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RECENSIONE


mar 31 gennaio 2017

THE FOUNDER, L’AMBIGUITÀ DEL SOGNO AMERICANO

Il sogno americano è soggetto a forte revisione, diventa qualcosa d’indistinto, che mescola incubo e visione nella figura di Ray Kroc, con quel cognome tanto ostico da doverne scegliere un altro e rappresentare la contraddittoria profilassi del successo made in Usa: cioè la capacità di passare con disinvoltura dal «I have a dream» al gobble down (trangugiare), una spirale in cui i sogni si consumano a morsi e si piangono lacrime di ketchup, passando lietamente dal ghigno al sorriso e viceversa.

Nel dicembre del 1996 l’editorialista del «New York Times» Thomas Friedman sostiene con una boutade che c’è un motivo perché paesi con un McDonald’s non sono mai entrati in guerra tra loro: nasce così la “teoria degli archi d’oro” o “teoria della guerra di McDonald’s”, anche detta “la polpetta della pace”. L’assioma è semplice: nazioni con classi medie che sono abbastanza prospere da consentire l’apertura di un franchising McDonald’s sul suolo nazionale, hanno raggiunto un livello di ricchezza e integrazione globale tale da rendere la guerra economicamente dannosa. Ergo: il popolo del fast food «doesn’t like to fight wars, they like to wait in line for burgers», preferisce la fila alla guerra, un succulento hamburger al piombo caldo. Strampalata teoria che frana miseramente nel 2008, quando la Russia – dove McDonald’s ha aperto nei Novanta – invade la Georgia – che inaugura suo primo punto vendita BigMac nel ’99 – e sancisce così, oltre alla propria fallibilità, una prima crisi degli assetti globali nel segno del ketchup e della carne tritata.

Il conto presentato su scala planetaria a una classe media, che progressivamente soccombe impoverendosi, è salatissimo. Risulta quanto meno singolare, allora, che proprio in questi tempi di revisione del successo degli equilibri planetari, Hollywood scelga di realizzare un film sull’ascesa e l’affermazione di uno dei marchi più longevi di sempre immediatamente identificabili con l’idea stessa di globalizzazione. Comunque, e nonostante l’onda lunga della grande crisi di fine anni Zero, a oggi McDonald’s rimane la più importante catena di fast food del mondo che, oltre a offrire menù ipercalorici a prezzo contenuto, continua a rappresentare uno dei simboli più ficcanti del fascino indiscreto della globalizzazione insieme al marchio n°1 in pervasività: quelle curve bianche su sfondo rosso che si leggono Coca Cola e da subito accompagnano tutti i menù ad archi dorati. Forse, semplicemente per l’inscalfibile dato in oggetto, l’approdo di questa storia a Hollywood era fatale.

“M” di McDonald’s, “M” di “mito fondativo”

La seducente “M” ad archi d’oro si forma per la prima volta nelle lungimiranti pupille di Ray Kroc, l’unico, ai tempi, in grado di comprendere e sviluppare una cosa semplice ma rivoluzionaria: creare un marchio efficace, esportarlo in maniera seriale, ovunque. Un Warhol ante-litteram, per certi versi, che riproduce lo stesso prototipo perfetto fino a farlo diventare unico e inimitabile. È grazie all’intuizione di Ray Kroc, decollata fino al proliferare di ben 31.500 “ristoranti” in tutto il mondo, che la catena viene oggi annoverata tra gli inventori del moderno franchising. Piccole modifiche a parte, il design, l’organizzazione e il prodotto offerti da McDonald’s sono rimasti esattamente identici, in tutti i paesi del mondo, nell’arco di un glorioso cinquantennio. La lungimiranza rispetto alle potenzialità del cibo in serie e di massa, viene a un commesso viaggiatore, un venditore che gira gli States da costa a costa e vede reiterarsi costantemente due simboli in ogni città: la bandiera a stelle e strisce sopra il tribunale e la croce che indica la chiesa. Il giorno in cui lo spietato e funambolico affabulatore Ray inciampa nella cucina-espresso dei fratelli McDonald, l’immagine degli archi dorati e il suono di quel nome, che sa tanto di “made in Usa”, accecano Ray Kroc tanto da prefigurare nella sua mente la travolgente possibilità di aggiungere un nuovo potente simbolo alla toponomastica degli Stati Uniti: accanto al Tribunale e alla Chiesa, in ogni cittadina degli States, dovrà esserci un fast-food a cerchi dorati. Ma partiamo dal principio: Ray Kroc non ha propriamente inventato McDonald’s. Com’è chiaro, non c’è nessuna “K” a trionfare sul brand della ristorazione seriale più famosa al mondo. Il nome non è suo né tanto meno è sua l’idea di un sistema di cucina-espresso che consente di preparare hamburger identici in soli trenta secondi. Chi è dunque Ray Kroc? Niente di più che uno scaltro manipolatore in grado di frodare due ingenui fratelli ristoratori appropriandosi delle loro trovate? Ecco, la questione è un filo più complessa. E l’obiettivo di The Founder, distribuito in Italia da Videa, è accompagnare lo spettatore oltre l’immagine patinata dell’eroe americano spingendolo a porsi un’affascinante sequela di quesiti.
Il primo: a chi appartiene un’idea? A chi la concepisce o a chi ne potenzia il valore estrattivo, arricchendola al punto di trasformarla in una realtà superiore al sogno di chi l’ha pensata per primo? E ancora: quali sono i confini tra idea e business? E più nel profondo: quanto sono vaste le differenze tra ossessione e creazione? Ergo, in conclusione: Ray Kroc è un mostro senza scrupoli o un lucente visionario? Ma soprattutto: sarebbe davvero possibile cambiare qualcosa nella sua ricetta del successo o la sua è una malata commistione di intelligenza e crudeltà da ascrivere al peccato originale del capitalismo moderno così come oggi è concepito?

Il dato più interessante della narrazione, in The Founder, consiste nel creare una patina sottile sul concetto stesso di sogno americano, attraverso una disamina sospesa tra significato e significante, che registra il prevalere di colui che vede più lontano. A scanso di equivoci: non si tratta di cinema di denuncia e anzi l’approccio del regista John Lee Hancock (The Blinde Side, 2009 e Saving Mr. Banks, 2013) è al limite del didascalico, con un protagonista ipnotico come Michael Keaton a cui viene saggiamente affidato il ruolo del genio (del male?), per rivolgersi alla macchina da presa e raccontare la storia del suo alter ego, attraverso una tecnica già vista e ormai abusatissima, il cui rimando più istantaneo è al Kevin Spacey della fortunata serie House of Cards ideata da Beau Willimon. Le scelte registiche sono quindi volutamente lineari e pressoché prive di innovazione. Tuttavia, la pellicola riesce a lavorare in profondità con la ricostruzione di un case intenta a svelare gli enigmi non della capacità inventiva, ma di quella prefigurativa: cioè quella che tutto scova in anticipo e tutto cannibalizza sotto l’impulso nefasto della propria ossessione. Il protagonista è un uomo senza apparenti qualità alla disperata ricerca del successo: una figura in cui riecheggiano le ossessioni alla radice del sogno americano, e che ne segnano i tragici rovesci con l’atavica voglia di mettersi sotto il cono di luce, amare il successo per amare se stessi, come fu per John W. Hinckley Jr, l’attentatore di Ronald Reagan che impugnò una calibro 22 contro il presidente al solo narcisistico scopo di fare colpo sulla nascente diva Jodie Foster. Si dà conto così di una psicosi collettiva, non restringibile al singolo individuo con la scusa del caso clinico. Con Ray Kroc siamo di fronte a un americano medio che vuole farcela a tutti i costi nonostante i suoi 52 anni, la calvizie incipiente e una moglie – interpretata da Laure Dern – che lo compatisce e disprezza.

Quell’hamburger pronto in 30”, che vale l’ossessione di una vita

L’occasione arriva per caso, quando il fallito Ray, stupito da un ordine di otto frullatori meccanici di cui è rappresentante, decide di coprire i 2000 km che separano l’Illinois dalla California lungo la Route 66, per incontrare i fratelli Richard (Dick) e Maurice (Mac) McDonald nella sperduta città di S. Bernardino. È una folgorazione: quegli hamburger che vengono fuori, tutti identici, in trenta secondi, valgono l’ossessione di una vita. Il mediocre Ray Kroc trova il suo scopo, le branchie dello squalo si fanno strada sotto l’epidermide e le pupille assumono quella concupiscenza avida e smisurata, in una parola: neo-capitalistica. Il volto allucinato di Michael Keaton restituisce con perfezione le fasi che portano l’uomo qualunque a maturare la velleità di essere l’unico e il solo. Non si tratta semplicemente di ego, ma della capacità, di uno stadio assolutamente avanzato, di cogliere le potenzialità del mercato e di tutte le sfaccettature a esso connesse. Per questo Ray Kroc, l’uomo che non porta il nome della sua spopolante creatura, è a tutti gli effetti il fondatore della più importante catena alimentare del mondo. Perché è l’unico in grado di trasformare un eccentrico e sperduto chioschetto di hamburger in un impero multinazionale, saldando una semplice ma rivoluzionaria idea di marketing allo spirito del “The power Positive”, il corso motivazionale che ossessivamente ascolta e ripete come un mantra: «Perseveranza e determinazione sono onnipotenti».
The Founder si discosta sia dalle pellicole a netta conclusione moralistica, sia da quelle segnate dal piatto binomio sogno americano-conseguimento dello stesso, accostandosi più intimamente al fronte dei biopic come The social network di David Fincher, in cui il protagonista si muove con ambiguità tra gli interstizi e le oscure sfumature che lo separano dal successo. La pellicola, attraverso un’intensa prova attoriale, trova un inaspettato spazio nel cinema contemporaneo e sembra voler dire che tra ossessioni e sogni le differenze sono enormi, e che solo chi è abbastanza cinico e spietato da carpire il sogno altrui per trasformarlo nel proprio riesce ad avere la meglio. Il sogno americano è soggetto a forte revisione, diventa qualcosa d’indistinto, che mescola incubo e visione nella figura di Ray Kroc, con quel cognome tanto ostico da doverne scegliere un altro e rappresentare la contraddittoria profilassi del successo made in Usa: cioè la capacità di passare con disinvoltura dal «I have a dream» al gobble down (trangugiare), una spirale in cui i sogni si consumano a morsi e si piangono lacrime di ketchup, passando lietamente dal ghigno al sorriso e viceversa.

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