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RECENSIONE


gio 22 novembre 2018

ESSERE UNA MACCHINA

Il libro di Mark O’Connell, “Essere una macchina”, uscito lo scorso settembre è il resoconto di un viaggio del 2016 in America sulle tracce dei transumanisti, un gruppo non sempre identificabile di individui che, in diverse forme e modalità, credono nel superamento della morte grazie all’ausilio della tecnologia avanzata. Ma il volume è anche e soprattutto un’immersione nel mondo delle Big Tech che costellano la Silicon Valley, capace di portare a galla le connessioni profonde tra apparati securitari, piattaforme tecnologiche e mondo finanziario.

Il libro di Mark O’Connell, Essere una macchina, uscito lo scorso settembre (Adelphi, 2018) è il resoconto di un viaggio del 2016 in America sulle tracce dei transumanisti, un gruppo non sempre identificabile di individui che, in diverse forme e modalità, credono nel superamento della morte grazie all’ausilio della tecnologia avanzata.
Potrebbero esser classificati come tecno-utopisti, ma in realtà i personaggi che incontra O’Connell scavalcano questa definizione, in quanto le loro pratiche e studi oltrepassano l’immanenza delle problematiche della vita stessa e sfociano in una trascendenza tecnologica che può essere letta alla stregua di un vero e proprio culto religioso.
Il tono della narrazione assume tinte spesso ciniche e distaccate, ma mai canzonatorie e irriverenti. A un primo approccio potrebbe ricordare Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, per il sarcasmo di alcune descrizioni grottesche.

Eppure a una lettura attenta è evidente che il tema viene trattato con molta serietà e se alcuni personaggi descritti risultano essere degli outsiders totali – quasi degli strampalati – alla fine l’autore si sottrae dall’intento di un’analisi antropologica (alla DFW) e si concentra più  sullo spirito del tempo e lo stato dell’arte in merito alla ricerca tecnologica più accelerata.
Il “viaggio” di O’Connell si svolge ai confini del mondo a noi finora noto, e per fare un parallelo con il secolo scorso le ricerche dei transumanisti sembrano aver sostituito le scorribande spaziali del ‘900, giacché lo spirito utopico non è più declinato nella scoperta di pianeti nuovi da colonizzare, ma è rivolto all’interno del corpo umano, nuova frontiera del sogno di vita eterna, immortalità.
L’indagine, allora, ruota intorno al concetto di “singolarità”, ossia in quello snodo dell’evoluzione del rapporto uomo-macchina nel quale le macchine superano le potenzialità della mente umana e sono in grado di sostituire l’uomo in qualsiasi aspetto pratico della vita.
Pur essendo ancora lontani da quel punto di svolta, è ormai la singolarità il faro al quale guardano i transumanisti, come racconta anche Giuseppe Genna nel suo ultimo romanzo History, un’operazione di fiction che, tuttavia, al pari di O’Connell porta a galla contraddizioni e sorti di questo imminente salto verso la post-umanità.

A fianco a personaggi davvero singolari, nel “viaggio” si incontrano anche molti volti noti dell’industria dell’high tech che negli ultimi anni hanno incrementato in maniera esponenziale i loro investimenti e guadagni con le tante aziende che costellano la Silicon Valley.

C’è Peter Thiel, fondatore di PayPal e finanziatore della prim’ora di Facebook.
E c’è Ray Kurzweil, uno dei grandi ideologi della Silicon e adesso ai vertici di Google Engineering e di Google Brain che, insieme ad altri, sonda la possibilità di uploadare un cervello umano, pratica che darebbe un’accelerazione definitiva al sopravvento dell’intelligenza artificiale.
L’upload cerebrale consisterebbe nello scaricare i dati di un cervello umano su un cloud in modo tale, poi, da poterli ritrasferire su di un corpo sano e funzionante. Quello che fino al secolo scorso avremmo liquidato come “fantascienza”, oggi diviene realtà. Con tutte le contraddizioni a carico, certo.

Il viaggio prosegue infatti in quella che viene avvertita dall’autore come una sorta di “fabbrica dell’immortalità”, in cui si sperimentano la crioconservazione dei corpi e altre pratiche al di là dell’immaginazione.
Non può non tornare alla mente, allora, anche Zero K,  l’ultimo romanzo di Don DeLillo la cui trama si dipana attorno alla volontà del protagonista di crioconservarsi.
Protagonista che, a ben vedere, risulta totalmente imbevuto delle teorie del già citato Kurzweil sull’immortalità. Nella sua tappa alla “Alcor”, il centro di crioconservazione sito in Arizona, O’Connell si addentra nei laboratori per descrivere al lettore le diverse tecniche di congelamento dei corpi e scoprire che i cadaveri sono chiamati «pazienti», quelli che decidono di congelare solo la testa vengono definiti «neuro-pazienti» e la loro testa “mozzata” prenderà il nome di «cephalon».

Dopo l’assalto allo spazio per una futuribile messa a profitto turistica, ecco dunque l’assalto al cyber-corpo, ancora per possibili modelli di business del futuro. Ma insieme alla logica speculativa, in entrambi i casi si manifesta lampante la natura capitalistica in quanto, come spiegava Rosa Luxemburg, lo spazio esterno non ancora colonizzato (sia esso interstellare o virtuale) è necessario al Capitale per superare il virus della crisi iscritto nei suoi geni.
L’itinerario dell’autore continua poi tra fiere tecnologiche e gare di robotica con particolare attenzione alle applicazioni militari o di sicurezza, attraverso cui emergono i risvolti più inquietanti.
Lo sguardo a tratti dissacrante lascia ora il posto a uno sguardo realista: le grandi platform tecnologiche della Silicon Valley, che ormai capitalizzano singolarmente quanto un’intera borsa europea, sono legate a doppio filo col DARPA (agenzia governativa per la difesa degli Stati Uniti che ha come obiettivo lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecnologie in campo militare) e tutte stanno sviluppando progetti di intelligenza artificiale in grado di dar vita a nuovi dispositivi securitari e armi sempre più avanzate, quali i già utilizzati droni da combattimento.
Compare, tra le altre, la Boston Dynamics, società di robotica nata all’interno del Mit (Massachusets Institute of Technology) e cresciuta con i finanziamenti del DARPA, poi comprata da Google e rivenduta a Soft Bank.
La Boston Dynamics produce robot dalle sembianze animali ma dalla spendibilità in campo militare. La creazione più nota è “Big Dog”, un robot modellato sulle forme di un cane in grado di trasportare armamenti a fianco di un soldato su tutti i tipi di terreno. Il nuovo prototipo si ispira invece ai felini, si chiama “Wildcat” e potrà raggiungere la velocità di un ghepardo. Anche questo, progettato per spendibilità belligeranti.

La storia della BD è allora emblematica per comprendere le strette connessioni tra apparati militari, piattaforme tecnologiche e mondo finanziario.
La tecnologia risulta allora completamente inserita nella logica estrattivista del tardo capitalismo e la sicurezza (ma anche le strategie e tecniche d’offesa) rappresenta un bacino fondamentale sul quale accumulare e difendere ricchezze reali.
L’iniziale e solo apparente distacco ironico cede definitivamente il passo a uno scenario niente affatto rassicurante, in cui non può che rifrangersi una visione amara e critica della retorica libertaria che ha animato tutta l’industria tecnologica dalla “rivoluzione digitale” in poi.

Il “tour” di O’Connell torna quindi su toni più “leggeri” (ma non meno paradossali) quando l’autore si imbatte nel mondo delle associazioni filantropiche, veri e propri think tank che si interrogano su come difendere l’umanità dalle macchine nel momento in cui la singolarità verrà raggiunta.
Il paradosso è che proprio molti di questi filantropi sono gli stessi che finanziano gli studi sull’upload cerebrale. In altre parole, gli individui che finanziano con milioni di dollari l’accelerazione tecnologica verso un superamento dell’umanità per come la conosciamo, sono gli stessi a covare inquietanti ossessioni per queste scoperte al punto da finanziare al contempo gli apparati di sicurezza che dovranno “salvarci” dalle macchine.
Il nastro delle suggestioni letterarie si riavvolge ora ai ’70, anni in cui Philip K. Dick raccontava mondi futuri in cui si consumava un conflitto serrato tra umani e macchine per il controllo del pianeta.

Ma fuori dai confini letterari, ci ricorderebbe invece il filosofo Mark Fischer che viviamo la fase del “realismo capitalista”, ossia tutto ciò che immaginavamo ed era una proiezione mentale (e finzionale) ora sembra essere reale e vivida più che mai.

Nell’ultima parte del “viaggio”, infine, l’autore ha modo di indagare il tentativo concreto di applicare le teorie transumaniste alla politica. Siamo nel 2016 e l’autore gira l’America a bordo del Wanderlodge, un camper sgarrupato al seguito di un fantomatico candidato alle elezioni presidenziali che incoroneranno Donald Trump.
La narrazione assume le atmosfere di una vera e propria immersione surreale e al limite del grottesco, durante la quale compaiono personaggi bizzarri, outsider totali alla ricerca di una vera e propria ragione di vita: fuori dai circoli più abbienti, il transumanesimo si trasforma in setta religiosa; l’allungamento della vita una missione; la lotta al deperimento fisico come uno strumento di proselitismo.
“L’immortality-bus” gira gli States ammantato da figure all’incrocio tra angeli dell’apocalisse e teorici di fantomatici complotti, individui che tradiscono una marcata dissociazione dalla realtà, derivante da disagi sociali ed economici in cui la crisi li ha scaraventati.

E, di fronte a questi disagi, persino lo strampalitissimo Zoltan Istvan, candidato alle presidenziali per il Partito Transumanista con la promessa elettorale dell’immortalità, può sembrare un leader rassicurante…

Il libro: Mark O’Connell, Essere una macchina, Adelphi 2018.

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