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RECENSIONE


ven 21 aprile 2017

TUTTO È IN FRANTUMI E DANZA

In libreria per La Nave di Teseo, "Tutto è in frantumi e danza" riavvolge il nastro degli ultimi vent’anni attraverso un incalzante dialogo tra i due autori. Guido Brera ed Edoardo Nesi si passano il testimone del racconto, alternano le loro prospettive da un capitolo all’altro. E ripercorrono il tempo della Caduta: dalle stelle alle stalle, dai miti di quarta mano del decennio entusiasta – i Novanta – all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca

Dal 20 aprile in libreria per La Nave di Teseo, Tutto è in frantumi e danzariavvolge il nastro degli ultimi vent’anni attraverso un incalzante dialogo tra i due autori. Guido Brera ed Edoardo Nesi si passano il testimone del racconto, alternano le loro prospettive da un capitolo all’altro. E ripercorrono il tempo della Caduta: dalle stelle alle stalle, dai miti di quarta mano del decennio entusiasta – i Novanta – all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, dalle ingannevoli promesse di fin de siècleall’oggi della montante marea populista. Sogni sono andati in pezzi, la democrazia è stata svuotata, banche sono fallite, banche centrali hanno provato a fermare il tempo congelando l’Occidente sotto una coltre di cartamoneta nei giorni del Quantitative easing. La Crisi ha minato gli assetti politici dell’Unione europea e la globalizzazione ha travolto milioni di vite. Perfino la tecnologia ha mostrato un volto feroce. Intrecciando nella cornice del confronto a due voci saggistica disinvolta, memoir e autobiografia collettiva, gli autori svelano i congegni segreti dei dispositivi economici, finanziari e politici che plasmano la realtà.   Nel brano che segue, Brera narra in presa diretta l’ultimo scorcio degli anni Zero, il momento in cui dal centro delle reti finanziarie fu mosso l’attacco alla Grecia e alla “periferia” europea. C’era un dogma secondo il quale uno Stato non poteva fallire. La possibilità che ciò accadesse smentì il dogma. E da allora niente fu più come prima…
[…] Le migliori performance della mia vita di gestore sono venute dall’investire nei mercati azionari di tutto il mondo: nelle aziende, o contro di esse. Ho sempre preferito investire in un’azienda – comprare le sue azioni e guardarle salire, gratificato sia dall’aver avuto ragione a puntarvi sia dal rendimento che fruttavano, per poi venderle al momento adatto – ma non mi sono mai posto il problema se fosse giusto o no investire contro un’azienda.

L’ho fatto, a volte. Fa parte del mio lavoro. È un meccanismo controintuitivo che fin da ragazzo mi è sempre parso affascinante. Consiste infatti nel vendere allo scoperto le azioni di una società – cioè senza possederle – in attesa di un futuro calo delle quotazioni che mi consentirà di comprarle in seguito a un prezzo più basso, così chiudendo l’operazione.

[…]

Ora però mi trovavo a dover investire contro uno stato – un libero stato di quell’Europa in cui avevo sempre creduto e che era stata uno dei capisaldi della mia educazione, sia personale sia professionale. Stavolta non era il destino di un’azienda a essere messo in discussione, ma il destino di milioni di persone, di europei come me, che io e i miei colleghi di tutto il mondo stavamo mettendo a rischio. Perché se la Grecia falliva, i suoi undici milioni di cittadini non potevano farsene una ragione e abbandonarla per andarsene a vivere e a lavorare altrove.

Mi accorsi che era il mio stesso ruolo a cambiare. Smettevo di essere un investitore imparziale, interessato solo ed esclusivamente a far conseguire un utile lecito ai miei clienti, per diventare una specie di legislatore occulto della Grecia.

Sì, perché erano le nostre vendite – le mie e quelle dei miei colleghi in giro per il mondo – a far salire lo spread e terrorizzare l’Europa e a costringere il governo di Atene a intervenire più volte sul suo bilancio con misure improvvise e draconiane, approvate nel cuore della notte da un parlamento terrorizzato mentre piazza Syntagma era cinta d’assedio da migliaia di dimostranti e dalle troupe televisive di tutto il mondo: ai greci venivano aumentate l’iva e le tasse, tagliate le pensioni e gli stipendi. Erano migliaia le persone che perdevano il lavoro da un giorno all’altro.
Vendere forzatamente e congiuntamente il debito di uno stato fino a metterlo in ginocchio e ottenere di influenzarne le leggi significa diventare un soggetto politico di quello stato, non eletto eppure potentissimo. Significa falsare la democrazia di quel paese e di conseguenza di tutta l’Europa, indebolirla fino a renderla poco più di un simulacro, e poi cancellarla del tutto.

Non era Papandreou a governare la Grecia. Eravamo io e quelli come me. Se una riforma non ci convinceva, intensificavamo la pressione in vendita e costringevamo il governo di Atene a sostituirla con una più dura. E per quanto dure fossero, non lo erano mai abbastanza da convincerci. Era sempre troppo poco, e troppo tardi.

Non mi piaceva per nulla impoverire i greci. Lo facevo, certo. Perché dovevo. Lo dovevo ai miei clienti: al mandato fiduciario che mi avevano dato e che consisteva nel farli guadagnare. Se per qualche ragione avessi smesso di farlo, qualcuno avrebbe preso il mio posto. E così, mentre con le vendite proteggevo i patrimoni dei miei clienti dal crollo di un paese, continuavo a ripetermi che la colpa non era mia, che stavo solo facendo il mio lavoro.

Ma non riuscivo a smettere di guardare le immagini dei telegiornali. Gli scioperi. Le continue dimostrazioni nelle piazze. I ragazzi incappucciati con le felpe nere che appena cadeva la notte iniziavano a lanciare sassi contro la polizia. Le molotov. Gli scudi. Le nubi dei lacrimogeni. I volti sempre tirati dei giornalisti e degli intervistati. Gli sguardi di ghiaccio dei nazisti di Alba Dorata.

Dormire diventò difficile, e raro. Ad angustiarmi non era solo il tracollo della Grecia. Mi chiedevo cosa sarebbe successo di lì a poco anche alle altre nazioni europee fortemente indebitate. Cosa sarebbe successo all’Irlanda, al Portogallo. Alla Spagna. Cosa sarebbe successo all’Italia. Fermarsi, però, non era possibile. Era tutto il sistema che rischiava di crollare, e nessuno voleva rimanere sotto le macerie. Così, per coprire i rischi correlati a un’implosione del debito ellenico, cominciai a comprare CDS sulla Grecia.

Il CDS, acronimo per Credit Default Swap, è un contratto finanziario col quale ci si può assicurare contro il fallimento di un’azienda – o in questo caso di uno stato – che abbia emesso obbligazioni: più alto è il rischio di fallimento, più alto sarà il valore del CDS. È uno strumento finanziario derivato, quotato ufficialmente e regolarmente scambiato, ma è molto, molto volatile. Va preso con le molle.

Poiché non ha come riferimento un valore economico, ma è semplicemente una misurazione del consenso del mercato sulla possibilità del verificarsi di un evento futuro, può avere oscillazioni estreme. Per darvi un’idea, il CDS sulla Grecia era quotato a 4 nel luglio del 2007, ma finì per raggiungere i 25.400 al picco della crisi, quando tutti scommettevamo – altro verbo sarebbe inaccurato usare – sul crollo del sistema dell’euro. In quei giorni, però, non era così rischioso puntarvi: dalle sabbie mobili in cui era finita, Atene non poteva certo uscire da sola, mentre l’Europa stava a guardare…

Presto, però, il CDS non bastò più, e decisi di vendere direttamente tutti i titoli greci che ancora avevo in portafoglio. Scattò così quel pensiero laterale che mi portò a chiedermi quale sarebbe stato il prossimo stato a trovarsi sotto il fascio di luce della torcia del mercato, e iniziai a vendere anche i titoli delle altre nazioni indebitate che avevo in portafoglio. Di colpo mi apparivano molto più rischiosi di quanto non li valutasse il mercato. Anche i BTP, certo.

Iniziò poi a diffondersi il messaggio che Atene non poteva fallire perché i suoi creditori – soprattutto quelle banche francesi e tedesche che in passato avevano comprato a piene mani i titoli dello stato greco attratte dagli alti rendimenti e dall’assenza di rischio di cui godevano fino a poche settimane prima – non avrebbero potuto permettersi quelle immense perdite.

Al tempo stesso però la Grecia non poteva nemmeno essere salvata del tutto, poiché agli occhi degli elettori tedeschi un salvataggio europeo avrebbe rappresentato una pericolosissima rottura delle regole e l’incoraggiamento ad altri paesi indebitati a comportarsi allo stesso modo, e così, dopo settimane di passione, venne scelta una soluzione di mezzo: la migliore per i forti, la peggiore per i deboli.

L’Europa e il Fondo monetario finirono per concedere un prestito di salvataggio di 110 miliardi di euro che se da un lato dava ossigeno ad Atene, dall’altro le imponeva ulteriori, severissime misure di austerità. Troppo severe per un paese già in ginocchio. Era come pretendere che la Grecia uscisse dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli, come il barone di Münchhausen.

Fu questo approccio ad alimentare la narrazione del contagio. Se la Grecia è il paziente zero, quello in cui si è manifestato per la prima volta e con la massima forza il virus, allora sarà bene iniziare a misurare la febbre anche ad altri pazienti, e a giudicare dal costante aumento dello spread tra i loro titoli e quelli tedeschi, risultano infettati anche il Portogallo, l’Irlanda e la Spagna.

I problemi di questi tre stati preoccupano i mercati: era questa, comicamente, una delle espressioni più usate dai commentatori finanziari, come se a preoccuparsi dei debiti di queste nazioni fossimo noi che vendevamo, e non i cittadini e le cittadine di Lisbona, di Dublino e di Madrid, che passavano le giornate davanti alla televisione in attesa di buone notizie che non arrivavano mai.

Subito dopo, naturalmente, tocca all’Italia, il paese più indebitato di tutti. Del resto era sotto osservazione da mesi, in pratica dal giorno in cui Papandreou andò in televisione a vuotare il sacco delle bugie. Per quanto le dimensioni della nostra economia e del nostro debito siano così ingenti da farci definire too big to fail – troppo grandi per fallire – lo spread tra i BTP e i titoli tedeschi inizia a salire. Anche la Lehman, del resto, era too big to fail.

Ci mettono nello stesso gruppo, tutti insieme, e diventiamo il problema dell’Europa. Dalle nostre iniziali, iniziano a chiamarci PIIGS. Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

I maiali.

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