Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


gio 9 febbraio 2017

L’INSIDE STORY DELLA BREXIT

Quando lo spin doctor «libera i demoni» (e i vecchi appunti) e inizia a raccontare. La narrazione della sconfitta del Remain attraverso lo sguardo dei perdenti. I retroscena (annunciati) del divorzio di Londra da Bruxelles, gli errori di valutazione di David Cameron e la «strategia del sottomarino di Theresa May» in un libro zeppo di aneddoti e buone intenzioni (tradite).

“Un gioco delle parti, il teatro inglese. Roba da buffoni. La politica ridotta a parodia, come questa “battaglia navale” sul Tamigi, che è farsa e tragedia insieme”. Da Brexit, battaglia navale — il Tredicesimo piano
Di solito la Storia la scrivono i vincitori. Questa, invece, è una storia raccontata da chi ha perso. Inizia (e finisce) a Londra. Sono le sette del mattino. Quella appena trascorsa è stata una lunga notte per la Gran Bretagna. È ormai il 24 giugno, il giorno dopo il più grande shock politico del dopoguerra oltremanica. I risultatidefinitivi del referendum sulla Brexit arriveranno a breve, dopo una lunga e «brutale» campagna.

La narrazione di una sconfitta

La definizione porta la firma di Craig Oliver, per cinque anni responsabile comunicazione e spin doctor dell’allora primo ministro conservatore David Cameron. È parte di Unleashing Demons. The inside story of Brexit (Liberare i demoni. L’inside story della Brexit, ndr), uscito per Hodder&Stoughton nel Regno Unito.

Più che di un libro si tratta della narrazione di una sconfitta, quella del Remain. È una sorta di cronaca del fallimento attraverso gli occhi di chi faceva parte della squadra dei “perdenti”.

Si sviluppa lungo i sei mesi più concitati dal punto di vista politico e mediatico che la Gran Bretagna abbia vissuto dalla Seconda guerra mondiale.

È un racconto che nasce e muore nel 2016, l’anno zero della contesa UK versus Ue.

L’inizio è anche la fine

Torniamo, dunque, al racconto, esattamente all’incipit che rappresenta anche l’epilogo della storia. Fino all’alba di quel mattino di fine giugno ancora non si conosce l’esito ufficiale della consultazione. Passano le ore e i dati iniziano ad arrivare a partire dalle 3 di notte. Cameron, detto DC, (così l’autore si riferisce al primo ministro lungo quasi tutto il libro, ndr), a un certo punto scrive un messaggio a Oliver: «Quanto dobbiamo preoccuparci?». L’iniziale ottimismo riguardo a una vittoria data per scontata lascia posto ai primi dubbi. Alle 7 del mattino il premier si arrende. Prova a essere ironico: «Bene, non è andata secondo i piani».

Gli altri dettagli ce li ha già raccontati la Storia, quella vera. E sappiamo come è andata a finire, ovvero: il 51,9% degli elettori ha optato per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Questa storia, invece, ricostruisce l’evoluzione dei sei mesi precedenti a quella fatidica mattina. È una ricognizione dall’interno che attraversa il tempo trascorso da gennaio a giugno, attraverso gli appunti raccolti dal responsabile comunicazione di Downing Street.

Si propone (senza effettivamente riuscirci in pieno) di indagare le trasformazioni politiche che hanno portato i cittadini a votare sì al divorzio di Londra da Bruxelles.

“Liberare i demoni”: tutti i retroscena

Oliver regala ai lettori una miniera di aneddoti. Una volta, ad esempio, dai sedili posteriori della sua Jaguar, diretto verso un evento pubblico, Cameron prese a snocciolare le ragioni (e i pro) di indire un referendum sull’Unione europea. Da lettori, vorremmo saperli anche noi. Niente, non li sapremo. L’autore passa direttamente al momento in cui DC elenca i possibili contro, a quando il premier (profetico) esclamò: «Il rischio è liberare i demoni».

In realtà – al di là delle colorite ricostruzioni di Oliver che sente la necessità di condividere con i lettori il suo mal di denti, la giornata che inizia con la «testa che mi scoppia, la gola dolente», e la sensazione di essere «spompato» – si scopre che Cameron non aveva alcuna idea, almeno quando si è imbarcato in questa impresa dal fallimento praticamente annunciato, di che posizione avrebbero assunto i suoi ministri e i conservatori rispetto alla Brexit (Boris Johnson escluso, visto che il suo supporto al Leave era abbastanza prevedibile).

Di certo DC non si aspettava che Michael Gove, uno dei suoi migliori amici, nonché compagno di partito e Segretario di Stato alla Giustizia, a febbraio decidesse di fare campagna per il Leave.

Oliver, che sembra pendere dalle labbra del suo capo fino alla fine, incassa la delusione di Cameron e descrive Gove come una «figura tragica nel senso shakespeariano del termine». Lo rappresenta poi come il tassello che ha scatenato l’effetto domino all’interno del già sconquassato partito dei Tory.

Una vittoria data per scontata

In effetti, il sottotesto tra le righe racconta che Cameron e i suoi credessero in una vittoria praticamente scontata. «La nostra campagna era basata sulla semplice premessa che l’elettorato non vota mai contro le sue stesse tasche», si legge nel libro.

Il referendum appare ai loro occhi come un grimaldello per (ri)aprire il dialogo all’interno del partito conservatore. Proprio per questo DC, chiamato anche PM (prime minister, ndr), preferisce come data giugno a novembre, visto che il congresso di ottobre («the nightmare Tory conference», l’incubo di Oliver) avrebbe potuto svelare le lotte intestine e influire negativamente sulla campagna referendaria.

L’altra opzione sarebbe stata settembre, ovvero dopo una possibile «estate di problemi con i migranti».

Farage agitatore sottovalutato

A Downing Street in quei mesi, insomma, ci si concentrava più sulla difficoltà di raggiungere un accordo con l’Unione europea e sui termini di negoziato (accesso frenato al welfare britannico per i cittadini Ue, condizioni monetarie, status delle banche), che non sul terremoto che stava per scuotere il Paese di lì a poco.

A parte ammettere tra le righe di essersi completamente votati alla strategia (fallimentare) di impronta clintoniana — quindi al motto «È l’economia, bellezza!» — Oliver non fa alcun cenno alla leggerezza (che invece traspare dal libro) con cui Cameron ha de facto sottovalutato la frustrazione anti-immigrati che serpeggiava nel Regno Unito, e dunque la portata politica di un personaggio come Nigel Farage.

Il leader Ukip, infatti, è praticamente il grande assente di questa autoproclamatasi «inside story della Brexit». Al cancello Numero Dieci, come viene indicato l’ufficio del primo ministro nel gergo dei media britannici, Farage appariva solo come un agitatore da dover accontentare e tenere buono, anche e soprattutto in prospettiva di tenuta delle divisioni del fronte conservatore.

La Brexit e il «tiepido» Corbyn visto da Oliver

Molto più spazio, invece, è dedicato alle riflessioni su Jeremy Corbyn e il suo Labour che, alla fine dei conti, forse ha fatto troppo poco per il Remain, ma il cui ruolo era percepito come cruciale.

«Quello che colpisce è che il tiepido Jeremy Corbyn è per rimanere nell’Ue. Il sospetto è che la sola cosa che lo blocca dal fare campagna per l’uscita è che non vuole dividere completamente il suo partito. Lui è vitale per la causa del Remain, perché è capace di mobilizzare un esercito di sostenitori dalla nostra parte – tutti supporter che non sono proprio ben disposti verso David Cameron», scrive Oliver.

May e la «strategia del sottomarino»

Altro personaggio ostico e a tratti incomprensibile (sempre secondo la versione di Oliver) è Theresa May, colei che «potrebbe diventare ministro tra sei mesi», pensavano a Downing Street a gennaio 2016.

E proprio l’austera May, già alla guida degli Interni, non faceva dormire sonni tranquilli al primo ministro. Il motivo era quella sua «strategia da sottomarino», quasi mai incline a parlare con i giornalisti, anzi pronta a «evitare i media quando possibile», ma sempre ambivalente e all’apparenza disposta a stare da entrambe le parti della barricata (ufficialmente con il Remain, ma forse con un debole per il Leave).

Un’occasione persa

Unleashing demons è dunque un bollettino di incontri, una carrellata di personaggi ma senza troppa analisi, di immagini della campagna elettorale, di ricognizione della stanchezza di Oliver e della pressione psicologica di Cameron.

Ma non è – come forse avrebbe voluto – una vera “inside story” della Brexit, almeno se ci si aspetta una ricognizione ragionata da una prospettiva interna al Remain degli errori che hanno portato alla Brexit.

Troppo spesso Oliver intrappola il lettore all’interno della sua lente d’osservazione ristretta, senza lasciare spazio a grandi riflessioni sugli sbagli. Solo verso la fine trova il tempo di riflettere in questa direzione, ma solo dopo aver sciorinato le «bugie» del Leave che hanno nociuto al Remain della «complessa verità» – così de factoassolvendosi.

E se la Storia non si fa con i “se” e con i “ma”, questa storia, invece, si conclude con un se. «Siamo partiti da premesse che si sono rivelate sbagliate riguardo al tipo di Paese in cui viviamo e rispetto alle reazioni delle persone. Abbiamo visto tutti come le zone fuori Londra, in Scozia e in Irlanda del Nord abbiano votato Leave. Ma un’analisi più attenta dei risultati mi ha sorpreso (…). Se i giovani tra i 18 e i 24 anni avessero votato nella stessa proporzione della fascia dei 35-44enni, il Remain avrebbe vinto».

E alla fine una dedica a Cameron: «Spero che la Storia sia gentile con te». Ma sappiamo già come è andata.
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