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RECENSIONE


lun 18 marzo 2019

COSA MOSTRA “LA CASA DI JACK”

Con “La casa di Jack” Lars von Trier apre il sipario su un terribile presente ricordandoci come il nuovo secolo sia cominciato proprio con la riemersione di quel desiderio paranoide di coercizione e violenza sull’altro reso emblematico dalle stragi commesse dai vari Breivik. Novelli killer seriali e serializzati si cimentano nell’eccellenza di un gesto estremo, nascosto e sotteso nel magmatico chiacchiericcio sovranista, populista e reazionario che a partire dall’occidente sta egemonizzando l’epoca in cui viviamo.

«Sono io quell’energia. Un giorno gli uomini diranno, guardandosi indietro, che sono stato il precursore del XX secolo.» Jack Lo Squartatore
Quando “Jack lo squartatore” nel 1888 iniziò il suo percorso omicida nel quartiere di Whitechapel, uno dei più poveri sobborghi di Londra, incise sul corpo delle sue vittime il dissacrante e famelico desiderio del nuovo secolo.
Lo sconosciuto squartatore, infatti, fu la cifra del nuovo millennio così come il Jack del nuovo film di Lars von Trier potrebbe essere definito il vero volto del XXI, il nostro secolo.
Un secolo, questo, in cui la serialità del “male” diviene pervasiva.  È come se l’antico squartatore, con il suo radicale messaggio di morte, avesse compiuto il suo ciclo per specchiarsi infine nel serial killer contemporaneo: l’ingegnere borghese e misogino, fino al midollo.
Figura che corrisponde al creatore di una vera e propria filosofia del male capace di incarnare a perfezione questi primi 19 anni del secondo millennio attraverso un’estetica totalitarista e anti-umanista che fa della ferocia, della cattiveria e della volontà di prevaricazione le chiavi più evidenti della nuova politica mondiale.
Con un gesto visionario, irriverente, iconoclasta e al tempo stesso rivoluzionario e reazionario von Trier torna alla macchina da presa con un opera densa, crudele e poetica che trasuda arte cinematografica da ogni fotogramma e conduce i tanti amanti e insieme detrattori dei suoi “dogmi” a una spietata riflessione sulla realtà odierna.
Squarciando il velo di maya di quello che può o non può essere rappresentato, il regista danese punta il dito verso se stesso, verso l’uomo di oggi.
Una lente di ingrandimento viene posizionata su una precisa categoria umana: l’uomo occidentale. La pellicola sceglie come indiscusso protagonista un maschio bianco falsamente erudito e incapace di empatizzare, di buona famiglia, con velleità da architetto e un disturbo ossessivo compulsivo particolarmente radical chic a completare il profilo.
L’analisi di questa speciale tipologia umana viene compiuta senza sconti e senza retorica nel puro stile iperrealista tanto caro all’autore di Melancolia.
La casa di Jack (The House that Jack Built) è un film a suo modo necessario, purtroppo ostacolato in Italia da una censura (istituzionale e da parte della critica) che ha confuso la cifra poetica con la presunta violenza gratuita della messinscena.

Ma von Trier, nonostante i tagli, procede ancora una volta sul terreno delle contraddizioni proponendo la sua personale disamina di una contemporanea discesa agli inferi della società.

Nella costruzione del suo protagonista (interpretato da un eccelso Matt Dillon) si riconosce un lavoro avanguardistico, talmente spinto dal punto di vista concettuale dal risultare alla stregua di un esercizio ermeneutico.
Attraverso cinque raccapriccianti capitoli, la pellicola non solo approfondisce con chirurgica crudezza l’educazione sentimentale del e nelmale di un killer, ma accompagna per mano lo spettatore alla “sinistra di sé stesso”.
L’operazione, ben riuscita, inizia con un monologo che progressivamente sfuma nella dimensione dialogica fino a diventare uno scambio tra due voci contrapposte, grazie alle quali il regista ripropone l’incredibile partita a scacchi con la morte che Ingmar Bergman regalò al mondo con Il settimo sigillo (1957).

Il confronto vede da una parte l’efferato protagonista Jack e dall’altra l’umanesimo rappresentato dal personaggio di Virgilio – stavolta all’incrocio tra una guida spirituale e un moderno psichiatra – interpretato dall’ennesimo e ultimo volto stropicciato di Bruno Ganz, ormai lontano dal vestire i panni dell’angelo wendersiano e più assimilabile all’architetto di Matrix o all’Angelo sterminatore di Buñuel.
Infatti gli angeli oggi servono a poco, perché “il cielo sopra Berlino” non è mai stato così nero.
È tanto evidente nell’atmosfera della pellicola che la dolente recitazione di Ganz  diviene l’ultima e il suo volto nel film si fa inconsapevolmente una sindone postuma e involontaria, di morte.

La tesi di Virgilio, che contrappone l’amore alla negazione dello stesso, è dunque destinata a essere perdente e spazzata via dalle elucubrazioni del novello squartatore.

È Jack che conduce sempre il gioco, che sposta pedine senza preoccuparsi delle parole della guida spirituale e mettendo a nudo, grazie alle proprie ossessioni autobiografiche, non solo la propria desolante interiorità ma tutto il nostro mondo.
Il protagonista compie una sistematica e corrosiva decostruzione dei luoghi comuni della morale corrente in un tripudio ultra-reazionario in cui l’arte è intesa come aberrazione, in cui il fascino delle rovine così come l’urlo degli aerei nazisti Stuka sono capaci di creare icone molto più intense di qualunque pittore rinascimentale.
In questo quadro una terrificante e perversa attenzione è riservata alle donne, giudicate oggetti da manipolare al proprio completo piacimento. La donna intesa come pura materia da plasmare per accedere alla prossima  e visionaria “opera d’arte”.

E non si salva nemmeno la famiglia, che rappresenta un fardello, una mera costruzione sociale che serve solo a far emergere debolezze e fragilità dell’essere umano.
È così che il personaggio di Jack si muove inarrestabile sulla scacchiera rappresentativa del suo inconscio, intendendo i propri delitti come performance totalmente assimilabili alle frange più estreme delle avanguardie che imperversarono nel ‘900 la cui eco, oggi, sembra riaffiorare sull’Europa.
Dal punto di vista squisitamente visivo il film potrebbe dirsi un “oggetto cinematografico non identificato”, una sorta di opera ibrida in cui attraverso vari linguaggi espressivi si tenta di comporre un mosaico di senso contaminato e in evoluzione continua.

La pellicola straborda, in ogni direzione: ci sono le immagini di repertorio che spaziano dalle variazioni del pianista Glen Gould ai documentari sulla caccia. E ancora: i fotogrammi si auto-alimentano passando dall’animazione ai paradossi visivi e proponendo addirittura un’interessantissima teoria sul negativo fotografico.

Al netto della miriade di citazioni pittoriche, cinematografiche, letterarie, matematiche ed estetiche che convivono nel film, si trova forse nell’epilogo il messaggio più crudo del regista.

Il gigante dell’estetica nichilista, il novello Dante a cui Virgilio con la sua pietas non riesce in alcun modo a contrapporsi, si mostra in tutta la sua disarmante incapacità: un ingegnere frustrato che non è stato in grado di costruire la propria casa e si rifà per questo sui corpi delle proprie vittime utilizzandoli come pareti.
Il percorso esplorativo si compie, cerchio dopo cerchio, fino alla domanda finale (e sottintesa) nella casa di Jack: esiste una possibilità di redenzione da parte dell’uomo contemporaneo?
La risposta del regista, negativa e inequivocabile, precipita il suo spettrale protagonista nelle profondità dell’abisso infernale e senza la minima speranza di riemergere a «riveder le stelle».

Il messaggio che von Trier torna a ribadire è chiarissimo e in chiave odierna meno gratuito di quanto potesse sembrare nei suoi precedenti lavori: non si può fare a meno di leggere e rappresentare le continue pulsioni xenofobe e reazionarie dell’uomo occidentale contemporaneo.
Con “La casa di Jack” Lars von Trier apre il sipario su un terribile presente ricordandoci come il nuovo secolo sia cominciato proprio con la riemersione di quel desiderio paranoide di coercizione e violenza sull’altro reso emblematico dalle stragi commesse dai vari Breivik.
È chiaro che queste figure, questi novelli killer seriali e serializzati sono sempre ascrivibili alle frange più estreme di una società in perenne evoluzione, ma non si può negare che rappresentino l’eccellenza di quel gesto estremo, nascosto e sotteso nel magmatico chiacchiericcio sovranista, populista e reazionario che a partire dall’occidente sta egemonizzando l’epoca in cui viviamo.

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