Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


gio 10 maggio 2018

“LORO”-PT.1 E NOI

Noi siamo l’agnello sacrificale. Il paese che muore come l’ovino che stramazza al suolo nella prima scena, freddato dal malfunzionamento dell’aria condizionata. “Loro 1”, prima parte del dittico di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi, è un visionario viaggio nell’etica e nell’estetica berlusconiana. Di Lui conosceremo turbamenti e solitudini, aspettative e desideri, che sono anche i nostri. Perché è Lui che ha creato Noi. Intanto però, occupiamoci di Loro.

Noi siamo l’agnello sacrificale.

Il paese che muore come l’ovino che stramazza al suolo nella prima scena, freddato – è il caso di dire – dal malfunzionamento dell’aria condizionata.
Lui è l’assenza che permea tutta la prima parte del film. Il deus senza macchina che ciondola stanco su una ragnatela i cui fili sono dati. Il demiurgo impotente, prigioniero dello spettacolo che ha messo in piedi.
Loro sono i protagonisti.

Una corte dei miracoli composta di trafficoni, arrivisti, ragazze di periferia o di buona famiglia, vecchi bramosi di potere o già potenti, tutti disposti a (concedere) tutto per un posto al sole nell’immaginario dell’Italia degli Anni Zero.

Il film è Loro 1, prima parte del dittico di Paolo Sorrentino su Silvio Berlusconi. La seconda parte, Loro 2, sarà nelle sale dal 10 maggio.
Loro 1 è un visionario viaggio nell’etica e nell’estetica berlusconiana che funge da introduzione a Loro 2, quando Lui, che appare sulla scena trasfigurato da odalisca nell’ultima mezz’ora del film, sarà protagonista assoluto.
Di Lui conosceremo turbamenti e solitudini, aspettative e desideri, che sono anche i nostri. Perché è Lui che ha creato Noi. Intanto però, occupiamoci di Loro.

Per ora, infatti, questa prima parte di Loro tratta la sceneggiatura scritta da Sorrentino con Umberto Contarello. Della corte dei miracoli che abita le inquadrature di questo spettacolo decadente.
Il regista sceglie di raccontarceli con campi lunghi e lunghissimi. Mai pieni di persone come era ne La Grande Bellezza, se non nella scena della festa a base di Mdma in piscina. Ma sempre attenti a dipingere il vuoto.
Quel nulla cosmico dove (per ora) non si vede Lui, dove manchiamo Noi.

In attesa dell’entrata in scena, nel finale, di Toni Servillo che “fa il suo e più del suo, per mimesi e antifrasi insieme” (Federico Pontiggia, «Il Fatto Quotidiano»), a traghettarci negli inferi della messa in scena del nostro presente sono Loro: Riccardo Scamarcio, Euridice Axen, Fabrizio Bentivoglio e Kasia Smutniak, interpreti di personaggi facilmente riconoscibili dalle cronache.
In apertura, la mise en abyme dell’opera. Il faccendiere interpretato da Scamarcio stende una striscia di coca sulla schiena e poi possiede da dietro una ragazza con tatuata sulla chiappa la faccia di Lui, che oscilla sorridente a ogni colpo.
Al di là dell’evidente omaggio al Jack Nicholson di The Departed di Martin Scorsese, tutto ci è chiaro. Loro cercano di mettergliela in quel posto. Lui li guarda e ride. Noi? Noi siamo costretti ad assistere a questo spettacolo osceno e funereo. Lo abbiamo fatto per vent’anni.
Mentre gli schermi delle televisioni sono lì a ricordarci che ciascuno di Noi potrebbe da un giorno all’altro diventare milionario, in messianica attesa dell’epifania di Lui, in un susseguirsi di orge e festini, strisce di cocaina e di ragazze in fila per le audizioni, politici e papponi, poeti e mafiosi, Loro trasportano sull’Acheronte un carico colmo di Noi: i morti.
Non si parte dal Satyricon di Federico Fellini, ma dal Caligola di Tinto Brass, nota giustamente Roberto Silvestri. Anche perché a Fellini, il maestro a lui più accostato, forse Sorrentino non ha mai guardato. Il suo cinema è più simile al goliardico cinismo di Ettore Scola o Dino Risi che alla festosa malinconia felliniana.
Loro sono I Mostri di oggi. Quelli che ci circondano quotidianamente, ma abbiamo scelto di relegare in un angolo dell’inconscio. Rifiutandoci di indagarli, e indagarci.
È il medesimo approccio scelto per raccontare questo stesso mortuario immaginario da Giuseppe Genna in Fine Impero, libro palindromo che si apre e si chiude dentro una bara.

Nel raccontare i morti viventi, il film si fa j’accuse politico, ben oltre un possibile e retorico elenco di misfatti e processi. Sorrentino non è Nanni Moretti, e pur avendo deciso di indagare il potere attraverso le medesime figure – Berlusconi, il Papa – non ne adotta lo stesso sguardo morale e inquisitorio.
E lo stesso Moretti ne Il Caimano lavora tantissimo sull’immaginario e sui danni prodotti, a suo dire, dalla Commedia Sexy degli anni Settanta.
La spettacolarizzazione del male andava bene per l’Andreotti trapassato futuro de Il Divo. Non per Berlusconi che, secondo Sorrentino, è “il primo uomo di potere a essere un mistero avvicinabile”. Meglio indagare l’inavvicinabile, sviscerare il rimosso. La nostra inazione davanti alla distruzione del desiderio collettivo.
“Il corpo femminile, nudo, disponibile, prostituito, comprato e venduto, talvolta perfino ispezionato perché il sadismo fascista in Italia non dorme mai. Corpo-merce, ma soprattutto corpo-valuta (copyright Walter Siti): moneta di scambio tra uomini, piccoli imprenditori e piccoli politici in cerca di ascesa, che ne aumenta il valore sociale”.
Lo scrive su «Internazionale» Ida Dominijanni, una delle più acute analiste dell’etica e dell’estetica berlusconiana. Prima di contestare, però, una mancanza di dimensione politica nel film e l’assenza delle denunce, dalla lettera di Veronica Lario all’emergere del movimento #MeToo, che hanno svelato le oscenità dei quel (questo) mondo.
Eppure, è proprio il personaggio interpretato da Elena Sofia Ricci l’anello debole del film. Una Veronica Lario pseudo intellettuale, didascalico grillo parlante che ricorda al marito le sue malefatte. Tirandosene fuori. Come se Sorrentino volesse suggerire la possibilità, per alcuni di Noi, di non essere responsabili di questo scempio.
Eppure, è proprio Anna Bonaiuto, nella parte della moglie di Andreotti, che a un certo punto ne Il Divo, dice: “Io so chi sei. Non si passa tutta la vita accanto a un uomo senza sapere chi è”. Nessuno è innocente, tra Noi. Nemmeno Sorrentino, che farebbe bene a rimanere su quel piano dell’immaginario e delle immagini che maneggia con sapiente maestria.
È lì che Loro 1 acquista senso, in attesa di Loro 2.
“La sinistra non riesce a mettermi a fuoco: pensa che tutto sia sempre complesso” dirà infatti Lui nella seconda parte del dittico. Spiegando come Sorrentino abbia invece optato per uno scarto decisivo rispetto all’antiberlusconismo fatuo di questi anni. E come abbia deciso di giocare sul terreno del nemico, di sfidarlo sul piano della produzione di immagini concrete e di immagini rimosse.

Quell’immaginario fatto di sesso facile e cocaina a fiumi, di arrivismo sfrenato per andare non si sa dove, forse solo via da Taranto, in quell’universo che Lui ha costruito e che Noi abitiamo, anche se preferiamo non saperlo.
E allora ecco che nel film l’idea diventa che “il senso di B. non vada cercato in profondità, ma proprio nella superficie” (Emiliano Morreale, «La Repubblica»). Ed è qui che la mano del regista mette in scena la propria estetica, totalizzante e sublime. La mette al servizio dell’immaginario che vuole abbattere con le sue stesse armi.
La fotografia di Luca Bigazzi, esplosione di luce che acceca la realtà per traslarla nel fantastico, riesce a rendere fredde anche le immagini più sensuali, gelide le emozioni più genuine. Nessun divertimento tra scopate, orge, infinite strisce di cocaina e torrenziali piogge di pasticche. Nessun godimento in un sesso che è ripetizione coatta, meccanica indifferenziata, eiaculazione precoce, coito interrotto.
È questa la dichiarazione politica di Sorrentino. Riportare a galla il rimosso collettivo che Noi abbiamo scelto di nascondere negli antri del nostro inconscio personale.
In attesa di attraversare l’Acheronte per approdare a Loro 2.

Lì dove, “tra le macerie di questa realtà […] Lui, chiuso nella Villa in Sardegna dove come un bambino capriccioso che ha litigato coi compagni non riesce a vantarsi dei suoi giochi più belli né a stupire nessuno con gli effetti speciali” (Cristina Piccino, «Il Manifesto»).
Il cuore del film. Dove Loro piano piano svaniscono. Dove Noi saremo costretti una volta per tutte a specchiarci in Lui. E dovremo fare i conti con l’immagine che vedremo riflessa. Il cadavere insepolto di un immaginario devastato.

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