero a oltranza. La protesta dei minatori viene duramente repressa.
A fine 2015 Orgreave “incontra” Londra e Theresa May. Dopo anni di investigazioni indipendenti e un’esplicita richiesta, avanzata da alcuni parlamentari, il Guardian scrive che May pensa di dare seguito a un’inchiesta pubblica sulle violenze della polizia a Orgreave. Perché, dopo il materiale esaminato, «dal ministero emergono grandi preoccupazioni». Le speranze, però, vengono seppellite poco prima di diventare premier. Come suo ultimo atto da ministro dell’Interno, Theresa sceglie di non proseguire con l’inchiesta. Poche settimane dopo, la Bbc annuncia che il report che documenta tutte le violenze non sarà reso pubblico. È un’occasione persa.

What’s next?

È agosto 2016, May è ormai da un mese a Downing Street. Di fatto, però, non ha portato la chiarezza tanto annunciata in tema di Brexite piani concreti per il futuro del Regno Unito. Dopo il suo tour europeo, e diversi incontri in agenda (tra i quali quelli con Angela Merkel e Matteo Renzi), i passi avanti sono stati pochi, bacchetta il Guardian.
La «bloody difficult woman» è in difficoltà? Anche in questo sembra essere diversa da Margaret Thatcher, che non tradiva mai incertezza.
Dopo aver raccontato la sua storia, le uniche similitudini che reggono sono le seguenti: due donne, due Tories, due premier. Thatcher era anti-Europa, May per il Remain, ma adesso è costretta a condurre la flotta inglese verso altri mari. E non si sa ancora dove la severa e puritana Theresa approderà, visto anche che a guidare la diplomazia della regina ha piazzato Boris Johnson, gaffeur di fama mondiale.
“Un gioco delle parti, il teatro inglese. Roba da buffoni. La politica ridotta a parodia, come questa “battaglia navale” sul Tamigi, che è farsa e tragedia insieme. La caricatura della storia britannica, delle scorrerie di Francis Drake intorno al globo e del trionfo sull’Armada Invencible. Uno scontro che ha cambiato il verso alla storia dell’Europa, e del mondo. Adesso resta solo questa caricatura di naumachia” Da: Brexit: battaglia navale – Il Tredicesimo Piano

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