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RECENSIONE


gio 1 giugno 2017

ESTREMA DESTRA: COME È RICOMPARSA IN FRANCIA

Uno spaccato fenomenologico dell’extrême droite. Un racconto del vuoto che si è creato a sinistra, mentre si fanno largo video anti-Islam nel deep web. "Chez nous", "a casa nostra" - attraverso lo sguardo del regista belga Lucas Belvaux - ci fa riflettere sulle sorti della Francia, a un mese dalla presidenziali e dalla sconfitta della leader del Front National, Marine Le Pen.

Non eri di un quartiere o di una cité. Eri chourmo. Nella stessa galera, a remare! Per uscirne fuori. Insieme. [Jean-Claude Izzo, Chourmo]
La luce dell’alba si irradia su un campo solcato da un trattore, lo attraversa e lambisce i tetti bassi delle case popolari, prosegue su quelli delle villette a schiera, si propaga nell’enorme e desolato parcheggio di un centro commerciale, oltrepassa anche quello e scorre sulle sopraelevate dell’autostrada dove già sfrecciano utilitarie e mezzi pesanti e poi ritorna, più vivida, nello stesso campo in cui il trattorista scende dal suo veicolo per togliere un ostacolo con cui hanno impattato le ruote, disseppellendolo: è una bomba, di quelle della Seconda Guerra, l’ennesima che l’agricolo trova e va a riporre su una catasta di ordigni simili.
Cinque stacchi di inquadrature danno contezza dell’ambientazione in cui va in scena la storia, e l’incipit si chiude con un oggetto disseppellito, traccia di un sottosuolo in cui pulsa ancora il passato, quasi a volerci dire che non esiste nessun dopoguerra.
Tutto si svolge nella località fittizia di Hénart, che è chiaramente collocata nel nord della Francia, in Piccardia, Pas de Calais, quella sul cui lembo settentrionale, negli anni tra il ’43 e ’44 del millenovecento, durante il collaborazionismo di Vichy, sorgeva la fortezza nazista di Mimoyecques, con le colossali bocche di cannone puntate sull’Inghilterra. «Mio nonno li ha combattuti prima, durante e dopo la guerra. Credevamo di averli sistemati e invece (i nazifascisti) tornano sempre: con le stesse idee, le stesse parole, gli stessi programmi», dirà il padre della protagonista.
A un mese dalla sconfitta di Marine Le Pen in Francia, l’ultima pellicola del belga Lucas Belvaux, Chez nous (A casa nostra), uscita proprio in simultanea con le presidenziali francesi, ci consegna uno spaccato fenomenologico efficace e per niente retorico sulla ricomparsa, e relativa riconfigurazione, dell’extrême droite, e ci ammonisce sul vuoto che si è creato a sinistra, ancora ben lungi dall’essere colmato.

La storia

Puline Duhez (Émilie Dequenne) è nata e cresciuta in a Hénart da una famiglia d’estrazione operaia e comunista, e fa l’infermiera a domicilio.
Il suo lavoro la porta, giocoforza, a scandagliare tutte le zone periferiche e a interagire con tutti gli strati sociali meno abbienti: dai vecchi del posto al meticciato che lo sta ripopolando. Per questo il dottor Philippe Berthier (André Dussolier) – medico d’alto rango e militante politico del Blocco Patriottico che ora si dichiara «né di destra né di sinistra» – la vuole convincere a candidarsi alle comunali, con la lista dell’Rnp-Raggruppamento Nazional Popolare (alias Front National) capeggiata dalla leader Agnès Dorgelle (alias Marine Le Pen), in quanto donna brillante e coraggiosa lavoratrice a contatto con la gente del posto.
Pauline è convinta dell’utilità sociale del suo lavoro, ma si ritiene un soggetto spoliticizzato, privo di capacità politiche e comunque scettico nei confronti dell’Rnp, le cui radici affondando in un partito d’estrema destra. Ma Berthier sa bene su cosa fare pressione – il tramonto delle ideologie per cui conta la concretezza d’azione e non più lo schieramento passato, la consapevolezza di Pauline rispetto ai bisogni e le sofferenze du peuple – e, alla fine, la convince ad accettare la candidatura.
Le ripercussioni sulla vita di Pauline sono pesantissime e, attraverso i nuovi panni del suo personaggio, la narrazione porterà a galla, tra rappresaglie razziste, trame oscure e strumentalizzazioni di partito, il vero volto – fascista e xenofobo – dell’Rnp ma anche il tramonto della gauche francese e tutte le contraddizioni di una realtà – sociale, politica ed economica – al collasso.

L’abbattimento del welfare-state e il vuoto à gauche.

La fittizia cittadina di Hénart viene rappresentata da Belvaux come l’emblema di ciò sta accadendo ai molti luoghi periferici francesi e – per lecita estensione – europei, mondiali: l’abbattimento sistematico del welfare, lo smantellamento progressivo di istruzione, sanità e trasporti pubblici. A pagarne il caro prezzo, e Pauline lo sa in quanto vi è a stretto contatto, sono tanto gli anziani locali, sempre più soli e abbandonati, quanto le famiglie francesi di origine migrante, sempre più ghettizzate a causa della condizione economica e sociale. In questo scenario, reso tale dalla regressione (e scomparsa?) della gauche, si consuma la danza macabra di due nuove fazioni politiche dominanti, ma di questo Pauline fa ancora fatica ad accorgersene.
Da una parte i sedicenti progressisti, che replicano con cinismo al tracollo dei servizi pubblici e conferiscono al libero mercato l’unica via d’uscita dalla crisi; dall’altra i nostalgici sovranisti, che fanno del ritorno all’identità e alla sovranità nazionale il loro baluardo risolutivo. Entrambe le fazioni si dichiarano post-ideologiche, ma lo sono fin dentro al midollo – gli uni: ideologia neoliberista, gli altri: ideologia neo-nazionalista. Entrambe si vogliono popolari, ma in realtà non fanno che spacciare il potere sul popolo – quello che esercitano e vogliono esercitare – per il potere del popolo – quello che non concederanno mai alle classi più sfruttate.
Entrambe alimentano e strumentalizzano la lotta tra poveri, i primi attraverso una straziante competitività commerciale e lavorativa, i secondi ricorrendo all’antica tecnica del “capro espiatorio”: l’invasione allogena che ruba futuro e lavoro al popolo non più sovrano.

Belvaux dimostra di essere un profondo e attento scrutatore delle retoriche di entrambi gli schieramenti, e mette soprattutto a nudo quella dei nostalgici che, come il dott. Berthier, tentano di mascherarsi very democrat – «non va lasciato il potere ai tecnocrati, la democrazia va affidata agli eletti del popolo o non ha più senso» – per poi mostrarsi in tutto il loro autoritarismo reazionario –: «Il capo deve definire la rotta, fare scelte politiche, e imporle».

O come uno degli istruttori propagandistici dell’Rnp, che declama alle fresche reclute: «Ieri dicevamo forte e chiaro quello che loro non osavano dire (cioè apologia forte e chiara di fascismo, ndr), oggi interveniamo per dare loro voce e rompere i tabù (delle passioni tristi, come il razzismo, ndr)».
O come, infine, la leader Agnès Dorgelle, massima sintesi rappresentativa della retorica neo-lepenista: «Non sono razzista ma non tollero che facciano venire dei poveracci a lavorare per due spiccioli. Stanno rimpiazzando gli europei con una manodopera indifesa e sradicata. E che non amerà mai la Francia come noi. Perché non è la loro storia, la loro cultura, il loro paese».

La vecchia classe, il deep side (web).

Il padre di Pauline è un operaio metalmeccanico in pensione, ex sindacalista e comunista convinto, e incarna – con un misto di rassegnazione e autocritica che Belvaux vuole conferire al personaggio – l’ultima stirpe di quella gauche cuore pulsante della classe lavoratrice.
Di quella sinistra, ora, ne rimane un vecchio operaio malmesso, il cui fisico è gravato dalla lunga esposizione in fabbrica all’amianto, e il cui spirito è fiaccato dal fallimento, tutto a sinistra, di non aver saputo trasmettere le istanze della lotta di classe alle generazioni future.
Al punto di ritrovarsi a fare i conti con una figlia candidata tra le file di un partito neo-fascista che, senza ombra di dubbio, è ben lungi dall’incamerare nelle sue pratiche il conflitto di classe: «Dobbiamo dare più respiro agli imprenditori», è uno dei proclami di Agnès Dorgelle.

Mentre la gauche diviene fantasmatica, altri spettri, stavolta neri e inquietanti, cominciano ad aggirarsi veicolati dai corpi di vecchie e nuove generazioni: come, rispettivamente, Stéphane Stankowiak, efferato criminale neo-nazista di cui Pauline, non sapendo nulla, si innamora; o il figlio, giovanissimo, di un’amica di Pauline, che propaganda neo-fondamentalismo cristiano nel deep web, attraverso video che esortano ad imbracciare le armi per un’imminente crociata anti-Islam.
La pellicola si chiude con la “ritirata” di Pauline dall’ingaggio politico e la sua riconciliazione col padre, ma l’epilogo è tutt’altro che un happy ending, perché il bilancio riflessivo della protagonista, rispetto a come sta diventando il luogo in cui è nata e cresciuta, è amarissimo. Il film di Belvaux si pone sul solco di recenti opere quali Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne e Io, Daniel Blake di Ken Loach, tutte pellicole che, insieme a Chez nous, non si sottraggono dall’ingaggio politico ma anzi lo cercano. Chez nous lo fa a partire dal titolo, ambivalentemente provocatorio, come ha spiegato lo stesso regista:
Il titolo viene da uno slogan dell’estrema destra francese che si sente spesso negli incontri di Marine Le Pen. La gente grida “on est chez nous”, “siamo a casa nostra”, che vuol dire che gli altri non sono benvenuti. E poi mi piaceva l’idea che “a casa nostra” significasse anche “a casa degli altri” intendendo per “altri” i democratici, gli altri francesi, gli immigrati. Chiunque vive in Francia è a casa propria, non bisogna dimenticarlo. E poi c’è un terzo aspetto, magari un po’ subliminale: che se siamo a casa nostra diventa anche nostra responsabilità il fatto che i partiti populisti diventano più forti, perché crescono dove è stata lasciata loro la strada completamente libera senza mai contraddirli.

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