Decodificare il presente, raccontare il futuro

RECENSIONE


ven 23 giugno 2017

LA DITTATURA SUL CORPO DELLE DONNE

Le donne sono usate come mero mezzo riproduttivo in "The Handmaid’s Tale", la serie tv in onda sulla piattaforma Hulu e tratta da "Il racconto dell’ancella", libro culto di Margaret Atwood (1985). La violenza è strumentale e costante. Lo spettatore si trova di fronte a una distopica rappresentazione che sembra svelare il lato più oscuro del presente.

«Il corpo è mio e lo gestisco io» Slogan femminista
La serie Tv The Handmaid’s Tale, in onda sulla piattaforma Hulu, è tratta da Il racconto dell’ancella, libro culto di Margaret Atwood, pubblicato nel 1985, in un momento cruciale della storia dei movimenti delle donne e, non a caso, è considerato uno dei manifesti del pensiero femminista di quegli anni.
L’idea da cui muove il racconto è tanto semplice quanto terribile. In un futuro dominato da politiche mondiali sempre più reazionarie, segnato dall’inquinamento radioattivo, dalla scellerata devastazione di risorse climatiche e naturali, e dall’immancabile spettro del terrorismo sempre in agguato, l’America è al collasso. L’unica soluzione è sovvertire il governo democratico con un colpo di stato.
I promotori del golpe sono ispirati da una logica disarmante nella sua lucida e drammatica banalità, che ricorda la quintessenza del male. In un mondo in cui la natalità è quasi pari allo zero, l’unico modo per evitare l’estinzione del genere umano è invertire la tendenza.
E il modo più semplice per realizzare questo progetto di conservazione della specie è privare le donne di ogni diritto costituzionale e riprogettare una società di stampo medievale, patriarcale e maschilista, in cui le pochissime donne fertili vengono usate come mero mezzo riproduttivo. Inizia così la storia di Difred, un tempo madre e donna di successo e ora ancella e schiava in una società senza diritti.

Assoggettamento della donna attraverso il corpo

Già dall’episodio pilota la narrazione presenta una protagonista, alla quale presta il volto l’eccellente Elisabeth Moss, in continua immersione nella claustrofobica paura imposta dalla dittatura. Difred è obbligata a diventare l’utero di una coppia infertile, venendo imprigionata in una casa che altro non è se non una prigione senza sbarre, dove anche suicidarsi è impossibile.
In The Handmaid’s Tale l’uso della violenza non è mai gratuito, bensì sempre utile a rappresentare la condizione di isolamento e di negazione delle più elementari libertà. Le distopie di alcuni sono le utopie di altri, e in quella ambientata nella società di Gilead, una volta conosciuta col nome di Stati Uniti d’America, è stato istituito un regime totalitario teocratico di ispirazione biblica, che usa le antiche scritture distorcendone i significati.
È naturale, quindi, che anche il ruolo delle donne infertili venga ri-declinato con creativa ferocia.  La maggior parte delle “non-donne”, infatti, viene internata nelle colonie e condannata a morte certa a causa del lavoro di smistamento dei rifiuti radioattivi. Altre, invece, diventano “Marte”, spie governative e collaboratrici domestiche usate per la cucina e i lavori manuali, da svolgere rigorosamente senza l’aiuto di elettrodomestici.
Si tratta di una puntuale rappresentazione, “appena” distorta dalle esigenze del genere futuristico, dei processi di gerarchizzazione e assoggettamento del lavoro che, attraverso il corpo della donna, si dislocano laddove è storicamente dato l’intreccio tra produzione e riproduzione (sociale), al cuore di quel regime di governamentalità neoliberale che si appunta su ogni aspetto della vita umana. Il tutto, ça va sans dire, alla faccia di quanti, da più parti, sono soliti consegnare il movimento delle donne alla mera rivendicazione di diritti civili in salsa liberal o “rosé”.

La piramide sociale femminile

A mantenere l’ordine, nell’inferno di Gilead, ci sono le temibili “Zie”, guardiane del rigore morale, veri e propri kapò da campo di concentramento che si occupano dell’educazione e delle punizioni delle ancelle, tagliando arti e cavando bulbi oculari.
A capo della piramide sociale femminile regnano le mogli dei comandanti, forse le figure più ambigue e strazianti della serie.  Di quest’ultima categoria fa parte la consorte del capitano Fred Waterford, interpretato da un mefistofelico Joseph Fiennes. Serena Joy Waterford (Yvonne Strahovski) è senza dubbio l’emblematico esponente della rivoluzione conservatrice: intellettuale coltissima e fervente religiosa, è una delle menti che hanno ispirato il cambiamento, realizzando – insieme al marito – la loro “utopia” sociale.
Tuttavia, quando il governo si insedia, la signora Waterford finirà progressivamente per perdere ogni anelito di indipendenza, ritrovandosi prigioniera di un ruolo di pura rappresentanza, con un marito che violenta nei giorni fertili un’altra donna davanti a lei. Il suo personaggio vive dietro una porta chiusa, vittima delle teorie che lei stessa ha contribuito a far nascere e contro le quali non è in grado di ribellarsi.

Distopica rappresentazione di un immaginario presente

Opposto all’ambiente delle mogli, in uno spazio altro, clandestino e formalmente non riconosciuto dalla società, che ricorda i tempi del proibizionismo, abitano le prostitute, ex manager, premi Nobel e donne in carriera costrette al sesso per sopravvivere, ma non utilizzate per scopi riproduttivi.
Così mentre le povere ancelle si sottopongono al rito della procreazione completamente vestite e con le braccia bloccate da mogli infertili, sul corpo delle prostitute si abbatte ogni vecchia e nuova perversione del devotissimo universo maschile dei capitani al potere, paese dei balocchi di un desiderio di dominio ormai fuori controllo.
Di episodio in episodio, man mano che i connotati della storia si rivelano e i caratteri dei personaggi si definiscono, scopriamo la natura più pop di The Handmaid’s Tale, che cambia spesso ritmo del racconto con coraggiosi inserti di brani musicali contemporanei per mettere l’accento sulla sottile continuità temporale, o addirittura su una segreta coincidenza, tra il nostro tempo e quello narrativo.
Lo spettatore, quindi, è costretto a provare una costante sensazione di perturbamento, interrogandosi di continuo sulla prossimità di una distopia che sembra svelare il lato più oscuro del presente.
Ed è più di una coincidenza che proprio oggi, a distanza di trent’anni, dalla pubblicazione del romanzo della Atwood, con una natalità che in Occidente definisce curve demografiche in calo e mentre impazza il riflusso antiabortista, la riflessione sulle nascite sia uno dei grandi impliciti del dibattito politico, spauracchio – sussurrato o urlato, a seconda dei casi – che alimenta la costruzione dei torbidi immaginari nazionalisti e razzisti.

Così, con l’autodeterminazione delle donne costantemente messa in dubbio, una serie come quella distribuita da Hulu ha una valenza che va ben oltre il puro intrattenimento. Le motivazioni alla base della dittatura raccontata dalla Atwood, e ora da Bruce Miller, ci riguardano tutte e tutti molto da vicino.

Una riflessione sul qui e ora

The Handmaid’s Tale non ha solo ha il merito di riproporre i temi cardine del romanzo e portarli all’attenzione del grande pubblico, tentativo fallito dal coraggioso film del 1990 diretto da Volker Schlöndorff, ma anche quello di rielaborare con maggiore cinismo e crudeltà, priva di mediazioni, il racconto originario, spingendolo verso nuovi e più terrorizzanti territori.
Non è una forzatura parlare della serie come di un horror puro in cui la dimensione dell’incubo è costante, la possibilità di risveglio negata e le istanze narrative del realismo sempre attive, come in un’azione a rilascio lento, dietro la cortina della proiezione fantascientifica.
In questo The Handmaid’s Tale si costruisce su un meccanismo narrativo dall’inusuale efficacia, capace di trasmettere allo spettatore una sensazione di costante pericolo, che non ha nulla di catartico e che stimola – sempre a debita distanza dalla resa didascalica – una riflessione insistente sul qui e ora.

La tensione, sapientemente alimentata da lunghi piani sequenza accompagnati da musiche inquietanti, sollecita ad andare oltre la visione per indagare i significati più profondi della storia. E forse proprio l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, insieme all’emersione di movimenti legati alla galassia della destra estrema e a una nuova retorica della supremazia di genere veicolata sul web attraverso precise strategie comunicative, ha creato – per contrasto – le migliori condizioni per la trasposizione televisiva del romanzo della Atwood. È molto probabile che, nell’America di un clintonismo di ritorno, The Handmaid’s Tale ci avrebbe fatto meno paura o, quanto meno, sarebbe apparsa meno profetica…
Invece, come ci avvertono le protagoniste «Tutto è cambiato poco alla volta» o, ancora, «Quando hanno annullato la Costituzione non ci siamo svegliati». Ovviamente il pretesto del golpe e la proclamazione della legge marziale è costituito da una serie di attentati terroristici e dal crescente clima di paura che impone la violazione dello stato di diritto per esigenze di sicurezza.
Il monito è chiaro, non fraintendibile, e bisogna augurare alle donne, e a noi tutti, di tener fede all’oscuro motto scoperto da Difred in un momento di profondo sconforto: Nolite te bastardes carborundorum –  Non lasciare che i bastardi ti schiaccino, sorella!

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