Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


lun 31 ottobre 2016

L’ENTROPIA DEL CAPITALE

Derek Morgan: "Il QE ha arginato la speculazione e stabilizzato il sisma dei debiti pubblici quando l’Occidente stava tremando. Ha fissato regole ferree in quanto nuova costituzione finanziaria globale. Bene, questo tempo è finito. Ma non deve finire il nostro governo sul tempo. (...) Adesso dobbiamo affrontare tutti insieme l'entropia del QE." Bruno Livraghi: "La crisi delle banche è appena iniziata. Le vedremo smembrate, costrette a svendere asset. Noi saremo lì, a raccogliere quegli scarti pesanti come sassi. E li trasformeremo in oro". Philip Wade: "Questa è la crisi delle banche che avrebbero dovuto sostituire lo Stato. E il QE è la risposta politica a quel fallimento. Il suo compito non dev'essere risanare il sistema bancario, ma cancellare l'idea che lo Stato possa essere sostituito nelle sue funzioni."

New York City, 15 ottobre 2016 – ore 17:03
Dalle vetrate filtra l’ultima luce del giorno. Pulviscolo rotea nei coni di luce. Ombre si allungano in questa stanza di un grattacielo a Manhattan, diverso da tutti gli altri. Il ghiaccio è nel bicchiere davanti a me, su uno dei lati del tavolo triangolare. I giorni svaniscono. Il tempo procede inesorabile, seguendo una direzione precisa: da ieri a oggi, da oggi a domani.
Gli imperi collassano. Gli uomini invecchiano. Le alleanze si frantumano. Il moto disperde energia. Il calore si trasmette inderogabilmente da un corpo più caldo a uno più freddo. L’entropia cresce, il disordine aumenta. Dalle galassie negli abissi del vuoto cosmico ai corpi davanti a me, tutto si corrompe trascinato dal flusso del divenire.
Ho vissuto per combattere questo principio, per arrestare il tempo, annullare la dispersione d’energia, trovare il segreto dell’eternità, risolvere l’arcano del moto perpetuo.
Eventi non considerati mi ricordano la natura utopica del mio sforzo. Anche io invecchio, anche il mio progetto mostra delle crepe.
Io, Derek Morgan: il Generale dell’ordine, un tempo al vertice della grande banca, oggi invisibile argine che dirige le spinte irrazionali dell’Occidente.
Nulla è eterno e poche cose sono durevoli, ammoniva il Filosofo latino.
Per molto tempo gli uomini intorno a questo tavolo hanno trovato la concordia di un agire comune nel tessere i destini del mondo. Il confronto al Tredicesimo piano segue una ciclicità, come ogni cosa imperitura. Da quando si riuniscono, questi uomini hanno composto una visione del futuro da cui il futuro stesso è scaturito.
Ma oggi le cose sono cambiate. Sui media occidentali, i vertici dei colossi bancari hanno attaccato le banche centrali. Hanno denunciato l’inefficacia dei tassi bassi e delle politiche monetarie espansive. Ingrati e immemori. La paura per ciò che sarà ha cancellato il ricordo di ciò che è stato. Il terrore di non avere più margini di profitto, il terrore di non esistere più, li spinge ad alterare l’ordine.
E adesso tocca a me riportare la pace, neutralizzare la contraddizione, garantire la continuità dell’equilibrio, lottare ancora contro l’entropia. Tocca a me distendere la tensione sul viso di Jason Reed, che conosco da quando io ero al fixed income della grande banca e lui al vertice della principale banca concorrente. Tocca a me rasserenare l’uomo vicino alla Federal Reserve, che trattiene a stento il disappunto. E tocca a me domare l’ironia che accende l’espressione di un altro uomo, quello dai tratti aquilini.
Mentre comincio a parlare mi sembra di percepire, nel bicchiere, il suono delle molecole che oscillano nel ghiaccio mentre si riscalda, il passaggio dallo stato solido a quello liquido.
“L’equilibrio è tutto. Nella natura come nella società. Senza l’equilibrio non saremmo intorno a questo tavolo. L’equilibrio è sacro e la trama che tessiamo non dev’essere lacerata”.
Punto lo sguardo all’angolo del tavolo più vicino alla vetrata. Sembro rivolgermi a chiunque sia seduto lì, ma Jason Reed sa che i miei occhi e le mie parole sono soprattutto per lui.
“Qui dentro non è ammessa una rottura. Parlo di oggi, non è un ammonimento per il futuro. Anzi il futuro e il passato non dovrebbero esistere. C’è bisogno di un eterno presente. Il nostropresente”.
Prendo il bicchiere, il ghiaccio tintinna. Bevo un sorso, poi continuo: “Ricordate la paura del 2008, la tempesta che travolse Manhattan, il cuore dell’Impero colpito. Sembra lontano nel tempo ma non è così. È stato il Quantitative easing a salvarci dall’uragano, lo stesso QE che oggi alcuni di noi attaccano. Il tempismo di Bernanke ci protesse dalle conseguenze del crollo, sciolse la danza dello spettro del ’29 con quello del 2008. Una crisi del genere era peggio di una guerra, che spesso ha una causa esterna. Ma quando il principio di una crisi è endogeno, allora per rimuoverlo servono creatività, spregiudicatezza, ingegno”.
Appoggio il bicchiere sul tavolo. “L’approccio meccanicistico degli economisti classici è superato. La Storia dimostra che il processo economico è simile a quello termodinamico. L’entropia guida evoluzioni, involuzioni e rivoluzioni. Determina i cambiamenti ambientali, e sociali. E il QE risponde all’entropia: come evoluzione della teoria monetaria e come rivoluzione creatrice di un nuovo processo economico”.
I volti intorno sono ancora irrigiditi. La luce tagliata di quest’ora esalta le increspature delle fronti, i solchi della diffidenza. “Il QE ha arginato la speculazione e stabilizzato il sisma dei debiti pubblici quando l’Occidente stava tremando. Ha fissato regole ferree in quanto nuova costituzione finanziaria globale. Bene, questo tempo è finito. Ma non deve finire il nostro governo sul tempo. Quello che alcuni di noi hanno detto, è ragionevole. Adesso dobbiamo affrontare tutti insieme l’entropia del QE.”
Torno a guardare verso l’angolo dove siede Jason, faccio un cenno impercettibile verso di lui. “Sappiamo che le banche stanno perdendo margini di profitto e hanno già perso la funzione di traino dell’economia reale. Il QE ha salvato l’ordine, ma ora lo sta minando. Dopo il salvataggio ingannevole, il contenimento e la marginalizzazione delle banche erano inevitabili. Ci hanno accusato di praticare magie e generare illusioni. La verità è che perfino noi possiamo scoprirci superflui.”
Alcuni di noi, penso. Ma non lo dico. E concludo: “L’entropia logora il nostro ecosistema. Dovremo ridefinirlo del tutto. Una nuova tempesta può abbattersi sull’Occidente: per scongiurarla dobbiamo trovare nuovi assetti e rinunciare a vecchie rendite di posizione. Gli interessi di una parte non possono mettere a repentaglio la stabilità. Bisogna saper cambiare per conservare e dare al mondo un altro equilibrio”.
Quando torno a sedermi, il ghiaccio nel bicchiere è completamente sciolto. Il viso di Jason Reed è solcato da una consapevolezza amara. L’uomo vicino alla Federal Reserve annuisce. E l’espressione ironica che accendeva l’uomo dai tratti aquilini, si è deformata in un ghigno, la smorfia di un animale feroce…
New York City, 15 ottobre 2016 – in quegli stessi minuti, dall’altra parte del tavolo triangolare al Tredicesimo piano
Non ti contraddirà nessuno, Generale. Nessuno risponderà alle tue parole che ascoltiamo in silenzio. Ti guardo per l’ennesima volta tessere la trama paziente del tuo disegno, e per l’ennesima volta non credo a quello che dici.
Palesi minacce ed evochi catastrofi per tutti. Chiedi sacrifici ad alcuni per garantire l’equilibrio. Vorresti fissare il tempo, dilatare un singolo istante nella permanenza perenne perché non esistano più attimi da cogliere e occasioni da sfruttare.
Non fa per me la fissità che chiedi. Non fa per Bruno Livraghi, il devoto della velocità, il fanatico che rincorre il tempo per dominarlo.
A volte mi ricordi i vecchi imperatori di Roma. La pace alla quale inviti è il sigillo dell’ordine. Il tuo comandamento è scritto su un biglietto da un dollaro: Novus ordo seclorum.
E quando hai fatto le guerre è stato per imporre una pace più solida. Ti ho conosciuto, molti anni fa, proprio durante una guerra: quella scatenata in Europa. Si combatteva per i debiti sovrani del vecchio continente. E quelli come me erano i barbari che tu eri convinto di manovrare. Avevi capito molto, di quello che ero allora: un raider spregiudicato, pronto a tutto e destinato ai vertici di un grande hedge fund. Ma non avevi capito che sfuggivo al tuo controllo.
Poi mi hai introdotto in questa stanza: ero la variabile da ricomprendere nel tuo disegno, il barbaro con cui stringere accordi, lo spirito animale da ingabbiare, da annettere al tuo progetto di costituzione globale. Una sovranità segreta, non dichiarata.
Ma non ho mai tradito me stesso, Generale. Su una cosa hai ragione: c’è bisogno di cambiare per conservare. E se sono cambiato, è stato solo per rimanere fedele alla mia natura.
L’entropia che tanto ti spaventa è il mio nutrimento. Perché l’entropia viene generata da ogni fase economica e a sua volta genera opportunità. Il Quantitative easing è stato un’opportunità epocale, un banchetto degli dei: facevamo incetta di titoli obbligazionari disastrati e ad alto rendimento, poi aspettavamo che le banche centrali li comprassero. Facile, sicuro. Da quel banchetto ci siamo alzati, quand’è finito, ma il QE ha creato nuove dispersioni d’energia, che hanno creato nuove opportunità…
Quelli come Jason Reed sono morti che camminano. Ci sarà un giorno in cui intorno a questo tavolo siederanno i padroni del web, i Signori della Silicon Valley.
Le banche sono le vestigia di un mondo che il tempo ha consumato. Leggo il tuo sguardo, Generale. Come leggo il linguaggio del corpo. Il ghiaccio nel tuo bicchiere continuerà a sciogliersi.
La crisi delle banche è appena iniziata. Le vedremo smembrate, costrette a svendere asset. Noi saremo lì, a raccogliere quegli scarti pesanti come sassi. E li trasformeremo in oro. Un sorriso mi piega le labbra.
Da: philip.wade@mail.birkbeck.ac.uk A: derek_morgan@XXX.com Data: 15 ottobre 2016 – ore 22:57 Greenwich Mean Time Oggetto: Autumn in New York
Dear Derek,
dicono che l’autunno sia la stagione della perdita. Si perdono la luce e il calore dell’estate. Qui a Londra gli alberi perdono brutalmente le foglie e il freddo ci fa perdere il piacere di camminare all’aperto.
Da troppo tempo vivo immerso nel senso di perdita, nel vuoto della mancanza. Non c’è più la mia infanzia a Liverpool, non c’è più la working class alla quale mio padre apparteneva orgogliosamente, non c’è nemmeno più mio padre. E anche Liverpool, chissà. Sembra un’altra città, adesso.
Non c’è più il giovane Philip che a Roma aveva scelto Federico Caffè come maestro, e non c’è più Federico Caffè: scomparso nelle pieghe di una stagione nuova, il cui avvento aveva presagito senza riuscire a sventarlo. Sono orfano anche di un secolo, il Novecento.
Il senso del passaggio del tempo per me è la resa a una malinconia sottile, l’accettazione del fluire inarrestabile di energia, la dispersione nel movimento. Eppure ho sempre creduto che le cose potessero ancora cambiare.
Tu, no. Tu non sei tipo da indulgere in questa malinconia. Non avverti lo scorrere di mesi e anni, perché sei troppo impegnato a combatterlo.
È buffo, perché poi l’utopista, tra di noi, sarei io. In Italia c’è un brutto modo di dire per indicare coloro che sono sempre a proprio agio nel mutare del tempo. Si dice: “Un uomo buono per tutte le stagioni”.
Tu non sei così, perché ti rifiuti di accettare il volgere delle stagioni e vorresti che fosse il tempo a conformarsi al tuo progetto di stabilità.
Dai giornali leggo che quest’autunno qualcosa hai perso, Derek. Molto più di quello che capitava di perdere sui mercati, ai tempi della grande banca.
Tra le righe delle cronache intuisco l’incrinarsi dell’equilibrio. Un tempo quelli come me avrebbero detto “la dialettica dei poteri”. Frazioni che si oppongono le une alle altre.
E ti immagino a ricucire la trama strappata del tuo disegno. Ho avuto bisogno di tempo per capire la funzione del Quantitative easing. Oggi posso dire che è stata la migliore delle tue magie. In passato ho detto altro.
E per un momento è come se fossi riuscito ad arrestarlo davvero il tempo, inchiodando il mondo alla fissità di una glaciazione.
C’era bisogno di una risposta di fronte all’entropia di un processo economico-finanziario che aveva sconvolto gli assetti geopolitici, devastato l’ambiente, deformato la composizione sociale, riscritto regole, legiferato. Il QE ha fornito la risposta, liberando la finanza pubblica dal giogo della speculazione e creando condizioni stabili per un nuovo ecosistema.Tuttavia, il funzionamento del dispositivo non è perfetto: la liquidità rimane nel circuito finanziario senza toccare l’economia reale e le regole della Bundesbank ne limitano la portata obbligando all’acquisto di titoli di Stato tedeschi in uguale proporzione ai bond dei Paesi in sofferenza. E naturalmente questa risposta non può servire solo a salvare le banche. Bisogna tenere il punto, ora. Perché la difesa dei debiti pubblici ha sciolto il nodo che legava il sistema bancario ai dipartimenti del Tesoro di mezzo mondo.
Gli Stati hanno indotto la grande crescita delle banche, e a queste hanno affidato la chiave di interi settori della vita pubblica, il welfare privatizzato, la gestione dello stesso debito e, soprattutto, una potente leva finanziaria che doveva produrre crescita infinita.
Dove la politica era incapace di risolvere, ecco intervenire le banche. Mancavano le case? Arrivavano le banche e si creavano i subprime. Mancavano le infrastrutture? Arrivavano le banche e investivano. Mancava capacità attrattiva dei titoli del debito pubblico? Arrivavano le banche a pompare liquidità.
Questa è la crisi delle banche che avrebbero dovuto sostituire lo Stato. E il QE è la risposta politica a quel fallimento.
Il suo compito non dev’essere risanare il sistema bancario, ma cancellare l’idea che lo Stato possa essere sostituito nelle sue funzioni.
Oggi questo equilibrio è in crisi. Il ghiaccio si scioglie, le molecole tornano ad assecondare le leggi della natura. E i vertici di quelle banche protestano contro le politiche monetarie espansive, soffrono gli scarsi margini di redditività, ne chiedono di nuovi.
Ti conosco abbastanza per sapere che sei in cerca di un nuovo equilibrio. T’immagino a praticare l’ennesimo mutamento come forma di conservazione. Ma stavolta dovresti difendere l’assetto che hai trovato. Non avanzare, non retrocedere.
Non siamo amici anche se ci conosciamo da molti anni. Dunque queste righe non sono il consiglio di un amico. Sono l’avvertimento di un avversario che intuisce una sventura per tutti.
Abbi fiducia. Dopo l’autunno c’è l’inverno, la neve torna a fissare le cose e niente più si distingue sotto il manto bianco, come sulle montagne del tuo Maine. Ricordo che ne parlammo. Ma era tanto tempo fa.
Phil

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