Decodificare il presente, raccontare il futuro

PROFILI


mar 10 gennaio 2017

CONVERSAZIONE CON ZYGMUNT BAUMAN

Il pensatore polacco ci ha spinti a guardare in faccia il capitalismo che - scriveva - «è in sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato di cui nutrirsi». Ci ha costretti a scrutare tra le pieghe della globalizzazione, delle politiche neoliberiste, della polverizzazione del tessuto sociale, delle nostre «vite di scarto». Ci ha insegnato che «paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo». Ci ha invitato a rifuggire gli slogan. Ad aprile scorso, Bauman ha concesso a "i Diavoli" l'intervista che vi riproponiamo qui sotto in sua memoria. Ci ha avvertiti: «La rivoluzione culturale è un'impresa a lungo termine».

È morto a 91 anni Zygmunt Bauman, testimone della nostra contemporaneità, interprete del nostro tempo, teorico della modernità «liquida», discontinua, a tratti inconsistente.
Ebreo polacco, nato a Poznan nel 1925, è scappato a soli quattordici anni nell’allora Unione sovietica, a causa dell’invasione nazista della Polonia.
Studioso del marxismo, comunista e poi “anticomunista”, Bauman ha trascorso una vita da eterno straniero: in Inghilterra, in Israele, in Polonia stessa. «Sono nato straniero e morirò straniero», aveva detto di recente.
Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds, nei suoi scritti ha raccontato «l’inferno e l’utopia del mondo liquido».
Ci ha esposti ai rischi delle disintermediazioni nell’era di Internet, alle insidie della nostra società, signora delle disuguaglianze, dove il consumo sembra ormai essere praticamente sovrano.
Ci ha portati a navigare i meccanismi della società di consumatori, dove le identità si smarriscono.
Ci ha spinti a guardare in faccia il capitalismo che – scriveva – «è in sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato di cui nutrirsi».
Ci ha costretti a scrutare tra le pieghe della globalizzazione, delle politiche neoliberiste, della polverizzazione del tessuto sociale, delle nostre «vite di scarto».
Ci ha insegnato che «paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo».
Ci ha invitato a rifuggire gli slogan.

Ad aprile scorso, Bauman ha concesso a i Diavolil’intervista che vi riproponiamo qui sotto.

Era appena uscito «Culture in a Liquid Modern World» (in italiano «Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi»).
Durante quella conversazione con i Diavoli, ha esplorato la paura del progresso e le prospettive dei Millennials, ha riflettuto sul futuro del lavoro con i robot e su quello delle disparità sociali dei nostri giorni, tra le miopi strategie di trincea contro i migranti.
Ci ha avvertiti: «La rivoluzione culturale è un’impresa a lungo termine».
Nella sua analisi dell’industria culturale, non si occupa specificamente del settore dei media. Questo ambito rientra nell’indagine generale o occupa un posto a parte? Secondo Lei l’infobesità è un antidoto al malessere che attraversa il mondo dell’informazione o una causa della sua crisi?
Ne “La moltiplicazione dei media”, uno dei saggi presenti nel libro “Il costume di casa”, Umberto Eco sottolinea: «Cosa siano la radio e la televisione oggi, lo sappiamo – una pluralità incontrollabile di messaggi che ogni individuo utilizza per costruire la propria scelta dei programmi attraverso l’uso del telecomando».
Ma «che cosa è un mezzo di comunicazione di massa nel mondo di oggi? Un programma televisivo» – anche quello, sicuramente – ma «dove si trova questo mezzo di comunicazione»?
«È l’inserzione di un quotidiano, è la trasmissione televisiva, è la maglietta Polo» (stampata o ricamata con il logo dei produttori)? Qui abbiamo non uno ma due, tre, forse più mass-media, che agiscono attraverso canali diversi. E a questo punto è lecito domandarsi chi è che invia il messaggio? Non c’è più un’Autorità, ma tutto avviene da sé (e come è consolante tutto questo!).
Il “potere” originante risulta elusivo, sfuggente, e non c’è più nessuno che possa parlare di un “progetto” che viene da un “progetto” (un piano sicuramente esiste, «ma non è più intenzionale e quindi non può essere oggetto di una critica condotta con una analisi e un giudizio tradizionali»).
Eco ha scritto il saggio citato nel 1983 e non c’è da stupirsi che la radio e la televisione figurino ancora come le cause principali del dramma della comunicazione di massa. Se l’autore fosse vissuto fino a poter aggiornare il saggio per adattarlo al wi-fi, ad internet, al formato tascabile e ai computer touch-screen, propri dell’era digitale, avrebbe sicuramente molte più domande da porre e tanti più problemi a cui rispondere in modo inequivocabile.
Una volta si sperava che l’informazione fosse in grado di mappare il mondo in maniera leggibile, attrezzando le strade con cartelli stradali che agli incroci fossero in grado di rimanere fermi e resistenti al vento. Il suo principale investimento si fonda invece ora sul rendere le indicazioni perfettamente mobili, poggiate su ruote ben lubrificate, che possano essere facilmente spinte e fatte scivolare con il semplice tocco di un dito sul tasto “delete” di un monitor di facile utilizzo. Una struttura particolarmente accogliente, sempre più spesso utilizzata dagli internauti in cerca di una “comfort zone” all’interno di quel mondo esasperante, ancora irrimediabilmente turbolento, notoriamente caotico e confuso. Con tali elementi di facilità inclusi in ogni personal computer, scomporre i messaggi dalla confusione multicanale diviene per i proprietari facile tanto quanto comporli – anche se in entrambi i casi è ugualmente rischioso e valido solo “fino a ulteriore notifica”.
In un mondo dotato di un simile equipaggiamento per la mappatura, i navigatori satellitari devono essere aggiornati sempre più spesso mentre il rischio per la maggior parte degli autisti è di trovarli comunque grossolanamente sorpassati e di finire fuori strada.
L’INDUSTRIA LIQUIDA
Nel secondo capitolo del libro scrive che «Il mercato consumistico è riuscito ad assoggettare la cultura alla logica della moda», affrontando la questione dal punto di vista del pubblico/consumatore, famelico e insaziabile al tempo stesso. Ma il punto è anche un altro: al fast fashion, o alla cultura low cost, è legato un costo enorme in termini umani, sociali, di condizioni di lavoro e di salute. Alla luce del vero costo dell’industria liquida, quanto è economicamente e socialmente sostenibile questo modello di produzione sul lungo periodo?
La sostenibilità è appunto la questione cruciale (benché solo una fra le tante) posta in bilico sul nostro attuale modo di intendere la vita: guidata dalla moda e condotta da un’economia di mercato incentrata sul consumo.
Sono d’accordo: “nel lungo periodo” (comunque si voglia misurare questa lunghezza) la modalità consumistica della vita NON è sostenibile: il pianeta, e la sua capacità di sostenere la vita, non sopravviverà a lungo. Secondo alcune stime, se il resto del mondo innalzasse i propri livelli di consumo fino a raggiungere quelli degli Stati Uniti o della Svezia, sarebbero necessari altri quattro pianeti per soddisfare la domanda. Dove cercarli, come raggiungerli?
Grida di allarme si levano sempre più spesso, la consapevolezza di un’essenziale incommensurabilità tra la capacità del pianeta e la rapacità della nostra economia fatta di eccessi e rifiuti, sta dilagando. Sempre più politici sentono la pressione di fare qualcosa per prevenire o almeno rinviare la catastrofe – ma non molto nel nostro modo di vivere è cambiato finora.
Io credo che la responsabilità di ciò che sta rendendo inefficaci i nostri sforzi per fermare il marciume risieda in due presupposti che determinano il nostro modo di pensare e agire. Prima ipotesi: che l’unica risposta adeguata perché vengano affrontati tutti i problemi sociali sia un ulteriore incremento del Pil invece che un ri-pensamento e una ri-forma del modo in cui questo prodotto viene distribuito e utilizzato; e la seconda ipotesi: che tutte le strade che conducono alla felicità e all’appagamento passino per i negozi e lo shopping, attraverso l’acquisto di nuovi beni e la dissoluzione dei vecchi. Entrambe queste ipotesi sono palesemente false; rifiutarle, però, richiederebbe niente meno che una rivoluzione culturale.
La rivoluzione culturale è un’impresa a lungo termine, l’impresa più importante. E infatti la grande questione “di vita o di morte” del nostro tempo consiste nell’identificare quale dei due intervalli – quello della sostenibilità del pianeta e quello di rivedere il nostro modo di vivere – durerà più a lungo.
IL PROGRESSO E I “MILLENNIALS”
Affronta la cosiddetta “pratica del disimpegno” in relazione al multiculturalismo. Potrebbe trattarsi oltre che di una emulazione della componente economica dell’élite globale di una mutuazione dalla geopolitica internazionale in cui, a fronte di tanti disequilibri, nessuna potenza può più dirsi dominante sulle altre e le tendenze isolazionistiche diventano sempre più forti?
Attualmente viviamo nell’ombra di ciò che potremmo definire “una resurrezione della mentalità tribale”.
Questa tendenza deriva da una risposta pubblica più o meno spontanea, anche se le trasformazioni incoerenti delle condizioni esistenziali che tra loro contribuiscono a rendere il presente non meno “paese straniero” del passato, sono state nella nostra rapida evoluzione notoriamente sorprendenti e ostinate, prendendo ripetutamente alla sprovvista il mondo moderno. Avendo il “paese straniero” cessato di essere una qualità esclusiva del passato, il risultato è che il confine che separa il passato dal presente appare progressivamente sbiadito e che tutti i punti di frontiera sono stati sgomberati. Il futuro, naturalmente, è anche esso un paese straniero – anche se si può notare tra i nostri contemporanei un interesse a confinare noi stessi più rigorosamente e in maniera impermeabile nel futuro anziché nel passato: il numero di turisti che attendono di visitare ed esplorare quel particolare paese estero che raccoglie in sé la peculiarità del futuro, sta diminuendo velocemente e ormai si limita al più ottimista e avventuroso (secondo alcuni il più scherzoso e felice) tra noi.
Il numero di persone che si affrettavano a viaggiare  con la speranza di trovare nel futuro più esperienze piacevoli di quante avute nel presente, sembra sia diminuito ancora più velocemente. I nostri film e romanzi di fantascienza sono sempre più spesso archiviati nei cataloghi alla sezione film horror e letteratura gotica.
Dopo aver perso la fiducia nella nostra capacità collettiva di mitigare i suoi eccessi, rendendoli meno spaventosi e repellenti, in questi giorni tendiamo ad avere paura del futuro più che a prepararci ad accoglierlo. Quello che ancora, per inerzia, chiamiamo “progresso”, evoca al giorno d’oggi emozioni opposte a quelle che aveva lo scopo di suscitare Kant, che ha coniato il concetto: il più delle volte significa paura di una imminente catastrofe e non gioia di guardare ad un maggiore benessere, e il disagio più preoccupante riguarda l’eventualità di morire ed essere gettati nel dimenticatoio. La prima cosa che balza alla mente quando viene menzionato il “progresso” è la prospettiva che sempre più posti di lavoro per gli esseri umani siano destinati a scomparire per essere sostituiti da computer e robot; come se si trattasse dell’ennesima collina ripida da oltrepassare nel corso di una battaglia per la sopravvivenza che ha necessariamente bisogno di essere combattuta.
Secondo quasi tutte le ricerche disponibili, i “Millennials” (i giovani che si affacciano al mondo del lavoro e affrontano le sfide dell’autosufficienza adulta unite all’incertezza endemica nella ricerca di una posizione sociale decente, soddisfacente, gratificante e riconosciuta) sono la prima generazione dal dopoguerra a esprimere il timore di perdere la posizione sociale raggiunta dai loro genitori invece di migliorarla.
La maggior parte dei Millennials si aspetta che il futuro porti un peggioramento delle loro condizioni di vita, invece di aprire la strada a ulteriori miglioramenti, così come accaduto ai loro padri, che gli hanno insegnato a esigere e lavorare in questa direzione. Una tale visione di un “progresso” vissuto come inarrestabile fa presagire la minaccia di una perdita, invece di auspicare nuove conquiste; ed esso ora viene associato più ad una dislocazione sociale e ad una degradazione delle proprie condizioni, che alla possibilità di un avanzamento e di una evoluzione.
Come David Lowenthal ha sottolineato in uno dei suoi studi, “se le speranze nel progresso svaniscono, l’eredità ci consola con la tradizione”. Rivolgiamo i nostri sguardi indietro, a veri e propri o (più spesso) supposti passati, caratterizzati dalla calda protezione offerta dalla comunità di appartenenza e da tribù che combattono l’un l’altra per una quota in più della ricchezza mondiale. In conclusione del suo monumentale e multiforme studio, Lowenthal suggerisce che «la rivalità miope è… endemica alla natura stessa dell’eredità. Insistere sul siamo stati i primi o i migliori, per celebrare quello che è nostro e esclude gli altri, è tutto ciò su cui il concetto di eredità si erge».
«Un patrimonio si fonda su un orgoglio e un proposito collettivo, ma così facendo sollecita distinzioni tra buoni (noi) e cattivi (loro). La fede nel patrimonio, i patrimoni privilegiati e la retorica dell’eredità, infiammano le ostilità, in particolare quando il nostro unico patrimonio sembra essere a rischio. La miopia trincerata, fomenta i conflitti; l’ignoranza inibisce la reciprocità. Infatuati dei beni ricevuti in eredità, ciechi di fronte a quelli degli altri, non solo evitiamo il confronto ma rinunciamo ai suoi benefici».
UN MECENATE COLLETTIVO
In chiusura del suo saggio descrive come urgente la necessità che la creatività culturale venga sovvenzionata dallo Stato. Al di là dell’auspicio, ha in mente una o più nazioni che allo stato attuale potrebbero avere le carte in regola e/o la volontà di attuare una politica di questo tipo?
Un antico proverbio dice: inter arma tacent musae – “in tempo di guerra le muse tacciono”.
Questo non è del tutto vero, basti pensare che le più grandi creazioni nella storia culturale sono state concepite in tempi bui, di una crudeltà disumana; ma i governi, concentrandosi sulla promozione e la pratica della discordia tribale – ovvero sulla concorrenza spietata e sulle ostilità di tipo tribale invece che sulla cooperazione internazionale che potrebbe ingrandire il tesoro condiviso delle conquiste culturali – è improbabile prestino molta attenzione alle arti e abbiano cura di “sponsorizzare la creatività culturale” degli artisti (ad eccezione delle sollecitazioni rivolte ai loro servizi di propaganda).
E’ piuttosto il mercato consumistico che assume il ruolo di un mecenate collettivo – comunque con conseguenze non particolarmente piacevoli, che ho cercato di elencare nel libro cui si fa riferimento.
Nel distribuire la loro benevolenza, i mercati tendono a guidare se stessi primariamente in base a dei criteri (come ad esempio il valore dell’intrattenimento o la redditività), troppo spesso alieni allo spirito della creazione culturale di alta qualità.
LE DISUGUAGLIANZE E LE MIGRAZIONI DI MASSA
A proposito di diseguaglianze, lei riporta la critica di Rorty a quella “sinistra” americana che le considera un aspetto della diversità culturale e in quanto tali meritevoli di rispetto. In realtà anche gli economisti più “tradizionalisti” iniziano a pensare che la redistribuzione del reddito rifletta l’influenza politica delle èlite e non gli imperativi economici. Cosa potrebbe succedere se si scoprisse che la disuguaglianza complessiva non è economicamente efficiente? Su un articolo comparso di recente su American Prospect di legge che «le prove in questo senso si stanno accumulando e sono ormai difficili da ignorare».
La recente disuguaglianza ha molte dimensioni  – mi permetto di selezionarne una che più di recente e più vividamente ha portato alla nostra attenzione l’enorme ingiustizia e ineguaglianza della nostra convivenza planetaria: le masse di senzatetto che bussano alle nostre case, apparentemente sicure e ben fornite.
La migrazione di massa ha accompagnato l’era moderna fin dal suo inizio (anche se cambia le sue direzioni, e di tanto in tanto fa retromarcia); lo “stile di vita moderno” include la produzione di “persone in esubero” (localmente “inutili” – perché in eccesso e non impiegabili lavorativamente a causa del progresso economico – o localmente intollerabili – perché respinte dai disordini, dai conflitti e dalle lotte per il potere causate da trasformazioni socio politiche), come se si trattasse di un “fenomeno strutturale”. A monte di ciò, tuttavia, sosteniamo attualmente le conseguenze della destabilizzazione profonda e apparentemente senza prospettive dell’area medio orientale frutto di calcoli sbagliati, stupidamente miopi e certamente fallimentari, effetto delle iniziative politiche e militari delle potenze Occidentali. E’ stato annunciato ufficialmente che «le statistiche aggiornate ad oggi rivelano che almeno 1,001,910 di richiedenti avevano cercato protezione internazionale nei 28 stati membri nel 2015. Secondo gli ultimi dati sulla crisi internazionale di rifugiati di quest’anno – una crisi senza precedenti – il numero dei richiedenti asilo e di familiari registrati ai confini è già superiore del 60% rispetto al 2014. Si tratta del conteggio di gran lunga più alto dall’inizio delle rilevazioni comparabili, nel 2008». In un piccolo libro intitolato “Strangers at our door” (Stranieri alla nostra porta) che sarà pubblicato da Polity Books a maggio, ho scritto che «per come le cose stanno oggi – e promettono di rimanerci per lungo tempo ancora – è improbabile che la migrazione di massa si fermi da sola – né per la mancanza di spinte né per l’ingegnosità crescente impiegata nel tentativo di fermarla». Come Robert Winder ha argutamente osservato nella prefazione alla seconda edizione del suo libro, «possiamo sistemare la nostra sedia in spiaggia quante volte ci pare e piace, e piangere all’arrivo delle onde, ma la marea non ci ascolterà, il mare non tornerà indietro. Innalzare muri al fine di impedire che l’angoscia per l’imminente tragedia entri nel cortile di casa nostra, trova un’eminente rappresentazione nella storia del vecchio filosofo Diogene che rotolava all’interno di un barile su e giù per le strade della sua città natale, Sinope. Interrogato a proposito del suo strano atteggiamento, rispondeva che vedendo i suoi vicini impegnati a barricare le loro porte e affilare le loro spade, anche lui aveva voluto fare qualcosa per difendere la città dall’essere conquistata dalle truppe macedoni di Alessandro». «Ciò che è accaduto in questi ultimi anni, è un enorme balzo in avanti del contributo di rifugiati e richiedenti asilo sul numero totale di migranti che bussano alle porte dell’Europa. Quel salto è stato spinto dal numero crescente di “caduti”, o preferibilmente di Stati caduti, o apolidi, provenienti da territori illegittimi, palcoscenico di interminabili guerre tribali e settarie, omicidi di massa e banditismo quotidiano.
In larga misura questo è un effetto collaterale delle spedizioni militari sottovalutate, funeste e disastrose in Afghanistan e Iraq, conclusesi con la sostituzione di regimi dittatoriali in un teatro di sregolatezza e frenesia di violenza aiutato e spalleggiato dal commercio di armi globale, scatenato dalla sete di controllo e rinforzato dall’industria degli armamenti con un tacito assenso (anche se troppo spesso orgogliosamente esibito in pubblico durante le fiere internazionali di armi). Il flusso dei rifugiati – fuggiaschi spinti ad abbandonare le proprie case e i loro beni più cari dalle regole imposte dalla violenza arbitraria, persone in cerca di un riparo dai campi di sterminio – ha drammatizzato e acceso i riflettori sullo sfogo dei cosiddetti “migranti economici”, spinti dal fin troppo umano desiderio di passare dal terreno arido al punto in cui l’erba diventa verde – da perseguitati in terre povere e senza prospettive a quelle ricche di opportunità.
A proposito di quel flusso costante di persone in cerca di uno standard decente di vita (un flusso costante dagli inizi dell’umanità, accelerato solo dalla moderna industria della ridondanza di persone e di vite sprecate), Paul Collier ha detto quanto segue:
«Il primo fatto è che il divario di reddito tra i paesi poveri e quelli ricchi è grottescamente ampio e il processo di crescita globale lo lascerà ampio ancora per diversi decenni. La seconda è che la migrazione non ridurrà significativamente questo gap perché i meccanismi di risposta sono troppo deboli. La terza è che giacché la migrazione continuerà, le diaspore continueranno ad accumularsi per alcune decadi. Così il divario tra redditi persisterà, mentre gli agenti catalizzatori delle migrazioni dilagheranno. L’implicazione è che la migrazione dai paesi poveri a quelli ricchi è destinata ad accelerare. Per il prossimo futuro, la migrazione internazionale non raggiungerà l’equilibrio: stiamo osservando l’inizio di uno squilibrio di proporzioni epiche».
Tra il 1960 e il 2000 – come Collier calcola avendo a disposizione solo le statistiche disponibili, fino al 2000 appunto – «ciò che è decollato, da meno di 20 milioni a oltre 60 milioni, è stata la migrazione dai paesi poveri a quelli ricchi. Inoltre, l’incremento è accelerato di decennio in decennio (…) E’ presumibile ritenere che dal 2000 in poi questa accelerazione sia proseguita».
Abbandonate esclusivamente alle proprie logiche e ai propri impulsi, possiamo dire che le popolazioni dei paesi poveri e di quelli ricchi si comporterebbero come il liquido in vasi comunicanti. Il numero degli immigrati non raggiungerà l’equilibrio fino a quando queste persone non avranno raggiunto un certo livello di benessere. E tale risultato necessiterà, con ogni probabilità, di molti decenni per essere raggiunto – salvo i giri imprevisti del destino storico.

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