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TREDICESIMO-PIANO


ven 11 dicembre 2015

SYMPATHY FOR THE DEVIL

Intervista esclusiva a Derek Morgan, il signore della Finanza

WASHINGTON, 11 DICEMBRE 2015 – La notorietà di Derek William Morgan nella comunità finanziaria internazionale è pari solo all’assoluto riserbo con cui per più di due decenni è riuscito a non far parlare di sé. Cinquantatré anni, laureato a Berkeley, un PHD al Massachusetts Institute of Technology, DWM sbarca a Londra all’inizio dei Novanta, in tempo per cavalcare l’onda più alta della New Economy. Dieci anni dopo è a capo del desk fixed income – settore governativi, area “Europa” – della J*** Bank, incarico che ha ricoperto fino al 2011 quando è rientrato a New York dove attualmente detiene un ruolo di primo piano nel board centrale del colosso bancario. Impermeabile ai riti dei salotti glam di Manhattan, conduce una vita riservata dividendosi tra il suo appartamento nell’Upper East Side, vista su Central Park, e le montagne del Maine. Alcune fonti confidenziali lo dipingono come un influencer dalle entrature che contano presso la Federal Reserve e il Tesoro a Washington, un abile tessitore capace di esercitare il proprio ascendente ben oltre le mura dell’ufficio spartano al diciottesimo piano di Murray Street, in cui l’abbiamo incontrato per un’intervista esclusiva. Nell’ambiente asettico, solo una concessione alla frivolezza: una litografia numerata della Cascata di Maurits Cornelis Escher.
Mister Morgan, dopo il grande crack del 2007 e il terremoto che ha fatto vacillare i bilanci pubblici dell’area euro, cos’è – oggi – la finanza?
Cominciamo col dire cosa non è più: ovvero, una sovrastruttura derivata dai rapporti di produzione. Oggi, la finanza è – a tutti gli effetti – la struttura stessa del paradigma produttivo. Il risparmio globale è il cuore dell’attuale modello di accumulazione. Grandi capitali allocati in fondi sovrani e non, alcuni dei quali accumulati off shore dalle platform companies, detengono la proprietà di aziende, di rilevanti quote dei debiti sovrani, di brevetti tecnologici o farmaceutici; questi fondi controllano il risparmio privato e tendono a sostituirsi al welfare. Soprattutto in Europa, formazione, trasporti, pensioni non sono più ambiti della vita tutelati dalla titolarità di diritti, bensì sono diventati un terreno di estrazione di valore. Oggi, la ricchezza delle nazioni è in mano ai fondi. La finanza è questo: un gigantesco dispositivo – autogeneratosi – di controllo capillare e sussunzione pervasiva. Ora i risparmi gestiti seguono strade tracciate, percorsi indicati dalle agenzie di rating e sanciti dagli schemi del benchmarking. È evidente come in un simile quadro stia sfumando la centralità delle banche d’affari. Da più parti si parla una “lingua di legno”, inutile a comprendere le profonde trasformazioni dei mercati finanziari. Il principio del “Too big to fail”, con cui l’amministrazione repubblicana uscì dal credit crunch, è superato. Come superata è una certa retorica militante: la propaganda contro le grandi banche. Attualmente le banche d’affari svolgono una funzione d’intermediazione del rischio ma hanno perso la centralità che detenevano fino alla fine dello scorso decennio. Per non parlare del pubblico come gestore del risparmio privato che ha fallito il suo compito. Mi riferisco a soggetti molto aggressivi, non più legati ai territori. E davanti a una simile realtà, le filiali delle banche ricordano i Blockbuster degli anni Novanta: reperti archeologici di un’epoca passata.
Lei è nel board di una delle più importanti banche d’affari americane. In base a quello che ha appena detto dobbiamo considerarla un dinosauro in via d’estinzione?
​Le banche stanno disinvestendo dalle attività tradizionali per investire nel risparmio gestito. Wall Street si sta trasformando, questa banca si sta trasformando, anch’io mi sto trasformando. Le mutazioni che vedete dispiegarsi in questa fase, noi le stiamo osservando – e governando – da anni.
Come giudica le politiche monetarie espansive ispirate dalle banche centrali – a partire dagli anni Zero – in America, Giappone ed Europa?  
La politica monetaria globale va considerata come il più raffinato strumento di riequilibrio delle crisi e, al tempo stesso, come architrave di un ordine sociale pacificato. La moneta non è più un’astrazione, bensì uno strumento di controllo, garanzia di precisi assetti. Le parole Fiat money, cardine dei diversi Quantitative easing che hanno segnato la più recente stagione finanziaria, costituiscono la formula magica che ci mette al riparo dagli effetti più acuti, e indesiderati, dei cicli economici. E ci consente di distinguere tra Paesi virtuosi e Stati non “allineati”. Il Fiat money, infatti, funziona solo per Paesi credibili, ma la credibilità non è un algoritmo neutro. La credibilità è un algoritmo che ci appartiene.
Descrive dei congegni capaci di produrre effetti dichiaratamente politici. È lecito chiedersi cosa rimanga a questo punto della democrazia.
Sempre e solo… la democrazia.
Assomiglia tanto a un gioco di parole.
Invece si tratta di semplice buonsenso. La democrazia è sempre la stessa, a cambiare sono i dispositivi di controllo, ma senza quei dispositivi la democrazia diventerebbe anarchia.
Auspica una svolta alle prossime presidenziali?
No, sono un sostenitore della stabilità, non amo le cesure e i repentini cambi di fase, e per questo non posso stare se non con i democratici, nella cui vittoria confido. Hillary Clinton è una solida garanzia di continuità. Alle primarie repubblicane, invece, c’è da augurarsi una vittoria di Mr. Trump. Produrrebbe un vero e proprio Qe elettorale. Gli americani verrebbero inondati di liquidità e voterebbero Hillary. Vede, le questioni ideologiche mi interessano pochissimo, ma di certo non posso contemplare una netta rottura del quadro. Oggi, Trump e i repubblicani rappresentano proprio quello: uno iato improponibile. Un tempo, la politica era considerata una sovrastruttura dei mezzi di produzione. Questa lettura vale ancora. Sono certo che la prossima amministrazione saprà valorizzare i settori più dinamici e attivi della nostra economia, senza cedere a nostalgie o all’influenza del comparto militare-industriale e della oil industry.
Lei, però, viene da una delle più importanti famiglie repubblicane della east coast.  
Ciò non toglie che, in questo momento, la continuità sia rappresentata dai democratici. I repubblicani intercettano gli umori dell’America più profonda, e questo tipo di consenso non li rende i migliori candidati alla Casa Bianca. I “dem”, al contrario, rappresentano il punto più avanzato dello sviluppo, amministrando i dispositivi più raffinati del controllo e della circolazione dei capitali. Le amministrazioni repubblicane servono quando le sinistre sono forti, e non è questa la fase. Probabilmente, oggi, la stessa dialettica destra-sinistra non ha più ragion d’essere o va articolandosi in altre forme.
Come interpreta l’attuale fase politica a livello internazionale? La situazione in Medioriente e nell’area mesopotamica, la guerra al sedicente stato islamico e il terrorismo internazionale sembrano compromettere la stabilità degli equilibri geo-politici. Mai come adesso l’egemonia americana è a rischio, non crede?  
Seguo con grande interesse le vicende russe. La chiave di un nuovo scenario globale è a Mosca, perché la Federazione russa potrebbe rappresentare la cerniera di un blocco continentale euro-asiatico compreso tra Lisbona e Pechino. Anche se sono certo che l’Unione europea saprà conservare una rigorosa autonomia e resistere alle sirene di Paesi sulla cui effettiva tenuta democratica è lecito nutrire dubbi. In questa prospettiva, il progetto del South Stream [il gasdotto che avrebbe dovuto collegare direttamente Russia e UE, ndr] costituiva un avvicinamento pericoloso per l’egemonia americana e gli equilibri planetari. Tuttavia, i fatti ucraini hanno dimostrato come la cautela nelle relazioni con la Federazione russa sia un atteggiamento irrinunciabile. Si parla tanto di Siria, Medioriente, penisola arabica, Islam, mondo arabo. Eppure, continuo a pensare che il tassello cruciale del mosaico internazionale sia proprio la Russia. In ballo c’è la centralità stessa del dollaro come valuta globale.
Ha parlato di Europa. Come giudica la situazione dell’Unione anche alla luce dei fatti di venerdì 13 novembre a Parigi e dei risultati al primo turno delle amministrative in Francia?  
Da tempo considero il processo che ha portato all’unificazione europea e la fase immediatamente successiva occasioni perse. La moneta unica ha paradossalmente aumentato divisioni e ostilità senza rendere l’Europa davvero competitiva a livello globale. In questo, l’Unione difetta di una volontà coesa, condizione irrinunciabile per promuovere un vero sviluppo. Le sembrerà strano, ma mi preoccupa più questa condizione di generale debolezza che l’attuale congiuntura politica. Il successo del Front National al primo turno delle amministrative non è pericoloso in quanto premessa di nuove vittorie. L’arco delle forze repubblicane saprà resistere alla spallata, ma alcuni effetti si produrranno senza dubbio. Sarà l’intero sistema politico a spostarsi verso posizioni più conservatrici, impostate su opzioni di riterritorializzazione regressiva. L’ultra-centrismo, o “estremismo di centro” come lo chiamano alcuni pensatori critici, questo piano inclinato su cui sfumano differenze e molteplicità di orientamenti all’insegna della governabilità, sta subendo uno spostamento dettato dalla paura. La sicurezza è il mantra recitato praticamente da tutto l’arco costituzionale francese e continentale. L’unica spesa pubblica che avrà diritto di cittadinanza, in Europa, sarà orientata verso la sicurezza. Per il resto non vedo un’uscita dalla fase di austerity. Gli europei continuano a guardare a Berlino invece di seguire la strada che abbiamo tracciato noi americani per uscire dallo stallo della crisi. Il neo-mercantilismo tedesco, però, rappresenta un vicolo cieco. Questo è un caso in cui una cesura della continuità politica, gestita con consapevolezza, sarebbe auspicabile. Invece non si vedono alternative. Le destre sovraniste del vecchio continente non sono una risposta, mentre le sinistre sono eterogenee, inglobate nelle fitte maglie delle politiche governative, e troppo fragili per incidere.
Ritiene che, dopo il Qe della BCE e la conclusione della questione greca, la situazione dei debiti sovrani europei sia tornata sotto controllo? 
Assolutamente no. Credo l’esatto contrario. Il problema dei debiti sovrani in rapporto al prodotto interno lordo dei diversi Paesi sta diventando enorme tanto che nessuno ne vuole più parlare. Così la questione esce perfino dal novero delle priorità. Se adesso la situazione sembra congelata, se alcune politiche monetarie hanno contribuito a disinnescare la miscela esplosiva, prima o poi bisognerà affrontare in termini radicali il problema e sciogliere il nodo. Anzi, reciderlo. Quando quel momento arriverà, non sarà possibile prescindere da decisioni simultanee che riguardino USA, Europa e Giappone.  Immagino – o forse vagheggio e sogno – un giorno in cui le banche centrali annulleranno il debito acquistato con il Qe. L’aumento netto dell’inflazione e la conseguente svalutazione delle monete potrebbero non essere così devastanti come si immagina. Oggi le spinte deflattive sono tali e il costo delle materie prime così basso che si potrebbe davvero ipotizzare un parziale annullamento dei debiti acquistati dalle Banche Centrali. A quel punto l’austerity imposta agli Stati non avrebbe più senso e forse quella depressiva applicata sino ad ora troverebbe una sua utilità finale. In virtù del suo andamento demografico e della sua ownership, il Giappone potrebbe essere il primo Paese a muoversi in questa direzione.
Ha insistito molto su concetti come controllo, continuità o stabilità, e ha perfino indicato l’urgenza – soprattutto in Europa – di un cambio di passo ma sempre nell’ottica di un progetto complessivo di ordine mondiale. Sembra ossessionato dalla capacità di ricomprendere tutte le variabili… 
Guardi fuori da quella vetrata. Vedrà solo cantieri, centinaia di cantieri. Qualcuno ha scritto che «l’architettura è la religione di Manhattan». È così. Ma queste parole nascondo una verità più importante: il movimento controllato è la vera religione. Non fermarsi mai, continuare a muoversi, creare sogni, indicare opportunità e frontiere inesplorate… L’Europa è statica. Il cuore degli Stati Uniti non batte qui a New York, e nemmeno a Washington o a L.A. L’essenza degli States è Las Vegas. Ciò che per gli europei è kitsch, per noi rappresenta “la grande locomotiva culturale proletaria”, miriadi di cantieri incarnano la crescita e il controllo, la crescita controllata. Se si fermassero, sarebbe il disastro.
Il suo progetto considera anche un’alternativa al disastro ambientale che sta travolgendo la Terra? I ghiacciai si sciolgono, il livello degli oceani cresce, l’emissione di CO2 sono inarrestabili. Non si sente responsabile di un’apocalisse che può annientare milioni di persone?    
In Cina aspettano che si alzi il vento e diradi lo smog. Solo così è possibile riaprire i cantieri. Ecco, questo è il caso di una sconfitta subita dall’uomo. Dipendono ancora dalla natura e dal clima, come cento anni fa, come un contadino costretto a guardare il cielo, costretto a confidare nella pioggia in caso di siccità o a pregare che una grandinata improvvisa non distrugga un raccolto. E allora a cos’è servito il progresso se l’uomo guarda ancora il cielo e teme il volgere del vento? I rischi sono reali, buona parte del pianeta è fuori controllo, il modello produttivo cinese è insostenibile. Non nego questa realtà. Tuttavia, sono certo che l’unica soluzione sia interna al sistema e all’ordine presente di cose. Gli effetti negativi della globalizzazione devono essere neutralizzati dallo stesso sistema globale. Produciamo le scorie, ma siamo anche il setaccio. Una risposta di netta rottura porterebbe all’anarchia ecologica, e mi creda se le dico che a quel punto il problema diventerebbe irrisolvibile. Di certo possiamo rilevare come il clima – oggi – sia un elemento cruciale delle dinamiche geopolitiche. Basti pensare alla desertificazione e alle grandi siccità che alimentano i flussi migratori e a come questi ultimi sollevino, ad esempio in Europa, interrogativi pesanti sulla sfera stessa della cittadinanza.
Sempre ragionando sull’azione dell’uomo nella Storia, mi viene in mente un passaggio di Guerra e pace. Tolstoj scrive: «L’individuo che svolge un ruolo all’interno di un evento storico non ne comprende mai il significato». Lei si sente un’eccezione? E guardando al futuro, non teme niente?
Cita uno scrittore russo per chiedermi del futuro, mi lasci dire del passato citando uno scrittore americano. William Faulkner sosteneva che «il passato non passa mai, è solo una parte o dimensione del presente». Credo che il nostro passato, quello che non passa mai, sia il 1929. A volte mi sorprendo a immaginare il caos, i sucidi, la disperazione, la fine dei sogni, la cruda disillusione, la perdita totale del controllo. Ne uscimmo, però. Prima con Keynes, poi con la seconda guerra mondiale. E se ci pensa, facciamo così da allora. A ogni crisi rispondiamo allo stesso modo. Ci entriamo seguendo impostazioni liberiste tout court, ad esempio la scuola di Chicago, e ne usciamo sempre con un qualche keynesismo. Magari in versione rivista, ma non fa differenza. La formula, in fondo, è sempre la stessa: inondare di liquidità il sistema interno e cercare nuovi mercati da conquistare… anche con le armi, gestire le nostre eccedenze e i nostri bisogni tramite la moneta globale, il dollaro.
Questo è il passato, il presente e il futuro.

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