Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


gio 2 agosto 2018

UCCIDI PAUL BREITNER

Uccidi Paul Breitner di Luca Pisapia, uscito a fine giugno per la collana Quinto Tipo delle Edizioni Alegre, è un viaggio nella Storia in cui il calcio viene letto alla stregua di un dispositivo del potere per indagare le mutazioni politiche, sociali ed economiche del mondo occidentale. Ben lungi dalla retorica nostalgica dell’against modern football, per l’autore la vera presa di coscienza è che il calcio nasce moderno e capitalista e che è impossibile rimanere illesi dalle sue contraddizioni, l’unica via è farle esplodere di continuo.

Uccidi Paul Breitner-Frammenti di un discorso sul pallone di Luca Pisapia, uscito a fine giugno per la collana Quinto Tipo delle Edizioni Alegre, è un viaggio nella storia in cui il calcio viene letto alla stregua di un dispositivo del potere per indagare le mutazioni politiche, sociali ed economiche del mondo occidentale.

L’autore si avvale del discorso sul calcio come lo scrittore statunitense Don DeLillo usa la pallina da baseball in Underworldper porta a galla contraddizioni e sorti della società americana:
«La palla non portava né fortuna né sfortuna. Era un oggetto che passava di mano. Ma spingeva la gente a raccontargli cose, confidargli segreti di famiglia e storie personali inconfessabili, a singhiozzare di cuore sulla sua spalla. Perché sapevano che era il loro, come dire, il loro strumento di sfogo. Così Le loro storie avrebbero assunto un rilievo diverso, sarebbero state assorbite da qualcosa di più vasto, il lungo viaggio della palla stessa e l’assurda marcia di Marvin nel corso dei decenni.»
Così in Uccidi Paul Breitner la Storia viene cucita attorno a tre campionati del mondo – scanditi in tre rispettivi capitoli – che partono da Argentina 1978, passano da Usa 1994 e si concludono con Brasile 2014. C’è infine, a chiudere, un quarto capitolo che è una sorta di “guida alla lettura”, un riavvolgimento del nastro sulla narrazione stessa in cui vengono parzialmente svelati i passaggi tra fiction e non fiction, i punti di sutura che caratterizzano un oggetto narrativo inclassificabile.
La scelta dei tre mondiali non è affatto casuale perché pone il focus su tre momenti topici secondo l’autore per stringere sull’assunto dei rapporti tra potere e intrattenimento o, per meglio dire, dell’intrattenimento sportivo che si fa dispositivo di controllo.

Per seguire questo fil rouge che lega calcio e potere Luca Pisapia si attrezza di tutte le “armi” necessarie: dalla letteratura al cinema e fino a incursioni filosofiche che renderebbero l’indice bibliografico, qualora figurasse, sterminato.
Ma di bibliografia non c’è traccia perché sottrarre il volume a una configurazione meramente saggistica e conferirgli invece una forma ibrida, è proprio l’intento e il gioco poetico dell’autore per dimostrare che il calcio è un’illusione irriducibile e frammentaria, al servizio del Capitale.
L’estratto che compare in quarta di copertina, del resto, è un indizio chiarissimo sul contenuto del volume: «Lascia perdere slogan idioti come Against Modern Football! La mercificazione della nostalgia ci propina un passato che non è mai esistito. Invece che rimpiangere bei tempi mai esistiti, l’unica resistenza possibile è offrire una lettura non pacificata del pallone. Se vuoi raccontare il calcio in maniera rivoluzionaria, non guardare a una presunta età dell’oro del passato, fai esplodere le sue contraddizioni».

“Far esplodere le contraddizioni”, ecco il punto. E Luca Pisapia lo centra alla grande firmando un libro avvincente che, se fosse stato un romanzo, avrebbe potuto essere letto con l’adrenalina e le tinte oscure di un noir.
È un libro che non concede consolazioni, dove non figurano personaggi positivi se non qualche sparuta comparsa di calciatori ribelli che, quasi sempre, sono stati relegati ai margini della Storia o divorati dalle enormi contraddizioni del sistema.
Si parte quindi dal ’78: dall’Argentina della giunta militare e dei desaparecidos. Attraverso un personaggio di finzione, che segue le partite costretto in un tetro bunker, si delinea un mondiale dominato dalla propaganda della dittatura ma anche appoggiato da tutte quelle forze controrivoluzionarie che, in tutta Europa e negli Stati Uniti, erano costituite da servizi deviati e massonerie che, di fatto, difendevano il potere capitalistico dalla minaccia sovietica.
Ma il ’78 argentino è anche e soprattutto quello che ancora presenta frattaglie e resti del regime nazista, accasati in un continente dilaniato da colpi di stato militari dietro cui si celano finanziamenti e sostegni del sempre presente Zio Sam.
E in questo senso il mundial presenta uno spaccato vicinissimo alla storia recente dell’Italia, che l’autore ci ricorda a più riprese riportando in superficie gli intrecci tra la dittatura di Videla, la P2, l’estrema destra italiana e i Servizi segreti nostrani.

Eppure il nastro del tempo riavvolto attraverso il mundial si spinge ancora più indietro, fino ad arrivare – a cavallo tra secondo conflitto mondiale e dopoguerra – alla genesi del calcio con funzione di controllo massivo.
Un sistema dove la corruzione è diffusa e capillare, ontologica e pervasiva: il calcio diventa il panem et circenses per eccellenza nell’Europa della ricostruzione e del boom economico; un continente dominato dalle regole del fordismo in cui lo stadio e il tifo divengono le gabbie di sfogo per le masse sfruttate.
Di rovescio, e infine, il primo capitolo diviene il luogo per raccontare le grandi scuole calcistiche e le istanze sociali che le hanno animate: il calcio totale olandese nato tra i vicoli di Amsterdam, in cui lo spazio è stretto e il binomio rapidità-cooperazione sono la discriminante per non lasciar finire il pallone nei canali; il calcio operaio della working class britannica, forgiato da Bill Shankly che vuole le maglie del Liverpool rosse come le bandiere del proletariato; il catenaccio e contropiede di matrice italiana, a rispecchiare da una parte il pragmatismo del Paese che ha dato i natali a Machiavelli e dall’altro il crescente individualismo piccolo-borghese.
In un contesto totalmente differente avviene il Mondiale di Usa ’94: il muro di Berlino è caduto da cinque anni e nel mondo viene pompato, attraverso le nuove tecnologie, un ottimismo dilagante.
Bill Clinton è appena stato eletto Presidente degli Stati Uniti, Tony Blair si è preso il partito laburista inglese e si appresta a diventare Prime Minister, la rivoluzione tecnologica è ai suoi albori ma è ancora la televisione a fare la parte del leone e anzi: la televisione commerciale domina la cultura occidentale.

David Foster Wallace sta scrivendo Infinite Jest in cui l’intrattenimento televisivo viene rappresentato come una dipendenza potenzialmente letale: le tv assumono un potere dilagante e diventano un mezzo di produzione dominante, e proprio in Italia comincia il ventennio berlusconiano e la Seconda Repubblica fondata sul potere mass-mediatico.
Nel pieno del postfordismo lo stadio cambia fisionomia, il calcio accelera la sua riproducibilità grazie all’ausilio dei supporti tecnologici, il calciatore diventa totem multimediatico e il tifoso mera clientela da cui estrarre valore.
La sottoculture che nascevano spontaneamente sulle gradinate o in mezzo alla strada vengono soppiantata da una forte standardizzazione del tifo, che ora deve rientrare nei canoni televisivi per garantire gli introiti pubblicitari.

Nonostante questo sia il quadro, Luca Pisapia evita volutamente il tema del tifo per evitare di cadere nella trappola nostalgica di un “calcio d’altri tempi”.
E la sua scelta è tutt’altro che apolitica, in quanto per l’autore la vera presa di coscienza è che il calcio nasce moderno e capitalista, e persino il tifo più oltranzista – l’esempio più calzante è la parabola del St. Pauli, da squadra ribelle a brand commerciale – dimostra che è impossibile rimanere illesi da tali contraddizioni e che l’unica via, lo ribadiamo, è farle esplodere di continuo.
Nella stessa collana è stato pubblicato Il derby del bambino morto di Valerio Marchi, che invece ha il focus proprio nel tifo e tuttavia, in un ideale palleggio con Uccidi Paul Breitner, racconta gli stadi come una sorta di laboratorio d’addestramento alla repressione per le forze dell’ordine, un luogo in cui sperimentare e ottimizzare modalità per sedare qualsiasi tipo di rivolta o protesta sociale.

Il mondiale americano del ‘94 mette quindi le basi – ma in maniera retro-attiva, in quanto è posizionato nel libro più avanti, come terza e ultima parte – per ciò che sarà il calcio nel successivo ventennio e fino ai giorni nostri.

Cioè quando l’assegnazione dei mondiale – è il caso di Brasile 2014 e del recentissimo Russia 2018 – diventa di rilevanza geopolitica per far crescere esponenzialmente il fatturato della Fifa non senza l’aiuto, ovviamente, di quel sistema di tangenti volto a corrompere i delegati all’assegnazione di location e strutture varie.
La storia, allora, muta in un crime spionistico con tanto di agenti dell’FBI sotto copertura e sopravvissuti della Raf intenti a uccidere il calciatore simbolo della narrazione distorta e pacificata sul calcio, Paul Breitner, appunto.
E tra le pagine sembra di riconoscere l’eco dell’American Tabloid di James Ellroy, quando il “demon dog” urlava al mondo che «L’America non è mai stata innocente.»

Ecco allora cosa ci racconta Uccidi Paul Breitner: che anche il calcio non è mai stato innocente.

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