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mar 4 aprile 2017

JUAN CARLOS MONEDERO: “L’UE RITROVI I NEMICI PER ESSERE FAMIGLIA”

Secondo il cofondatore di Podemos in Spagna, l’Europa deve tornare ai suoi valori universali di accoglienza e solidarietà contro i populisti xenofobi di estrema destra. L’idea è di partire dai governi nazionali per connettersi alla dimensione continentale: “Non lasciamo le nazioni alle destre”.

Juan Carlos Monedero ha presentato a Roma il 25 marzo scorso, all’evento “Il tempo del coraggio” insieme a Yanis Varoufakis e a tanti altri, il progetto per una nuova Europa del movimento DiEM25, che propone uno European New Deal (qui il testo integrale), con una Banca europea di investimenti dalla quale la Bce comprerebbe i bond, uno European Equity Depository (Deposito di Capitale Comune), un Dividendo universale di baseal posto del reddito universale.

Prof. Monedero, ha detto che “bisogna tornare a far emozionare la gente e creare un nuovo discorso europeo”. Come è possibile farlo, proprio nell’era di millantate minacce di Frexit, Nexit e una vasta gamma di populismi che battono sul tasto della sovranità nazionale? Come pensate di uscire dal concetto-gabbia di popolo in sé e di per sé?

È impossibile una risposta breve. Il sistema capitalista funziona basandosi sulle crisi. E ogni volta che ne arriva una – nel 1890, nel 1929, nel 1973 fino a quella di oggi – la gente si arrabbia. Ci sono state due grandi tradizioni politiche in Europa: quella liberale e quella democratica. La prima si basa sull’individualismo, la proprietà privata, la divisione del potere e il pluralismo, mentre la seconda sulla sovranità popolare e la giustizia. Queste due tradizioni si sono confrontate l’una con l’altra.
Però, durante il ventesimo e ventunesimo secolo, il liberalismo si è fatto democratico e la democrazia si è fatta liberale. Salvo nei momenti di crisi, dove il liberalismo si libera del “peso” democratico e soprattutto dei diritti sociali, perché è il modo attraverso il quale riesce a mantenere il profitto. Questo genera molta rabbia nei cittadini.
E in momenti come questo ci sono sempre quattro risposte invariabili: la prima è dire che non c’è alternativa; la seconda è cercare qualcuno dell’establishment che assuma una posizione contro l’establishment. È il populista di destra, colui che agita la bandiera del sistema per accaparrarsi voti ma che non può fornire soluzioni. È impossibile che Donald Trump possa risolvere i problemi dei poveri, perché è milionario proprio grazie ai poveri. La terza soluzione è una qualche forma di grande coalizione, große Koalition. E infine, la quarta, è un’uscita autoritaria.
Nell’ambito di queste quattro soluzioni – soprattutto nel populismo di destra e nella grande coalizione – si risconta la necessità di riuscire a convincere i cittadini con la menzogna. Siano bugie o, come si dice oggi, post-verità. E queste menzogne sono l’oppressione sociale esercitata attraverso l’uso del concetto di nazione e di religione. In questo modo, servendosi della nazione e della religione, si crea un nemico che non è responsabile dei problemi. Il nemico non sono mai i banchieri, o il sistema finanziario. Il problema sono sempre i migranti, i sindacati, la sinistra.
Il neurobiologo Antonio Damasio, rifacendosi a Spinoza, dice che l’unico modo di tenere a freno un’emozione è provare un’emozione uguale o superiore. E noi abbiamo un’emozione forte come l’utopia neoliberale, un’emozione che ha un immaginario straordinario: quello della nazione, della religione, della patria e soprattutto l’immaginario di poter convertire ogni nostro desiderio in diritti.

Come pensate di coniugare il vostro esperimento locale-nazionale con la dimensione internazionale e internazionalista, all’interno di una cornice teorica populista di sinistra?

Noi abbiamo un problema. Il metabolismo del capitale è globale, mentre il metabolismo dei diritti è locale. Il capitalismo funziona ampliando i mercati e i diritti devono tenere una base comunitaria. Qui c’è una contraddizione per la quale occorre trovare una soluzione.

Quindi voi non risolverete questa contraddizione…

L’unico modo di risolverla è costruire poco a poco un’immagine positiva dell’Europa. L’Europa si formò sulla base dell’esperienza fascista e contro l’Unione Sovietica.
La lotta contro il fascismo rafforzò l’Europa dello stato di diritto. Oggi la memoria del fascismo si è dissipata e non esiste più l’Unione Sovietica, e per questo abbiamo molte difficoltà nella costruzione di qualcosa che sia collettivo.

Come ricompattare e creare, a questo punto, un’identità collettiva europea? Vi sentite più vicini alle soluzioni proposte da Ernesto Laclau o all’idea di partecipazione sviluppata da Judith Butler?

L’Europa deve costruire un’idea di famiglia. Deve richiamare valori universali, e dev’essere un punto di riferimento, una barca nella quale ci si senta a proprio agio. Deve riempirti di orgoglio. E per questo deve essere un’idea di famiglia che poi si concretizza in cose diverse: in un sistema giuridico che funzioni, in fondi strutturali etc.

Dunque c’è bisogno di riferimenti comuni. Quali saranno i vostri?

Per costruirsi come un’idea di famiglia, l’Europa deve recuperare i propri nemici. L’Europa nacque col nemico fascista e con la minaccia sovietica.

Recuperare un’identità di sinistra?

No, non è di sinistra, perché quando c’è una crisi come questa la classe media e le fasce più popolari si mettono insieme. È importante: gli immaginari non sono più quelli classici. L’immaginario è più complesso, più ampio.
In Spagna è successo: negli anni Trenta, durante la Seconda repubblica, la classe media e i settori popolari si unirono sotto l’immaginario repubblicano. Alla morte di Franco, si unirono sotto l’immaginario democratico. E ora, col movimento degli indignados, torneranno a unirsi sotto un immaginario neo-post-liberista.

A chi vi rivolgete: alla classe operaia, al “popolo” o a chi altro ancora?

Alla gente, non solo alla classe operaia. Perché la classe operaia da sola non si sente classe operaia. Bisogna aver la capacità di farsi ascoltare.

Come?

Utilizzando gli stessi concetti, ma con parole diverse. Che è una delle grandi difficoltà che ha avuto la sinistra. La sinistra vuole sempre utilizzare le sue vecchie parole e così non fa innamorare nessuno.

Benoît Hamon in Francia propone il reddito universale di base, ma questa idea si scontra con la centralità del lavoro, ovvero uno dei pilastri della sinistra. Come interpretate questo passaggio?

È un problema di credibilità. Noi in Spagna possiamo dire le stesse cose che dice Hamon, ma la gente così non ci crede. Ci preoccupiamo di spiegare le cose di modo che la gente possa trarre le proprie conclusioni. Non bisogna continuare a ripetere a una persona “negro, negro, negro” finché questo non capisce di essere negro e in una posizione subalterna. Tu puoi dire che è insultante che nel ventunesimo secolo il differente colore della pelle sia un ostacolo per la dignità umana. Hai detto la stessa cosa, e ti capisce più gente.

Cambiare il linguaggio sì, ma com’è possibile riformare l’Europa senza cambiare i trattati vigenti?

Noi pensiamo che l’unico modo di cambiare l’Europa sia farlo attraverso i governi nazionali. Prima dobbiamo vincere in Spagna, e quando avremo la Spagna potremo aiutare a cambiare l’Europa. Perciò la lotta per l’Europa non può essere ai margini della lotta nazionale. Questo è un errore.

Pensate a un’Europa divisa tra stati del Sud e stati del Nord? L’Euro non è equo ora…

Dobbiamo essere europei, noi, poiché siamo spagnoli.

L’identità nazionale prima di tutto, dunque? Qual è il ponte verso l’Europa?

La politica nazionale è già politica europea. Nel momento in cui c’è un governo diverso, che inizia a mettere in discussione le direttive europee, le leggi europee, le riunioni dell’eurogruppo, la politica della Banca Centrale Europea, il patto di stabilità…
La struttura europea tratta con lo stato, e lo stato è quello che sta dall’altra parte del telefono. Se dall’altra parte c’è uno stato che dice “così no”, c’è un conflitto istituzionale. E questo conflitto istituzionale è ciò che mette le basi per pensare all’Europa in un modo diverso.
Tu costruisci un’identità europea, come costruisci un’identità latinoamericana con il World Social Forum, ma allo stesso tempo vinci i governi, e i governi di questa nuova sinistra, ovvero di una nuova forza politica emancipatrice, si identificano con questa idea di famiglia. Questa è la via. Non possiamo lasciare le nazioni alla destra, altrimenti siamo persi.

Chi sono i vostri alleati più vicini?

La gente preoccupata dell’emancipazione [della destra, ndr] in Francia. Facciamo un discorso europeo, con un esempio francese. Pensa se andasse al governo Marine Le Pen. La nazione non è necessariamente della destra. Non è vero.

Puntare politicamente sulla sovranità nazionale è cosa diversa. Non crede?

No, non necessariamente. Si può essere profondamente spagnoli e profondamente europei.
Si può essere profondamente spagnoli e convincere il proprio paese della necessità di dare fondi per politiche strutturali per i paesi più poveri d’Europa. Non è una contraddizione. La destra ne fa una contraddizione.
L’internazionalismo è inter-nazionalismo. Inter-nazionalismo. Senza nazioni non c’è l’internazionalismo.

Il concetto di nazione è esclusivo, a Suo modo di vedere?

La nazione rappresenta appartenenza, non esclusione. La destra costruisce la nazione cercando nemici esterni e interni, la sinistra non ne ha bisogno. Sono concetti differenti di nazione. Nel mio concetto della nazione ricadono anche i migranti. La Spagna è stato un paese di migrazioni e non c’è alcuna contraddizione.
DiEM25, leggi anche:
  • Varoufakis il disobbediente: l’intervista
  • Salviamo il capitalismo o la democrazia muore
  • La versione di Yanis
Spagna sotto la lente, leggi anche:
  • Unità e umiltà: diario da Madrid
  • Podemos a congresso
  • A che punto è la Spagna?
  • Il fracaso socialista

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