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ven 22 luglio 2016

«DOV’ERI QUANDO DONALD TRUMP HA UCCISO IL PARTITO REPUBBLICANO?»

Nel 2000 lo scrittore James Ellroy va alla convention repubblicana di Philadelphia. In quell’occasione, proprio lui, quello che ama dire di sé «Fuck you, I’m a Republican», trova i discorsi del candidato e dei delegati «travolgenti e toccanti, se sei predisposto ad essere travolto e toccato dalla merda che hai sentito quattromila volte». Liquida G. W. Bush come un «cocciuto ragazzino delle confraternite che corre dietro alla rete di sicurezza del paparino».

«Trump è l’antisistema. Riuscirebbe a fare quello che nessuna crisi ha fatto: accelerare il collasso. Ci consegnerebbe all’ignoto. Sarebbero gli Stati Uniti dei cowboys, come i fratelli Bundy»Da Elezioni Usa, il male minore. Il Tredicesimo piano
22 LUGLIO 2016 – Nel 2000 lo scrittore James Ellroy va alla convention repubblicana di Philadelphia. In quell’occasione, proprio lui, quello che ama dire di sé «Fuck you, I’m a Republican»,trova i discorsi del candidato e dei delegati «travolgenti e toccanti, se sei predisposto ad essere travolto e toccato dalla merda che hai sentito quattromila volte». Liquida G. W. Bush come un «cocciuto ragazzino delle confraternite che corre dietro alla rete di sicurezza del paparino».
Sedici anni dopo succede che la convention del Grand Old Party si tiene a Cleveland, in Ohio, e il candidato incoronato per vincere la sfida delle presidenziali statunitensi è Donald Trump. Non c’è il caustico Ellroy a smontare la retorica della campagna elettorale, ma a essere davvero diversa è l’antifona degli speech. Non è la stessa, identica, sentita «quattromila volte». Nel 2000 lo slogan repubblicano era quello del «conservatorismo compassionevole» e dell’«America’s top gun», nel 2016 il cambio di passo è impresso con «Make America Great Again» («Rendi l’America di nuovo grande»).
Se da un lato è vero che la formula-traino della campagna di Trump è poco originale, in quanto riciclata dallo slogan di Ronald Reagan (1980), dall’altro è lampante la cesura storica tutta interna al GOP. Fiero di essersi fatto da solo, anche se è finito in bancarotta almeno quattro volte, Trump non «corre dietro al paparino» e alla sua rete. Anzi, avendo fatto crollare i tre pilastri del partito repubblicano così come lo abbiamo conosciuto(libero mercato, politica estera ambiziosa, conservatorismo sociale), sta praticamente scavando la fossa al vecchio GOP. All’interventismo militare preferisce l’isolazionismo, al dogma del mercato oppone la scuola del nazionalismo populista: «Signore e signori, è il momento di dichiarare la nostra indipendenza economica». Il ritornello che si ripete dalla Pennsylvania all’Ohio è sempre uguale: la globalizzazione ha penalizzato l’America. Per tutta risposta, infatti, i “big donors” presenti a Philadelphia snobbano Cleveland. Di Sheldon Adelson, David Koch, T. Boone Pickens e Paul Singer neanche l’ombra al grande evento. Per i più potenti «è socialmente troppo scomodo sostenere Trump».
Il tycoon ora candidato ufficiale repubblicano si sbarazza del mito dell’esportazione della democrazia à la Bush figlio. Non lo scarta perché lo ritiene pericoloso (si scomodò addirittura Eric Hobsbawm per elencarne i danni), ma semplicemente perché adesso gli Usa dovrebbero pensare a risolvere le questioni interne senza spendersi a impartire lezioni oltre confine e creare altri problemi. Cioè sarebbe meglio non seguire troppo le logiche della Nato.
Il cambiamento è esagerato, la retorica incendiaria, la grammatica semplice. I comizi al grido di «America First» evocano il protezionismo commerciale (quindi rialzo delle tariffe) e l’isolazionismo economico (stop ai trattati internazionali), ma – all’insaputa di Trump probabilmente – ricordano anche lo slogan di chi si oppose all’intervento Usa durante la Seconda Guerra mondiale. Le arringhe alla folla trumpista sono intrise di rabbia, indiscriminatamente rivolta contro le élite, gli immigrati, la rivale democratica nella corsa alla Casa Bianca, Hillary Clinton.
I tempi in cui Bush si sbracciava per un «mondo più sicuro e un’America più speranzosa», quelli che hanno creato il pantano Iraq per capirci, sono ormai sotterrati dalle aperte sortite razzistecontro i rifugiati che «arrivano qui e hanno i telefonini con la bandiera dell’Isis» e contro i musulmani in generale. Per la crisi siriana il tycoon dal ciuffo biondo non ha soluzione e ha persino ritrattato la sparata sull’invio di soldati in Medioriente per sconfiggere lo Stato islamico.
La creatura-Trump si serve di un linguaggio ridotto all’osso, che semplifica concetti complessi come la globalizzazione, la stagnazione dei salari, l’immigrazione, la disoccupazione, e li traduce in messaggi immediati. La velocità, il senso di urgenza, l’appiglio pop ne connotano il successo sui social network e in tv, e ne hanno finora accompagnato la scalata nei sondaggi. L’uso costante dell’aggettivo possessivo «nostro» va in tandem con parole come «trasparenza» e «correttezza», salvo poi sbattere nella piattaforma repubblicana contro i riferimenti agli alieni e a dubbie teorie contro l’immigrazione. Il vecchio GOP è morto, giurano alcuni. Ma la colpa, dicono altri, non è solo di Trump.
«Siamo davanti a un passaggio epocale, ma credo che non te ne sei accorto. L’alternanza tra democratici e repubblicani sta per saltare. Anzi, è già saltata. Il centrismo è finito in Europa, ora non incanta più neanche l’America. I democratici ci hanno spinto su posizioni folkloristiche, si sono impadroniti dei dispositivi di controllo, hanno preso la cultura liberale mollando i lavoratori. Ai repubblicani sono rimaste le posizioni sovraniste, identitarie, antistoriche. E non riescono più a essere partner affidabili dei soggetti dominanti. Ma al tempo stesso” conclude Derek “i democratici hanno perso presa sui giovani americani…” E indica il ragazzone che si è alzato e agita un pugno festoso verso lo schermo con la faccia di Trump». Da Elezioni Usa, il male minore. Il Tredicesimo piano
Al populismo dalle sfumature zero che ha bisogno di un nemico costante contro cui scagliarsi, il partito repubblicano statunitense è arrivato attraverso i suoi stessi errori, allargando le crepe interne. I tempi di Lincoln sono finiti da un pezzo, molto prima di Trump. Il partito del grande business, quello degli anni Venti prima della Grande depressione, quello che ha saputo trasformarsi e sostenere Reagan negli Ottanta con le sue promesse di lotte per l’interesse del business e i valori delle famiglie tradizionali è scomparso lentamente con l’avvento degli anni Zero. Sono stati gli anni del boom di arrivi ispanici, dell’esplosione delle divisioni razziali mai gestite, del revival dell’uomo bianco come icona di successo contrapposta al crimine e al terrore dello straniero, della riforma immigrazione che ha spaccato il partito.
«Dov’eri quando Donald Trump ha ucciso il partito repubblicano, così come lo conosciamo?», si è chiesto l’Atlanticnel maggio scorso. Con lui l’astio accumulato da molti americani, abbandonati dalla politica, è stato canalizzato in un populismo furioso che terrorizza i bankers di Wall Street (che nel vecchio GOP qualche appoggio lo avevano), tanto quanto i guru dell’high-tech e dell’innovazione (per via della penalizzazione delle aziende che investono all’estero e per le scelte in tema di immigrazione e scambio di cervelli), già attaccati dal tycoon.
Nonostante il richiamo alla law and order che ricorda tanto Nixon, quindi alla legge come soluzione a tutti i mali dell’America («il 20 gennaio gli americani si sveglieranno in un Paese dove la legge viene fatta rispettare») e il riferimento alla deregulation di Reagan declinata verso pura tirchieria («Sono stato avido e avarotutta la vita. Ora lo sarò per l’America»), Trump ha rotto con la tradizione repubblicana. Adesso, a detta sua, è il «Defender», il «truth-teller», il «rebuilder del partito» (colui che ricostruirà il Grand Old Party). Secondo il Washington Post, non ha fatto altro che «soffocare il partito di Lincoln».
I neocon, gli esperti che consigliarono Bush e fecero quadrato intorno all’allora presidente anche nei tempi più duri delle divisioni e delle liti, hanno infatti scritto una lettera aperta contro il “trumpismo”: «La sua visione riguardo alla influenza americana e potere nel mondo è selvaggiamente incoerente e disancorata in linea di principio. Oscilla dall’isolazionismo all’avventurismo militare nello spazio di una sola frase».
E ancora: «Il suo sostegno alla conduzione aggressiva di guerre commerciali è una ricetta buona per il disastro economico all’interno del mondo globalmente connesso. La sua odiosa retorica anti-musulmana mina la lotta contro il radicalismo islamico». Ultimo in lista, ma cruciale per gli Usa, secondo i neocon, è il muro con il Messico: «Controllare il nostro confine e prevenire l’immigrazione clandestina è un problema serio, ma l’insistenza sul fatto che il Messico finanzierà un muro al confine meridionale infiamma inutili passioni, e si basa su una lettura totalmente errata».
E gli intellettuali conservatori? Scalpitano, cercano nuove possibili alleanze. Ma contenere Trump è la vera sfida per il partito repubblicano, il quale ha sottovalutato l’astuto presentatore di “The Apprentice” che rischia di rendere l’America un reality show a ciclo continuo. Come ha scritto Nicholas Mirzoeff della New York University, la forza aggregante del tycoon potenziale presidente consiste nel fatto che in lui i meccanismi della real-tv si saldano con i social network. E il “gentismo-populismo” è assicurato.
Il fascismo è sbarcato in America?
«Gli appuntamenti elettorali e referendari sono ingovernabili. Il voto è una delle poche variabili che ancora sfuggono alle logiche algoritmiche. Il ruolo della paura ha perso efficacia, la disillusione orienta verso cambiamenti sempre più radicali. Il mondo intrusivo dei big data può determinare tendenze di consumo e di comportamento, ma non riesce a governare le emozioni. Il voto è pre-razionale, per alcune fasce della popolazione, e quindi diventa illeggibile, per noi». Da La biofinanza contro la rabbia e il dissenso. Il Tredicesimo piano

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