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RECENSIONE


mar 18 aprile 2017

LA FUGA DAL MITO DELLA CURA

Cercare una via di fuga dal mito della Cura si può? Dalle maglie del capitalismo finanziario ed estrattivo in realtà non si scappa. Ce lo insegna "La cura dal benessere" di Gore Verbinski, che porta in scena due modelli apparentemente chiari e contrapposti: da una parte l’iper-produttivo Lockhart, un giovane cinico e mefistofelico di Wall Street, praticamente un novello Gordon Gekko; dall’altra parte l’estatico Pembroke che, preda di un delirio simile a quello del colonnello Kurtz in Apocalypse Now, non ha più intenzione di tornare al proprio lavoro, e si professa consapevole di quanto l’ossessione per il guadagno abbia avuto ripercussioni nocive sul proprio corpo, inquinandone di fatto il sistema immunitario.

«Io sto bene io sto male io non so cosa fare / […] Una formalità o una questione di qualità.» CCCP, Io sto bene
Un broker ossessionato dal successo, incapace di scollare lo sguardo dagli schermi su cui sfilano gli andamenti dei mercati, viene sputato fuori da un grattacelo in piena crisi finanziaria. Uno dei tanti lugubri e imponenti grattacieli che si stagliano sullo skyline di Wall Street. La cinepresa li riprende con carrellate angolate dal basso, poi indugia sul volto smunto ed emaciato del giovane protagonista: occhiaie e un pallore quasi da fare invidia al Vampyrdi Dreyer. Anche se Lockhart (Dane DeHaan) non è un licantropo, ma un giovane che ha capito come cavalcare l’onda dei numeri, è un uomo profondamente solo, con la madre chiusa in un ospizio a dipingere carillon. Un uomo solo che sa di non avere il tempo per rivederla un’ultima volta.

Il benessere, il Mercato

Non c’è tempo per Lockhart che “shorta”, vende, fa operazioni spregiudicate e non riesce nemmeno a nutrirsi, se non delle gomme alla nicotina che mastica compulsivamente.
È per questa sua incessante aspirazione verso il mercato (anzi: il Mercato), unita alla freddezza da giovane squalo, che la società finanziaria per cui lavora lo incarica di un delicatissimo compito: recuperare il vecchio eccentrico amministratore delegato Pembroke (Harry Groener), scomparso in una clinica delle Alpi svizzere, da cui invia lettere deliranti sulla natura del benessere.
La società finanziaria ha bisogno di una firma dell’esule Pembroke e, probabilmente, di addossargli losche responsabilità, dopo che lui ha scelto l’oblio tradendo quel mercato che l’aveva nutrito fino a poche settimane prima.

La “vera” illuminazione versus il Mercato

La cura dal benessere di Gore Verbinski porta in scena due modelli apparentemente chiari e contrapposti: da una parte l’iper-produttivo Lockhart, che è un giovane cinico e mefistofelico di Wall Street, praticamente un novello Gordon Gekko; dall’altra parte l’estatico Pembroke che, preda di un delirio simile a quello del colonnello Kurtz in Apocalypse Now, non ha più intenzione di tornare al proprio lavoro, e si professa consapevole di quanto l’ossessione per il guadagno abbia avuto ripercussioni nocive sul proprio corpo, inquinandone di fatto il sistema immunitario. Pembroke ormai ha scartato, ha travalicato la convenzione temporale e ha contrapposto al Mercato la “vera” illuminazione.

L’esule Pembroke tratta il giovane broker con sufficienza, e cerca di dimostrargli che ha scovato nell’idroterapia del dottor Heinreich Volmer (Jason Isaacs) la cura delle cure, l’unica capace di donare pace e benessere all’anima tormentata e inquieta di attempati miliardari come lui.
Tra una sauna e un bagno turco, gli ex membri “produttivi” della società si estraniano dal mondo, e la loro oasi da fugace week-end rigenerante si trasforma in una pace senza fine, con conseguente ribaltamento del canone: il benessere economico come malattia e la purezza dell’acqua come vera e armonica stabilità. È attraverso l’acqua, infatti, che la coscienza evapora e il tempo pian piano decelera fino a… fermarsi.

No time, no space. Se la “cura” non esiste

Mentre il “continuum” perde consistenza e il protagonista cerca disperatamente di cogliere l’attimo per tornare alla vita di sempre e al suo “dannoso” presente, la clinica si mostra a lui e allo spettatore per quello che è: un miraggio abitato da anziani privi di interessi e da un’efebica, inquietante, eterna adolescente.
La cura dal benessere è una pellicola coraggiosa, che sviluppa una critica acuta in totale controtendenza rispetto ai riflussi escapisti che hanno invaso e ingollato le produzioni cinematografiche. La poetica di Verbinski, scevra di fronzoli, replica ad agopunture, fanghi, passeggiate nel parco, scalate sui ghiacciai e coltivazioni di barbabietole con un cinico e violento rifiuto: cercare un “altro” posto dove essere un “altro” è impossibile e impraticabile.
“La cura dal benessere”, infatti, non solo non esiste, ma è la modalità perfetta per ammalarsi meglio e di più, perdendo se stessi e consumando la propria esistenza in quell’acqua che, invece di risultare vivificante, in realtà prosciuga e distrugge.

Non c’è alcuna salvezza per gli illuminati come Pembroke che tentano di estraniarsi dalla fagocitante e rutilante produttività. Al contrario: saranno loro i primi a soccombere.

Horror e cinema d’autore nella sintesi di Verbinski

Questa è la cifra dell’ultimo lavoro di Gore Verbinski – già autore di The Ring, vincitore di un Oscar per il visionario western d’animazione Rango e regista di tre capitoli della saga Pirati dei Caraibi –, che torna a reinventarsi attraverso i generi senza tuttavia prostrarsi alle major.

Nonostante La cura dal benessere, distribuito in Italia dalla 20th Century Fox, non abbia sbancato al botteghino, rimane senza dubbio un prodotto singolare e disturbante.
Verbinski riavvicina il genere horror al cinema d’autore e lo pone al centro della scena utilizzando magistralmente crossmedialità visiva e letteraria: dagli ambienti chiusi dell’indimenticabile Overlook Hotel di Shining alle atmosfere gotiche tipiche di un Bram Stoker, dall’orrorifico al kafkiano.
Fotogramma dopo fotogramma il protagonista Lockhart abbandona il suo ruolo e si perde nei meandri della terapia compiendo simultaneamente una disamina visiva e cinematografica del suo passato e, di riflesso, del nostro.

La fuga dalla “cura”

Nella pellicola, vengono esposti scenari il cui rimando è al cinema di alta caratura: inquadrature oblique che incorniciano acquari e dove, a debita distanza, possiamo intravedere un brandello di Youthdi Paolo Sorrentino, una divisa alla Funny games di Haneke, una serie di dialoghi mutuati da Shutter Island di Scorsese e altro ancora.
Verbinski mette il cinema passato in una cornice e, mentre ti inchioda alla cartolina, elimina tutte le vie di fuga, trascinando il protagonista dentro corridoi di paura mai compiaciuta, sempre sottilmente sospesa tra sogno e incubo. Mixando Fuller a Carpenter compie un’autopsia del cinema, quello con la “C” maiuscola, che viene agito smontato e ricucito prima di essere consegnato al pubblico. Al protagonista non rimane che cercare una via di fuga dal mito della Cura, da quella terapia inquietante, riprendendo forse a fumare con ribelle piacere.
A noi non resta che segnalare questo film, mentre torniamo ai mercati facendo tutti finta… di essere sani.

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