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RECENSIONE


ven 2 febbraio 2018

BABYLON BERLIN IL CAOS PRIMA DELLA TEMPESTA

Babylon Berlin rappresenta un memorabile affresco noir dell’epoca weimariana, in cui crollò una democrazia giovanissima e sperimentale. Oggi le democrazie occidentali vacillano, svuotate da ciò che Bauman ha chiamato il “divorzio tra la politica e il potere”. Certo, le nostre società possiedono qualche anticorpo in più rispetto ad allora, ma il monito di Babylon Berlin per il presente giunge forte e chiaro. Ci avverte di non sottovalutare l’avanzata dirompente delle destre europee, ma soprattutto ci impone di riflettere sull’inquietante atmosfera in comune tra quell’epoca e la nostra: il caos prima della tempesta.

La scelta adesso è tua In bilico tra miseria e fortuna ma ti perdonerò. La morte ti siede accanto, ma c’è luce nel tuo sguardo Lei mi riconosce, io sono pronto e cerco con te l’immortalità [Severija Janušauskaitė, Zu Asche zu Staub]

Germania, anni venti. Siamo abituati a immaginarcela come un paese umiliato dalle riparazioni belliche sancite a Versailles dagli Alleati, in cui le persone si affrettano a fare la spesa spingendo carriole ricolme di marchi svalutati. Il caotico preludio all’ascesa nazionalsocialista, inesorabile destino per la fragile Repubblica di Weimar. Così ce la immaginiamo: come se la storia non potesse che andare come è andata.
Babylon Berlin, la serie tv europea più costosa di sempre (il budget supera i 40 milioni di euro), rappresenta un indimenticabile affresco noir dell’epoca weimariana. Investire paga: più di 300 location, scenografie sontuose, le tonalità soffuse di una fotografia mai banale, costumi e trucco curatissimi, una colonna sonora seducente.
Ma fra i tanti meriti della serie in pochi hanno sottolineato la capacità di mettere in discussione certi facili, confortanti determinismi storici formulati ex post.
Ispirato a Der nasse Fisch (Il pesce bagnato) di Volker Kutscher, primo di cinque romanzi dedicati alla Germania pre-nazista, Babylon Berlin si svolge tra il maggio e il giugno del 1929. La trama ruota intorno alle indagini del commissario di polizia Gereon Rath (Volker Bruch), trasferito da Colonia alla buoncostume di Berlino per una missione in incognito: sventare il ricatto a luci rosse di cui è vittima Konrad Adenauer, il borgomastro della sua città.
Nell’investigare l’industria pornografica illegale berlinese, Rath si affianca a Bruno Wolter (Peter Kurth), un ambiguo poliziotto dalle maniere forti, e soprattutto alla giovane dattilografa della squadra omicidi Charlotte Ritter (Liv Lisa Fries), affascinante e determinata, poverissima al punto da dover condurre una seconda vita da prostituta dominatrice per mantenere la famiglia.

Presto l’attenzione di Rath si sposterà su un tesoro di lingotti d’oro nascosto in un treno proveniente dalla Russia, di cui vogliono impossessarsi un po’ tutti: dissidenti trotskisti, agenti staliniani, la criminalità organizzata, i nazionalisti tedeschi impegnati a riarmare l’esercito contravvenendo agli accordi di pace. Trama intricatissima, va da sé: vale la pena di prendersi un fine settimana di binge-watching, e godersi questo indimenticabile filmone di 16 ore senza troppe interruzioni.
La grande protagonista è però la Berlino del 1929, riprodotta con ossessiva cura dei dettagli. Scopriamo così la vecchia Alexanderplatz, ricostruita in digitale insieme a decine di strade, angoli e palazzi distrutti dai bombardamenti del ’45.
Alla luccicante e rigogliosa zona Ovest, dove fiorisce una straordinaria stagione artistica, musicale e cinematografica, fanno da contraltare i bassifondi della zona Est, fra emarginazione, degrado, depravazione, agitazioni comuniste e scontri di piazza.

E poi c’è il leggendario Moka Efti, caffè, ristorante e sala da ballo, teatro di una sfrenata vita notturna, popolato da un demi-monde di cui anche Charlotte fa parte (è qui che si esibisce la contessa Sweta Sorokina, alias Severija Janušauskaité: le sue performance sul palco sono già di culto, in particolare quella di “Zu Asche, zu Staub”, tema musicale della serie).

Metropoli di oltre 4 milioni di abitanti, turbolenta e libertina, culla dei consumi e della cultura tedesca (sono gli anni dell’espressionismo, del Bauhaus, del teatro brechtiano) così come della violenza politica e del crimine organizzato: osservando in scena le contraddizioni brucianti della sua capitale, non si ha certo la sensazione di un destino già segnato per la Germania weimariana; piuttosto, che sarebbe potuto succedere davvero di tutto.
Le camicie brune delle SA fanno capolino soltanto nelle ultimissime puntate, e il nome di Hitler viene pronunciato soltanto una volta: in una barzelletta. È ben noto che ai primi trionfi del nazismo non furono estranee le irrisioni con cui fu sminuito, anche e soprattutto da quei circoli conservatori – politici, industriali e militari – che accompagnarono Hitler al governo nella convinzione di poterlo manipolare facilmente.
Così, in Babylon Berlin i richiami più diretti all’imminente ascesa nazista si ritrovano soprattutto nel magnetismo cui sembrano soggetti masse e individui, rapiti dalla gestualità ammaliante della Sorokina (dotata di baffetti…) sul palco del Moka Efti tanto quanto dalla calda, ipnotica eloquenza del misterioso Dr. Schmidt, medico ed esponente di spicco della malavita berlinese.
Sappiamo che a far precipitare gli eventi fu la crisi economica scoppiata negli Stati Uniti nell’ottobre del ’29, che si abbatté sulla Germania con immediata virulenza. I governi repubblicani, che dal credito americano avevano fatto dipendere gran parte della rinascita economica tedesca, finirono travolti da un’ondata di disoccupazione.
Babylon Berlin si conclude proprio alla vigilia della svolta, negli ultimi giorni dell’epoca d’oro di Weimar. Un espediente narrativo efficace anche perché i tre autori e registi della serie (Tom Tykwer, Henk Handloegten, Achim von Borries) si sono ben guardati dall’instillare nei protagonisti il senno del poi.
In compenso, vediamo in scena tutti gli ingredienti del caos politico: la frattura, in seno alla polizia, fra lealisti alla Costituzione e nazionalisti, le agitazioni comuniste e la repressione culminata nel “Maggio di sangue”, i rapporti tra istituzioni weimariane e Unione Sovietica (grazie a cui la Repubblica uscì dall’isolamento diplomatico e militare), i conflitti interni al movimento operaio; e ancora lo stress postraumatico dei reduci di guerra.
Rath è uno di loro, che placa i suoi tremori trangugiando fiale di morfina, l’antisemitismo strisciante, i corpi franchi paramilitari nati dalla disgregazione dell’esercito, ossessionati dalla Dolchstoßlegende, la leggenda della “pugnalata alle spalle” socialdemocratica cui imputavano la sconfitta bellica.

Eppure, scorrendo certe recensioni internazionali, è nella dissolutezza della vita berlinese che sembrerebbe di dover individuare le premesse di un’inevitabile, quasi apocalittica corsa verso la tragedia nazista. La decadenza dei costumi prima dell’inferno: uno stereotipo duro a morire, assecondato in questo caso da una discutibile strategia promozionale tutta giocata sulle paroline magiche “sex, drug & crime”, e assai poco aderente alla reale sostanza della serie.

Al contrario, l’edonismo trasgressivo rappresentato in Babylon Berlin (cui non fu estraneo uno dei processi di emancipazione femminile più rapidi della storia occidentale) sembra richiamare –  certo con accenti parossistici – una cultura urbana moderna, cosmopolita, che anche nella liberazione dei costumi si contrappose allo spirito völkish diffuso nelle campagne e nei piccoli centri fin dall’epoca bismarkiana.
Queste tendenze nazionaliste, razziste e autoritarie furono esacerbate dalla polemica sulle riparazioni belliche, e poi dalla crisi agraria e dalla frammentazione politica degli anni Venti; ma solo dopo il tracollo economico del ’29 Hitler riuscì a mobilitare le pulsioni antimoderne della società tedesca.
L’integrazione delle masse si compì a suon di propaganda goebbelsiana e di violenza squadrista. Nell’epoca di Weimar, però, aveva preso tutt’altra strada, grazie a uno stato sociale all’avanguardia e a una cospicua redistribuzione dei redditi verso le classi lavoratrici, nonostante la zavorra delle riparazioni e lo shock dell’iperinflazione.

Allora crollò una democrazia giovanissima e sperimentale; oggi le nostre stanche democrazie vacillano, svuotate da ciò che Bauman ha chiamato il “divorzio tra la politica e il potere”.
Certo, le nostre società possiedono qualche anticorpo in più, rispetto ad allora, ma il monito di Babylon Berlin per il presente giunge forte e chiaro. Ci avverte di non sottovalutare l’avanzata dirompente delle destre europee, impensabile anche solo cinque anni fa, ma soprattutto ci impone di riflettere sui punti in comune tra quell’epoca e la nostra.
La serie si conclude sull’orlo dell’abisso, e una delle tante ragioni per sperare che i suoi creatori ci regalino altre stagioni all’altezza di questo capolavoro (la pentalogia di Volker Kutscher si conclude nel ’34…) è la curiosità di veder rappresentata l’analogia più inquietante tra noi e Weimar: una disoccupazione dilagante, scatenata da una crisi finanziaria importata dagli USA, affrontata a colpi di ostinata austerità.

Tutti hanno sentito parlare dell’iperinflazione (che la Germania si lasciò alle spalle già nel 1923: vale la pena di sottolinearlo soprattutto a beneficio degli attuali fan dell’ordoliberismo), molti meno del cancelliere Heinrich Brüning.

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