Opera pop, genere fantasy, e ancora: serialità. Dalla fine dei Settanta in poi, ad Hollywood qualcosa cambia: il cinema smette di narrare solo per immagini e fanno il loro ingresso in sala le saghe. Star Wars, il cui debutto è del ’77, segna uno spartiacque oltre il quale si succede, in maniera progressiva, l’insistenza nel dare una scansione episodica alle opere cinematografiche e ai dispositivi narrativi in esse contenuti, fino ad arrivare, negli anni Zero, al boom della serialità televisiva.
Terziarizzazione e flessibilità del lavoro, avanzamento tecnologico e globalizzazione, riconfigurazione spasmodica degli assetti geopolitici, sono tutti fattori che rendono la realtà sempre più liquida e frammentata e, di conseguenza, la sua trasposizione finzionale deve avvalersi di una sempre maggiore complessità narrativa, che trova il suo congeniale diluente nella serialità.
Tutto questo assume una manifestazione pervasiva con la profonda crisi economica – e politica, ça va sans dire – che si consuma nel primo decennio del XXI secolo. Ne consegue una percezione collettiva del potere e della realpolitik che è oscura e pessimistica, e di cui il successo riscosso dalla serialità narrativa de Il Trono di Spade ne è un segno emblematico, sia per il nichilismo ad libitum («Non c’è epilogo, non c’è messaggio, non c’è morale della favola»), sia per la tensione evasiva («Forse il successo di questa serie è legato alle speranze nascoste dei rassegnati cittadini europei») insieme al profondo senso di rivalsa introiettato da una generazione: «Che all’improvviso venga a salvarti quel padre che ti ha ripudiato (il riferimento è a Jeor Mormont, padre di Jorah) o che qualcuno, con i draghi (ovvero: Daenerys Targaryen detta la “Khaleesi”), arrivi a riscattarti dalla mediocrità» (dal prologo di J.C. Monedero).
Tuttavia, la lettura che i saggi di Vincere o morire danno de Il Trono di Spade non è volta solo a riscontare le contraddizioni del momento storico che la serie porta a galla, ma anche e, anzi, allo scandaglio delle strutture teorico-politiche.
Protagonista assoluto de Il Trono di Spade è il “potere”, e i personaggi che si muovono nell’intreccio sono figure subordinate alla sua rappresentazione. In questo senso viene meno la topica struttura, teorizzata da Joseph Cambell, del “viaggio dell’eroe”, perché all’interno della serie ogni personaggio – più un pezzo da scacchi che non una figura eroica – non ha il tempo né le condizioni materiali per portare a compimento la sua epica impresa: o vince, ma rimane sulla scacchiera, oppure muore, e scompare nell’oblio. Ciò che rimane sempre in scena è proprio il “potere”, e la sua continua dialettica con la categoria della legittimità, nello strenuo e vano tentativo di imporsi una volta per tutte.
Dentro la dialettica tra “potere e legittimità” – la cui risoluzione è decisiva per sedere sul Trono di Spade, cioè il trono della legalità – si innescano dialettiche di altro genere, come quella tra “moralità e strategia”: Eddard Stark, uomo morale ma privo di abilità politica; Lord Varys, campione politico privo di scrupoli morali; Petyr Baelish, genio tattico ma al servizio unicamente della sua persona; la (regina) Khaleesi, personaggio estremo e idealista che si emancipa ed emancipa un popolo dalla schiavitù attraverso lo strapotere dei draghi. Di più: ancora connesso alla rappresentazione del potere e, come spiega la “teoria del capro espiatorio” di René Girard, alle modalità con cui esso rafforza la sua possibilità di accentrarsi e consolidarsi, è la paura del nemico esterno. E, ovviamente, anche questo è un elemento chiave che ritorna nella trama del TdS, in quanto i sette regni che si contendono il trono massimo sono protetti e delimitati dalla grande Barriera, oltre la quale incombono le minacce dei “bruti” e degli Estranei.