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RECENSIONE


lun 13 marzo 2017

“FOTTI IL PROSSIMO TUO”

Nel suo ultimo libro "Donald Trump", il giornalista David Cay Johnston raccoglie materiale d’indagine ad personam che copre un arco di oltre trent’anni, per ricostruire l’ascesa del tycoon dal Queens alla Casa Bianca. Comprendere la figura di Trump significa partire dai fatti, da come ha costruito ed esercitato la sua retorica nel propagandare – più che un programma politico – se stesso. Il risultato è un deciso atto d’accusa che, in successione cronologica, riassume l’inquietante ascesa di The Donald portandone a galla almeno tre elementi chiave: il malaffare, l’evasione delle tasse e la costruzione mediatica del sé.

«Vendicatevi. Se qualcuno vi fotte, fottetelo dieci volte. Vedrete che vi farà stare bene. Cazzo se mi sento bene, io». Donald Trump, durante un discorso motivazionale tenutosi in Colorado nel 2005
In principio furono i Drumpf, suono duro, teutonico. Poi, nel 1648, con la pace di Vestfalia che sanciva la fine della sanguinosa guerra trentennale e poneva le basi per un riassetto giuridico e politico del continente europeo, anche il loro cognome venne resettato, semplificato in “Trump”, che in inglese indica una «cosa di poco valore, un’inezia», ma anche – rovescio della medaglia – «un artificioso raggiro, un imbroglio».

Ultimo lustro del XIX secolo: il sedicenne Friedrich Trump, cresciuto a Kallstadt, in una zona di viticoltori, si muove d’anticipo sulla chiamata coatta alla leva militare ed emigra negli Stati Uniti per cercare fortuna. Approda prima a New York, dagli zii, e poi, si muove verso Ovest. È un giovane famelico, che vuole fare affari, e la sua scalata comincia a Seattle con il “The Dairy Restaurant”, una piccola ma avveduta impresa nell’ambito della ristorazione-bordello: davanti si servono piatti caldi, nel retro “ragazze sportive”, a basso costo.

È una formula che resta cara al giovane Friedrich, ora americanizzato in Frederick, e che ripeterà più volte per ingigantire il suo capitale, fino ad approdare nello Yukon, sulla scia della corsa all’oro. Anche lì: i cercatori setacciano i torrenti in cerca di pepite, Frederick gli offre ristoro tramite il sollazzo con giovani ragazze, dietro copertura di una tavola calda. Poi investe e lavora anche come barbiere, ma dietro l’innocente mestiere c’è sempre il torbido imbroglio, tagli di capelli e rasatura fanno ancora da copertura per affari sottobanco, stavolta più grandi, con criminali e mafiosi. Nel 1918 Frederick Trump è una delle tante vittime mietute dall’epidemia d’influenza spagnola, e il suo capitale passa al figlio Fred, che insieme vi eredita l’insaziabile e spasmodica voglia di fare affari ad ogni costo, un vangelo familiare sintetizzabile nella massima di “fotti il prossimo tuo”, meglio se più debole. Fred infatti simpatizza per il Ku-Klux Klan, a cui probabilmente aderisce anche, come testimonia il suo arresto durante la sommossa razzista a Jamaica del ’29, nella zona di Queens dove vive. Il capitale ereditato dal padre viene subito reinvestito da Fred, che ha fame e lungimiranza speculativa, per questo si infila subito – sono gli anni del secondo conflitto mondiale – nel giro dei costruttori: garage residenziali, caserme e caseggiati, appalti vari nel settore immobiliare. Tutte imprese che Fred tira su all’insegna dello sfruttamento di manodopera low cost e dell’evasione fiscale, siglando patti con figure che saranno cruciali per la costruzione del suo impero senza ostacoli di sorta. Negli anni cinquanta il suo socio d’eccellenza è Willie Tomasello: uno che può fornirgli liquidità quando ne ha bisogno, che “cura” le beghe sindacali, e che vanterà nel suo curriculum un’identificazione dell’Fbi come associato delle famiglie mafiose newyorkesi dei Genovese e dei Gambino. I tre figli maschi di Fred Trump e della moglie Elizabeth Christ vengono iniziati fin da rampolli alla gestione e perpetuazione del capitale familiare – il padre li scorrazza a bordo della sua Cadillac attraverso cantieri e proprietà –, ma solo uno di questi si dimostrerà l’erede più affamato di ricchezza e potere, tanto da accaparrarsi la fetta più grossa del patrimonio e, vetta estrema, arrivare sotto i riflettori mondiali che spettano al quarantacinquesimo e attuale presidente degli States.

Sfrontata oggettivazione della donna, alleanza col più forte e sopraffazione del più debole, affarismo spinto nel rifiuto di qualsiasi regola sociale condivisa, individualismo sfrenato e mitomania, si ripetono alla stregua di un cromosoma familiare ed ereditario. Linea di successione: Frederick Trump, Fred Jr. Trump, Donald Trump.

Dal Queens alla Casa Bianca

David Cay Johnston – giornalista navigato e premio Pulitzer, che ha firmato articoli per il «San José Mercury», «Detroit Free Press», «Los Angeles Times», «Philadelphia Enquirer» e «New York Times» – si imbatte nella figura di Trump agli inizi degli Ottanta, intuisce subito che i traffici del magnate vengono fin troppo sottovalutati, e da quel momento in poi il suo lavoro d’inchiesta lo porta a stargli addosso fino a quando l’eccentrico milionario corona la sua carriera con la vittoria alle presidenziali. Nel suo ultimo libro, Donald Trump (Einaudi, 2016), Johnston raccoglie e assembla tutto il materiale d’indagine ad personam che copre un arco di oltre trent’anni, per ricostruire l’ascesa del tycoon dal Queens alla Casa Bianca. Il precetto a cui dichiara di aver fatto fede Johnston è quello di Francis Scott Fitzgerald, secondo cui «l’azione è il personaggio»: per comprendere a pieno la figura di Trump – anche nella sua portata fenomenologica – è dunque fondamentale partire dai fatti e, di conseguenza, da come effettivamente ha costruito ed esercitato la sua retorica nel propagandare, più che un programma politico, se stesso. Il risultato del volume è un deciso atto d’accusa cadenzato da capitoli che, in successione cronologica, riassumono l’inquietante ascesa di Trump portandone a galla almeno tre elementi chiave: il malaffare, l’evasione delle tasse e la costruzione mediatica del sé.

Fare affari, ad ogni costo. Fregare il prossimo, sempre

“Ritorno alla sicurezza”, “ripristino dell’ordine”, sono stati gli slogan con cui Trump ha infarcito la sua comunicazione populista nella corsa alla Casa Bianca. Al di là della declinazione allarmante che contengono queste espressioni, è curioso come lo stesso uomo che le ha pronunciate, nella realtà dei fatti, se ne sia distanziato per tutta la sua vita. Nel pilotare i suoi affari, infatti, Trump si è sempre fatto beffe sia della sicurezza (altrui) che dell’ordine (collettivo). La sua condotta è un perfetto mix di stile fascista, cialtronesco e ordoliberista: asservimento al potente e sopraffazione del più debole; rifiuto oltranzista di qualsiasi regola sociale condivisa; sodalizio indiscusso con padronato e logiche estrattive; operazioni fraudolente. Dagli inizi degli anni Settanta in poi, come documenta Johnston, Trump – sempre spalleggiato dal suo mentore Roy Cohn, avvocato la cui fama è nota per la caccia ai “rossi” durante il maccartismo e per il fiancheggiamento a gruppi mafiosi – è immischiato in una sequela di misfatti e attività torbide senza soluzione di continuità, da cui ne esce illeso attraverso patteggiamenti con il governo federale o dubbie archiviazioni. Per citarne solo alcune: è accusato per discriminazione razziale nella gestione e concessione degli affitti dei suoi immobili a Brooklyn; è indagato per traffici con il pluri-condannato John Cody che approvvigiona i suoi cantieri con “il cemento della mafia”; assume alle sue dirette dipendenze il trafficante di droga Joseph Weichselbaum a cui versa, in maniera spropositata e sospetta, ingenti somme di denaro; assolda, per la demolizione del grande magazzino Bonwit Teller (al posto del quale sorgerà la Trump Tower), una ditta i cui operai lavorano in condizioni disumane sotto la “tutela” del mediatore sindacale Daniel Sullivan, informatore pentito dell’Fbi e sospettato della scomparsa di Jimmy Hoffa; fonda, in totale assenza di regolare licenza, la “Trump University”, una truffa a tutti gli effetti che viene prontamente chiusa dal governo federale, il quale dispone anche il risarcimento per tutti i paganti della fantomatica retta.

Evadere il fisco

«Faccio quello che mi pare, e il golf mi piace». Negli anni Zero Trump acquista un campo da golf fallito, lo abbellisce e lo amplia a dismisura, per una stima totale di 50 milioni di dollari. Quando arriva il momento di pagare le imposte, Trump abbassa la valutazione dello stesso campo, nella dichiarazione dei redditi, del 97%. Ma non finisce qui: oltre a “tagliarsi” le imposte, Trump si rifiuta – facendo ricorso – di pagare i danni denunciati dalla cittadinanza per le “modifiche non autorizzate” che nel corso dei suoi lavori di restauro e ampliamento provocano un dissesto al condotto fognario. La vertenza è tutt’ora aperta. Ma l’episodio, al di là della sua portata, è emblematico secondo Johnston della totale impunità entro cui Trump ha sempre preteso di agire, ed ha effettivamente agito, nella gestione dei suoi affari e nella puntuale evasione del fisco. Il 1984, in questo senso – e suggestivo quanto pertinente suona il richiamo all’opera orwelliana – è l’anno migliore per Trump: «nei suoi conti affluirono milioni di dollari, un Niagara di verdoni». Ancora una volta, quando giunge il momento della dichiarazione dei redditi, Trump imbastisce l’ennesimo raggiro includendo alla denuncia federale un “allegato C”, «il modulo presentato dai lavoratori autonomi e altre imprese individuali le cui attività non sono né società di capitali né società di persone». Il tycoon non si presenta né come proprietario di immobili, quale è, né come proprietario di casinò, quale è, ma in qualità di “consulente”, denunciando, in questo modo, un reddito nullo. La denuncia non passa e Trump viene inizialmente condannato a pagare una multa e i relativi interessi. Ma dai Novanta in poi – e in maniera retroattiva per parecchie multe in sospeso – le disposizioni del Congresso sulle riforme fiscali invertono la rotta ripristinando una norma che consente ai professionisti del settore immobiliare di effettuare detrazioni illimitate dai redditi di altro tipo. Il gioco è semplice: se si ha una perdita sulla carta dovuta al presunto calo di valore di un fabbricato, magari per invecchiamento dello stesso, è possibile sottrarla da un reddito diverso, come quello di un campo da golf. Dagli Ottanta ai Novanta il governo salva Trump, che evade “legalmente” milioni su milioni. Per Johnston «è così che il Congresso arricchisce ulteriormente quelli come Trump, gente che ha il capitale per entrare nel settore immobiliare e i requisiti per usufruire di esenzioni fiscali ai sensi di norme che escludono quasi tutto il resto della popolazione americana».

Costruirsi un mito.

Come ogni “impero” che si rispetti, fondato su potere e proprietà, anche quello di Trump necessita della costruzione, efficace e credibile, di un mito. Tanto più se il detentore dello scettro ambisce – ed ha avuto ragione di ambire – ad un’ascesa politica di massimo vertice, ossia quella di presidente degli Stati Uniti. Ancora una volta Trump, come ricostruisce Johnston, agisce con grande lungimiranza dimostrandosi un perfetto affabulatore nel propagandare se stesso. Celato sotto false identità pronte all’uso – illustre il caso di John Baron, alter ego creato da Trump stesso in qualità di suo addetto stampa –, il tycoon ha manipolato per anni l’informazione al fine di ottenere una manutenzione mediatica del mito e di stingere attorno a sé sempre più consensi virtuali. Le principali strategie trumpiane individuate da Johnston, in questo senso, sono due: «la prima sfrutta una pecca tipica del giornalismo di cronaca: enunciare i “fatti” senza leggere tra le righe. Trump minaccia spesso di querelare i giornalisti, garantendosi così cautela dalle case editrici e dalle emittenti, spaventate dalla prospettiva di cause costose, anche quelle che Trump non può vincere. […] La seconda consiste nel distorcere le notizie, contraddirsi e bloccare le indagini condotte sul suo conto da giornalisti, polizia, garanti e legali altrui». Minacce, come le tante perpetrate dall’alter ego John Baron, e distorsioni, come quelle prodotte da Trump in merito, ad esempio, alle oscillazioni del suo patrimonio per evitare indagini e beghe fiscali.

Tra le righe dell’atto d’accusa che Johnston sigla e articola nella sua ultima fatica, tuttavia, si legge una altrettanto indignata invettiva nei confronti del sistema politico ed economico degli States – la preoccupante perdita di credibilità dei democratici, la svolta neoliberista nelle riforme fiscali del Congresso – che ha concesso vere e proprie praterie alla galoppante ascesa di una figura come quella del tycoon. Demolire la sua legittimità di Donald Trump, allora, va di pari passo con la messa in discussione della politica statunitense e globale…

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