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RECENSIONE


mar 30 agosto 2016

LA MODA CONTRO L’ENTROPIA

Zygmunt Bauman, Per tutti i gusti. La cultura nell'età dei consumi. (Laterza, 2016)

«L’entropia è qualcosa di terribilmente volgare» (D.W. Morgan, I Diavoli. Rizzoli, 2014)
Il concetto di cultura ha subito una straordinaria metamorfosi in quella che Bauman in questo libro chiama «l’età dei consumi» o «modernità liquida», epoca in cui non è più possibile distinguere un’élite culturale in base ai tradizionali indicatori. Ciò che oggi chiamiamo élite, infatti, è un pubblico di consumatori onnivori. L’appartenenza all’élite consiste in una negazione ostentata dello snobismo: il vero snob contemporaneo non è chi ha gusti difficili, ma è un appassionato acquirente di tutte le referenze del supermercato della cultura globale. La cultura si sarebbe democratizzata: solo fino a pochi decenni fa ogni offerta artistica e culturale si rivolgeva di solito a una specifica classe sociale e solo a quella. E aveva un triplice effetto: definizione della classe, separazione di essa e manifestazione dell’appartenenza alla classe (quale sua essenziale ragion d’essere). I colti, i prescelti che costituivano l’élite non erano tali in virtù della loro capacità di distinguere ciò che è bello o culturalmente valido, ma in quanto la dichiarazione «questo è bello» diventava vincolante, proprio perché pronunciata da loro.
Dalla sua nascita nell’antichità come cultura animi o paideia, passando per l’humanitas rinascimentale, fino all’Illuminismo, il concetto di cultura ha sempre implicato la divisione in due dell’umanità: i colti e i non colti. Per i primi la missione filantropica era quella di ingentilire i costumi dei secondi, incivilendoli in senso proprio, rendendoli cives, cittadini. Con l’età moderna, questo carattere pedagogico diventa una forza rivoluzionaria. L’Illuminismo che secondo la nota definizione kantiana sarebbe l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità, di cui sarebbe egli stesso responsabile, decreta l’uguaglianza di tutti gli uomini per natura e il loro diritto ad avere diritti. Dare la cultura al popolo doveva servire, oltre a ingentilirne i costumi, a superare le barriere di classe (e magari abbatterle), e fu di fondamentale importanza nell’educazione dei cittadini dei nascenti stati-nazione e nella nazionalizzazione delle masse.

In seguito, con il consolidarsi degli stati-nazione e con il colonialismo, il portato universalista della cultura occidentale si trasformò. Nel migliore dei casi cambiò nel paternalistico (e razzista) «fardello dell’uomo bianco», ovvero il compito di educare i selvaggi già sottomessi politicamente ed economicamente, e in repertorio di valori che garantivano la stabilità dell’ordine sociale nelle nazioni occidentali. La cultura si trasformò progressivamente in un tranquillante sociale, e l’arsenale della rivoluzione moderna in un deposito di prodotti da conservare. Se confrontiamo la famosa frase di Stendhal «La bellezza è una promessa di felicità», in cui è sottolineato il potenziale di liberazione della bellezza, con l’affermazione di Oscar Wilde secondo cui «Coloro i quali sorgono bei significati nelle cose belle sono i colti», ci rendiamo conto del profondo cambiamento subito, nell’arco di pochi decenni dell’Ottocento, dall’idea di cultura e dal rapporto cultura-società. La cultura, l’arte e la bellezza sarebbero un affare di pochi eletti, la cui fruizione rimarcherebbe l’appartenenza di classe.
«La cultura, l’arte e la bellezza sarebbero un affare di pochi eletti, la cui fruizione rimarcherebbe l’appartenenza di classe.»
Un punto di svolta nella storia del concetto di cultura e della sua ricezione si verificò negli anni Ottanta con il saggio di Pierre Bourdieu La distinzione in cui, meglio che in altri autori, veniva analizzato con grande precisione il carattere classista della cultura nel suo stadio omeostatico, di stabilizzazione. Bauman osserva che quando Bourdieu scriveva erano già in corso quei processi globali che segnarono il passaggio della modernità dalla sua fase solida alla sua fase liquida. Nota inoltre che la precisione dell’analisi di Bourdieu era dovuta al fatto che, come la hegeliana nottola di Minerva, poteva osservare un’epoca solo al suo tramonto. Così i contorni del paesaggio sociale descritto nella Distinzione si stagliavano in maniera più nitida agli occhi dell’osservatore, proprio perché stavano attraversando un passaggio epocale.

Quella che Bauman chiama «modernità liquida» o, in questo libro, «età dei consumi» (dagli anni Sessanta del Novecento) portò all’estremizzazione della tendenza – già in luce nella modernità – a «dissolvere tutto ciò che è solido» e a non sostituire le forme liquefatte con altre più solide e permanenti, ma con altre se possibile ancora più soggette a liquefarsi. In generale questo processo è la conseguenza del liquefarsi dei confini territoriali in campo economico e finanziario (globalizzazione), dell’autorità e autorevolezza delle norme valoriali e delle istituzioni (crisi dello stato) e del legame sociale che porta l’individuo ad essere sempre più solo di fronte a un mondo sempre più grande: da produttore insieme ad altri diventa consumatore, da cittadino di una «cosa pubblica» diventa una monade alla ricerca di identità, attraverso l’effimera adesione a comunità o all’imitazione di comportamenti soprattutto nel campo dei consumi.

Bauman sottolinea che la modernità liquida non va confusa con un cambiamento di paradigma: la modernità liquida è la battaglia perpetua contro ogni meccanismo omeostatico. Il paradosso della cultura è che oggi il suo ruolo non è la conservazione dello stato attuale, ma incarna una travolgente domanda di cambiamento costante, cambiamento privo di telos. La modernità liquida ha reso del tutto inadeguate distinzioni come «cultura alta» e «cultura di massa». I suoi prodotti sono diventati oggetti pronti per il consumo, «fatti per avere il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza», come acutamente osserva George Steiner. Infine, anche la definizione di cosa sia la cultura è diventata sempre più problematica: l’idea paradigmatica di cultura che abbiamo ereditato dalla tradizione si appiattisce sulla sua accezione antropologica, cioè sulla «somma totale dei prodotti artificiali dell’uomo, ovvero il “surplus rispetto alla natura” di produzione umana». L’assortimento delle scelte culturali a disposizione del consumatore diventa così pressoché infinito, dalla cucina al romanzo, dalle serie televisive alla musica. Ma è la moda che rappresenta la merce culturale per eccellenza, perché ha il massimo impatto e la massima velocità di obsolescenza e soprattutto perché tutto è diventato moda e la merce si sarebbe quindi «culturalizzata».

La cultura ha oggi più che mai una funzione politica. Le forze che guidano la trasformazione del concetto di cultura nella sua incarnazione liquido-moderna sono le stesse che favoriscono la liberazione dei mercati dalle loro limitazioni non economiche, sociali, politiche ed etniche. L’economia orientata al consumo si basa su un surplus di offerte, sul loro rapido deperimento e sul prematuro appassimento dei loro poteri di seduzione. Si compra di tutto nel supermercato della cultura, anche e soprattutto identità, poiché ogni merce è venduta con una forma di marketing che fa leva sulle emozioni. Non ci sono, però, gruppi di acquisto più o meno solidali e ciò che era un cittadino si è ridotto a essere un consumatore solitario. Dal punto di vista globale, emerge tutta l’ipocrisia del cosiddetto multiculturalismo liberale: la disuguaglianza sociale viene spesso spacciata per un presunto stile di vita liberamente scelto, o meglio acquistato, o ereditato dalla tradizione.
«La cultura ha oggi più che mai una funzione politica.»
La moda, nell’analisi che ne fa Bauman sulla scorta di Georg Simmel, non «è» mai una volta per tutte, perché è in costante divenire. I consumi legati alla moda, quindi i consumi tout court, oscillano fra due poli antitetici: la necessità di appartenere a un gruppo e il desiderio di distinguersi dalla massa. Questa oscillazione porta il «pendolo-moda» a essere un perpetuum mobile, fenomeno impossibile nel mondo fisico (e possibile solo nel mondo sociale) di un movimento autoperpetuantesi che raccoglie energia nel momento in cui la consuma. Sventa così la maledizione dell’entropia, cioè la «quantità termodinamica che rappresenta la somma di energia del sistema che non può essere utilizzata per il lavoro meccanico». Per questo suo autoperpetuarsi che sembra non conoscere soluzione di continuità, la moda realizza in maniera perversa l’utopia della fine (o inizio) della storia, dell’extraterritorialità della morte, spostandola da un futuro a venire tutto da conquistare collettivamente a un oscillante eterno presente in cui il singolo, nuovo Proteo, acquista incessantemente sempre nuove identità. Si tratta, a dire di Bauman, di una strana utopia, ma pur sempre di un’utopia, perché promette una soluzione definitiva a tutti i problemi umani, passati presenti e futuri. Invece di una vita protesa verso l’utopia, la moda offre una vita nell’utopia, che non sarebbe altro che una fuga senza fine o una «u-via» come la definisce Bauman con un neologismo.
La moda sarebbe allora la forma attuale dell’ideologia dominante, ciò a cui il nostro mondo-della-vita tende. Ma contiene implicitamente un imperativo categorico auto-contraddittorio: essere alla moda è impossibile perché le mode passano, così come l’imperativo categorico del discorso del Capitalista di Lacan «Godete!» ha una postilla messa tra parentesi («ma non potete»). In tutte le culture umane la moda ha svolto la fondamentale funzione di istituire la norma. Già Leopardi nelle Operette morali e nel Dialogo fra la Moda e la Morte intuiva questo tentivo di fermare il tempo attraverso un costante divenire, quella «cattiva infinità» come la chiamerebbe Hegel: la Moda dichiara alla Morte di averla fatta diventare di moda.

Come tentativo di spiegazione scientifica e di governare il caos, la moda secondo questa analisi sembra avere molte somiglianze con la «mano invisibile» di Adam Smith. Smith mutua questo concetto dall’astronomia all’economia politica: la mano invisibile sarebbe un intervento provvidenziale volto a eliminare le irregolarità della natura, e – nel caso della società – a regolare i mercati. Da buon empirista riteneva che fosse solo un’ipotesi e nient’altro. Bauman, invece, sembra riporre un’eccessiva fiducia negli automatismi della società, quasi che esistesse un’uniformità della società che non esiste nella natura. Forse bisognerebbe tornare a David Hume e alla sua critica dell’idea di causalità: non c’è, né in natura né nella società, una correlazione necessaria fra una serie di fatti e un’altra, ma solo una regolarità statistica, un’abitudine dell’osservatore. Infine, anche se è vero che c’è un costante processo di mercificazione della cultura è anche vero che, come diceva De Certeau, c’è uno scarto costante fra le tattiche creative di «invenzione del quotidiano» degli individui e le strategie volte ad assorbirle nella cultura di consumo.

Su questo scarto la teoria critica dovrebbe tornare a riflettere.

Qui trovate il libro: ‘Per tutti i gusti
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