Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


gio 15 dicembre 2016

GENERAZIONE SENZA LAVORO

Se il posto fisso è diventato una chimera, obiettivo fumoso e fabuloso aldilà dei sogni, e molto più prossimo agli incubi, "In bici senza sella" si affaccia sul presente con ferocia e sceglie l’istanza della parodia e del fantastico. Si tratta di un coraggioso tentativo teso a sovvertire le tendenze inflattive del genere. Il sottotitolo del film recita – eloquente – «ricette anticrisi e altri esercizi di sopravvivenza», sottintendendo un compendio ginnico per rimanere a galla

Dimentichiamoci l’era post-industriale, allora. Perché siamo già oltre: in balìa di un algoritmo che regola il lavoro e assegna dei punteggi.   Siamo qui ad assistere (quasi) in silenzio agli effetti funesti del processo di automazione e alla deregolamentazione delle relazioni tra individui, mentre è divenuta una chimera l’idea di poter costruire – grazie al salto tecnologico – un’autonomia virtuosa, libera da vincoli e costrizioni del lavoro. Da Il maledetto inganno della sharing economy
«La “speranza” è una brutta parola, non si deve usare, è una trappola inventata dai padroni. La “speranza” è una cosa infame.»

Mario Monicelli, Marzo 2010

Come si sta in bici senza sella? Male, anzi malissimo. Lo sa bene il ragionier Ugo che, in Fantozzi contro tutti (1980), inforca “alla bersagliera” il velocipede finendo per sedersi senza sella, mentre sul viso si allarga l’espressione incredula e ferita da «Come è umano lei», effigie fantozziana per eccellenza, quella che ha fatto la fortuna di Paolo Villaggio.

La gag diviene maniera, espressione di quel sotto-genere che – a torto – è stato definito comico-grottesco. Ma a una riflessione più ampia sul genere della commedia si può dire che il personaggio di Villaggio – e l’inforcata alla “bersagliera” – rappresentano l’ultimo baluardo di una tradizione antica che vede nell’uso dell’iperbole, della parodia e del non-sense, il grado più alto di quella che, comunemente, venne definita “commedia all’italiana”.

È la commedia dei Germi e dei Monicelli, quella che aveva la feroce caratteristica d’interpretare l’esistente spingendo i personaggi al parossismo, con un intento dichiarato e, per certi versi, rivoluzionario: porre l’attenzione sull’uomo medio e sull’Italia, per svelarne vizi e fragilità, mettendo in crisi ogni tendenza volta a normalizzare l’esistente. La capacità di usare il rancore simulato, da smorfia o da sorriso, negli anni Zero perde mordente e finisce per svolgere, rispetto al passato, un ruolo “controrivoluzionario”: di rimozione o disinnesco delle questioni sociali. La nuova commedia italiana, infatti, abbandona la ferocia e si allinea al politically-correct: un susseguirsi di personaggi conformi e ripuliti, inseriti in un contesto perfettamente codificato. In questo slittamento il tema del lavoro – iconizzato nel precariato, nella “generazione mille euro” – diventa funzionale al mantenimento dello status quo, e la levità comica serve solo a depotenziare il meccanismo di denuncia che, invece, era stato proprio della commedia all’italiana dei Sessanta.

Parafrasando Goya, si potrebbe dire che «il sonno della commedia non riesce più a generare mostri», quei «mostri» utili a portare a galla le contraddizioni del sistema. Restano oggi i cinepanettoni e un’infinita serie di scialbi personaggi, tutti inseriti in un presente da crisi, intenti ad anestetizzare le masse. In questo senso il bistrattato Fantozzi rappresenta l’ultimo epigono della vecchia scuola, prima di lasciare campo aperto alle risate demenziali della Milano da bere o a quelle delle vacanze di Natale.

Tuttavia Ugo Fantozzi, matricola milleunobarrabis dell’Ufficio Sinistri, il ragionier Ugo si trova ancora là e, nonostante le cattiverie e le angherie, è sempre intento a fare i conti con il posto fisso nella Mega-ditta, alle dipendenze del Mega-Direttore Galattico che siede su poltrone in pelle umana. E forse, il ragionier Ugo, dall’eco risonante degli Ottanta, fa ancora scuola. Non è quindi un caso che, a distanza di 36 anni, si continui ad andare in bici senza sella.

L’ossimorico gesto autodistruttivo è il titolo di un film ad episodi già Miglior Film al Toronto Independent Film Award, presentato nella sezione Kino Panorama di Alice Nella Città durante la Festa del Cinema di Roma e distribuito dalla Zenit Distribution. Il sottotitolo recita – eloquente – «ricette anticrisi e altri esercizi di sopravvivenza», sottintendendo un compendio ginnico per rimanere a galla.

A parte un eccesso di romanità, a tratti troppo compiaciuta, gli episodi (da dieci, venti minuti l’uno) funzionano precipitando lo spettatore nell’apocalittica realtà di una generazione senza lavoro e senza prospettive. «Già visto», verrebbe da dire.

E tuttavia l’opera, nella sua coralità, ha il merito di dismettere i dispositivi della normalizzazione operando una corsa in salita sulle pendici della commedia. Attraverso una chiave espressiva quasi dimenticata, In bici senza sella si affaccia sul presente con ferocia e sceglie l’istanza della parodia e del fantastico. Si tratta di un coraggioso tentativo teso a sovvertire le tendenze inflattive del genere.

Così, tra un suicida iper-qualificato, un parassita dal cuore d’oro, una lavoratrice “creativamente incinta” e un’esilarante versione parodico-iperbolica de I guerrieri della notte (il capolavoro di Walter Hill), il posto fisso diviene una chimera, obiettivo fumoso e fabuloso aldilà dei sogni, e molto più prossimo agli incubi. I personaggi, interpretati dagli attori della serie televisiva Romanzo criminale, si muovono in controtendenza, mettono in scena un’arte dell’arrangiarsi, nera e senza speranza.

In bici senza sella è un’opera che non offre ricette pronte, non fa sconti a nessuno, e presenta un bestiario tenero e terribile, che individua le vie d’uscita – secondo l’insegnamento della vecchia scuola di scorrettezza – nel nonsense e nell’iperbolico.

Si potrebbe dire che In bici senza sella sta alla commedia nostrana come l’impresa dello sconosciuto Marco Aurelio Fontana ai più rocamboleschi trionfi sportivi: uno che nel 2012 arrivò sul podio olimpico nonostante la sua mountain-bike avesse perso la sella. Una medaglia di bronzo, certo, ma che nel panorama dell’odierna commedia forse vale più di un oro. Soprattutto al netto di una distribuzione cinematografica pressoché dominata, in Italia, dall’assetto duopolistico o comunque dalle major, che vede stringersi sempre di più l’imbuto per le piccole produzioni indipendenti.
Le pratiche cooperative, neo-mutualistiche e di aiuto reciproco, possono rappresentare una significativa risposta dal basso al mantra dell’individualismo e un embrionale tentativo di organizzazione del lavoro. «Divisi siamo canaglia, insieme siamo tutto», diceva Camillo Prampolini. Da Per un nuovo mutualismo

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