Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


lun 6 agosto 2018

UN “ALTROVE” OSCURO E PERTURBANTE

In un contesto storico caratterizzato dalla crisi del capitalismo, dal collasso economico, dalla fobia del diverso e dalla paranoia securitaria, le narrazioni hanno iniziato a virare sull’estetica della distopia. Ne abbiamo avuto riscontro soprattutto per i prodotti seriali ispirati dalla narrativa americana e anglosassone, ma adesso il discorso vale anche per la letteratura italiana. “Il grido” di Luciano Funetta ne è un esempio, romanzo che inaugura la collana Altrove, dal nome significativo, che ambisce ad accogliere quei testi che sembrano provenire, appunto, da un “altrove” oscuro e perturbante.

Il grido di Luciano Funetta è un romanzo che inaugura la collana Altrove, dal nome significativo, che ambisce ad accogliere quei testi che sembrano provenire, appunto, da un “altrove” oscuro e perturbante.
In Italia e in Europa è dato grande valore al cosiddetto “storytelling”, che Treccani definisce come «affabulazione, arte di scrivere o raccontare storie catturando l’attenzione e l’interesse del pubblico».

Lo storytelling è così diventato progressivamente una tecnica di mercato, suadente e persuasiva. Anche il mondo editoriale, assediato dalle leggi di consumo, ha dovuto in larga parte cedere a questo diktat, e a farne le spese è stata la letteratura.
Molto è stato imposto dalle dinamiche di mercato, ma molta è stata anche la componente di fascino che lo “storytelling” ha esercitato su chi per primo doveva metterlo in atto: non ci si può improvvisare, le scuole di scrittura pullulano di corsi improntati a questa disciplina, per confezionare una storia che «funzioni» ci vuole competenza, abilità e una certa dose di furbizia.
Gli autori si sono regolati di conseguenza: le librerie sono ricolme di storie confezionate con grande professionalità, ben calibrate, con tutti gli elementi al loro posto, architettate in modo tale da rassicurare il lettore, da accoglierlo in una zona confortante e prevedibile; accanto a queste ci sono altre storie, dalla sperimentazione forsennata, scritte da chi voleva a tutti i costi dimostrare di essere lontano da quel modello e che, inevitabilmente, a quel modello riconducono.
Al di sotto di tutta questa costruzione, emerge però un’altra realtà, che ha a che fare con le viscere del terreno o con le profondità abissali, e che si manifesta in crepe serpeggianti o in gorgoglii sinistri, tali da turbare la superficie.
Ne fanno parte alcuni autori apparentemente lontani tra loro, soprattutto geograficamente, che invertono la rotta del panorama letterario contemporaneo. I loro modi espressivi sono lontanissimi dal poter essere accostati – e la forte individualità è tratto fondamentale dell’essenza di questi scrittori –, eppure gli immaginari che costruiscono, seppure distanti, sono in qualche modo collegati, come insiemi che condividono maggiori o minori zone di intersezione.

Queste convergenze immaginative sono collegate alla contemporaneità: gli autori facenti parte di questa dimensione sotterranea, invece di fabbricare prodotti di intrattenimento rassicuranti e redditizi, si calano nelle derive del presente, le rielaborano, riavvicinandosi a quello che è il significato letterale dello “storytelling”: l’arte di raccontare storie.
In un contesto storico caratterizzato dalla crisi del capitalismo, dal collasso economico, dalla fobia del diverso, dalla paranoia securitaria, la narrazione ha iniziato a virare sull’estetica della distopia, mescolata alla specificità di ogni autore.
Ma siamo lontani da quelle che erano le tendenze del momento d’oro delle distopie novecentesche, quelle costruite da Huxley, Orwell, Bradbury, rielaborate nella seconda metà del secolo scorso fino ad autori come Morselli o Atwood; oggi la distopia ha perso la sua carica politica, o meglio, è politica nel non essere dichiaratamente politica.
Della distopia restano alcuni elementi, alcuni sentori, che sembrano ricordarci che il mondo reale si è talmente avvicinato a quello distopico, la sovrapposizione tra i due è così vicina, che la letteratura non potrebbe immaginare qualcosa in grado di andare oltre; immagina, di conseguenza, la deriva totale, il collasso, il post-distopia: un mondo derelitto e spento, senza più regole totalitarie imposte dall’alto, ma interiorizzate dai suoi stessi abitanti, che si trascinano in periferie desolate o lande mortifere.
Un mondo che proviene da un altro tempo e da un altro luogo, ma da un tempo e un luogo situati in un futuro prossimo, pericolosamente vicino al presente, in alcuni casi parallelo a esso.

In Italia, l’autore che più di ogni altro sembra inserirsi in questa onda sotterranea che sta percorrendo la letteratura di oggi è sicuramente Luciano Funetta, classe 1986 e libraio di professione.
Il grido è il suo secondo romanzo, appena uscito per Chiarelettere, dopo l’esordio del 2015 con Dalle rovine (Tunué). Ed è proprio Il grido a inaugurare la collana Altrove, dal nome significativo, che ambisce ad accogliere quei testi che sembrano provenire, appunto, da un “altrove”, oscuro e perturbante.
Il libro offre una visione della vita allucinata di Lena Morse, una donna di trentacinque anni, impiegata in una ditta di pulizie. Sopravvive alle giornate, camminando per ore lungo strade grigie, sulle quali ormai non passano più né macchine, troppo care per la popolazione, né mezzi pubblici: il servizio è stato interrotto di punto in bianco, e chi deve arrivare a lavoro si arrangia a recarvisi a piedi, organizzando gruppi per ridurre il rischio di aggressioni.

Oltre al presente di Lena, il narratore ci racconta alcuni momenti della sua infanzia, trascorsa nell’orfanotrofio gestito dalle inquietanti “Dame”, e inframmezzata dai momenti passati nell’Orto, una sorta di giardino segreto abitato da personaggi eterei, «saggi e schizofrenici […], bozzetti sul quaderno di un fumettista terminale che ormai disegnava solo figurine senza muscoli, riesumate dai ricordi», cui Funetta si diverte a dare nomi allusivi: Simone, Mircea, Lucillo e Mendel, una specie di entità vegetale perennemente sofferente.
Insieme a loro Lena prova per la prima volta l’Oblio, esperienza che cercherà di rivivere nell’età adulta. È così che passato e presente della protagonista arrivano, con l’avanzare delle pagine, a compenetrarsi, dando vita a un finale allucinatorio come le visioni che ossessionano la protagonista.
A essere protagonista, accanto a Lena, è la suggestione che l’autore è in grado di evocare. Funetta non si dilunga mai in descrizioni, lascia che siano gli elementi del racconto a parlare, a costruire la geografia dell’altrove.
I personaggi si muovono tra palazzi cadenti, piloni di tangenziali ormai inutilizzate, binari morti diventati bivacchi dei Dormienti; la città del libro non ha nome, citando Moby Dick «non è segnata in nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai», e infatti diventa tanto più credibile nel suo essere tratteggiata come la possibilità di una città, possibilità sempre più reale se paragonata alle periferie delle grandi metropoli.
Lo svago è delegato a una piattaforma online, il Portale Municipale, sul quale è anche possibile osservare per ore tramite webcam la tomba dei propri cari, sempre che il cimitero esista davvero.

Il grido non è tanto un romanzo di trama, quanto piuttosto il lavoro di costruzione di un immaginario, fatto di inquietudine suadente, di oscurità e angoscia, di elementi onirici accostati agli aspetti più disperati della realtà; è un immaginario che Funetta sta limando con rigore, affermando la sua autorialità, aiutato da un pantheon ideale di ispiratori che vanno da Poe a Bolaño, da Lovecraft a Kiš, fino ai contemporanei Volodine e Cărtărescu.
Senza mai abbandonare gli elementi pulp, fondamentali ed espliciti in Dalle rovine, qui anche presenti, come una sottotraccia, dalle bagarre del Kraken al bar di derelitti aperto tutta la notte e frequentato da Lena e fino ai fumetti letti dalla protagonista bambina firmati John Morghen.
In poco più di centosessanta pagine Funetta si conferma, alla sua seconda prova, come un autore che sta plasmando la sua riconoscibilità. Senza mai degnare neanche di uno sguardo le tendenze passatiste della nostra storia letteraria, l’allure dello scrittore di successo o la moda del bastian contrario, questo ragazzo di poco più di trent’anni sta lavorando al suo arsenale di bandito del panorama narrativo italiano, definizione accessoria che mai come oggi si carica di un valore estremamente positivo.

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