Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


dom 29 marzo 2015

CHI HA PAURA DEL RISVEGLIO?

Bene, il vento nuovo in Europa è arrivato. Soffia da Sud, dalla Grecia e dalla Spagna

New York City, fine maggio 2015
Il taxi mi lascia davanti al grattacielo. Midtown in un pomeriggio buio, come fosse già notte. Lo spicchio di cielo inquadrato dai grattacieli promette burrasca. Mi chiamo Derek Morgan. Alcuni mi considerano uno dei più potenti banker di Wall Street, insediato al vertice della grande banca qui a Manhattan. Gli basta questo, gli basta credere a quello che vedono. E a me basta che lo pensino. Pochi sanno che sono tra quanti conducono una guerra invisibile, nello stato maggiore di un esercito senza insegne. Quei pochi mi chiamano “Generale”. Quei pochi sanno che non combatto per il profitto, ma per la supremazia sull’Occidente e dell’Occidente. Le politiche monetarie, i bond governativi, i mercati finanziari, per me, sono uno strumento di potere. Combatto per una causa: un grande disegno di egemonia. Nessuno canterà gli eventi di questo conflitto sotterraneo da cui gli eroi sono stati banditi. Ma non c’è il tempo di rammaricarsi. Oggi è giorno di battaglia, oggi si va alle grandi manovre.
Percorro in orizzontale il marciapiede. Un pomeriggio freddo e piovoso che non rispetta la stagione. È una primavera di cambiamenti, e tutto continua a cambiare dall’altra parte dell’Atlantico. Entro nel grande atrio e raggiungo l’ascensore. Governare i mutamenti è quello che fanno gli uomini come me. Governarli nel segno della conservazione. Dentro la cabina sono solo. Estraggo la chiave e la infilo nella serratura sulla plancia dell’impianto. L’ascensore inizia a salire anche se non ho premuto alcun tasto. Non guadagno il centro della cabina, lo specchio restituisce solo una parte di me. Niente di più fedele, a pensarci. Ogni mutamento costringe a fermarsi e a pensare cosa si è stati fino a quel punto. E quelli come me non compaiono nel quadro, stanno oltre i margini dell’inquadratura. Restano dietro le quinte della scena, a muovere il riflettore. Decidono cosa illuminare sul palcoscenico. È questo che fanno. Credono in un piano che ricomprenda ogni variabile. La realtà percepita è solo uno dei mondi possibili. Noi abitiamo i mille piani di un multiverso, e i mondi possiamo plasmarli. Abbiamo costruito la civiltà. Abbiamo creato benessere e ricchezza. Abbiamo collegato il pianeta edificando strade, ferrovie, nodi della rete telematica. Abbiamo perfino fornito strumenti per fare le rivoluzioni. La chiamano “speculazione”, le chiamano “bolle”. Invece è solo il motore della Storia. Perché noi siamo tutto: l’ordine che considera ogni variabile e ricomprende ogni sovversione. Siamo la medicina e il danno collaterale. Siamo la luce che illumina il mondo e acceca chi guarda.
L’ascensore rallenta, si ferma. Tredicesimo piano. La porta da cui sono entrato rimane chiusa. Sul lato opposto, invece, una seconda porta si apre lentamente. C’è un unico grande ambiente, sobrio, su due lati circondato da vetrate, che domina New York sconvolta dalla pioggia. Dentro ci sono già tutti: cinque uomini del board delle più importanti banche d’affari americane, un esponente della FED, un consulente del FMI, uno che ha buone entrature al Tesoro, a Washington. L’arredamento è costituito da un solo tavolo, di forma triangolare, intorno al quale sono disposte le poltrone.
Al tredicesimo piano del grattacielo, di fronte a questo tavolo, la Camelot del periodo kennediano sembra più lontana che mai. E anche i miti della New Economy e dei nuovi democratici di Clinton, anche quei sogni sono scoppiati come una bolla. Non ci si riunisce più attorno a tavole rotonde. Niente cavalieri, niente eroi. Lancillotto ha smesso di cercare il Graal.
«Non serve un meteorologo» comincio a parlare in piedi, «per sentire che il vento sta cambiando. C’è un vecchio proverbio italiano: dice che lo scirocco si insinua dappertutto, senza troppo rumore, e lascia inchiodati. Bene, il vento nuovo in Europa è arrivato. Soffia da Sud, dalla Grecia e dalla Spagna. In pochi mesi, due penisole sul Mediterraneo stanno consumando discontinuità potenzialmente radicali. Dopo, potrebbe cambiare tutto. Dopo potrebbe essere troppo tardi. E se un cambiamento è in atto, va governato. Invece di prendere lo scirocco davanti, bisogna virare». Mi osservano composti, intorno al tavolo. Hanno tutti la stessa divisa, la stessa che indosso io: completo blu, camicia bianca, il nodo della cravatta stretto intorno al colletto. Tengono le gambe accavallate allo stesso modo. La loro compostezza è educata, fredda. Scettica.
Riprendo a parlare: «L’Europa è uscita dall’anestesia, si è chiusa una fase. Adesso se ne apre un’altra, molto più complessa. Oggi come ieri dobbiamo porci sul crinale sottile che separa il “prima” dal “dopo”. Far sì che il domani non sia troppo diverso dall’oggi, e che conservi le tracce di ieri». Il lampo di un fulmine mi fa fermare un momento, il rombo che segue è dirompente. «Da decenni giochiamo una grande battaglia nel segno della continuità, della supremazia del nostro modo di vivere, della conservazione dell’Occidente. Abbiamo preso tempo. Abbiamo protratto, in una lunga notte bianca, gli ultimi chiarori del tramonto. Abbiamo trasformato ogni sommovimento strutturale in una congiuntura, ogni fattura irricomponibile in un ciclo. C’eravamo ieri, ci siamo oggi, e ci saremo domani. E quando noi non ci saremo, la nostra visione continuerà». L’uomo seduto al vertice del triangolo più vicino scioglie il collo che sembrava ingessato, e piega la testa a seguire il ragionamento. Vado avanti, puntello le mani al tavolo: «Non esiste una caduta del muro di Berlino nel nostro ordine mondiale. Abbiamo rovesciato i termini della più grande crisi finanziaria dal 1929, occultato la debolezza dei nostri fondamentali economici. Con la crisi dei debiti sovrani abbiamo spostato i riflettori sull’altra sponda dell’Atlantico. Abbiamo addormentato l’Europa con la nenia dell’austerità. I conflitti sono stati accantonati, la partecipazione attiva è stata rimossa, il centrismo ha dominato il continente. Abbiamo fatto tutto questo per scongiurare l’apocalisse».
Mi interrompo. Per bere, ma soprattutto per valutare le reazioni. Le posture sono più rilassate. Qualcuno scambia degli sguardi. Decido che è il momento di insistere: «La psicologia è un’arma. La guerriglia psicologica è una parte fondamentale del conflitto. Abbiamo instillato nel cuore dell’Europa un grande senso di colpa, un senso di sfiducia, la certezza di aver vissuto sopra le proprie possibilità. Abbiamo trasformato le macerie del 2007 in oro. E di nuovo ci siamo seduti su infinite ricchezze, di nuovo abbiamo conservato la supremazia e garantito la continuità». Faccio passare un dito sul bordo del tavolo, poi lo sollevo, dritto. «In guerra, però, bisogna sapere quando cambiare arma. La duttilità, la capacità di adeguarsi al volgere delle condizioni e al cambiamento di scenario, è cruciale. L’Europa sta uscendo dal torpore. È iniziato a gennaio, in Grecia, nel laboratorio della crisi e dell’austerità. Quindi sono venute Londra, Varsavia, Madrid e Barcellona. Il sommovimento somma singole spinte di intensità e qualità diverse, ma a noi interessa la svolta in arrivo».
Alzo gli occhi. Incontro sguardi che aspettano il resto, le fronti sono distese. Un uomo seduto lungo il lato maggiore della stanza si china a parlare con chi gli sta accanto. «Ancora una volta siamo chiamati a intervenire. Come sempre, in ballo non c’è solo il profitto. Non c’è mai stato solo il profitto. C’è il controllo dell’Occidente. Come abbiamo indotto la crisi del debito sovrano, ora dobbiamo indurre la fine dell’austerity: per sventare il rischio di un ingovernabile processo di partecipazione delle masse europee. I soggetti che producono decisione politica possono cambiare, stanno cambiando. Dobbiamo impedirlo. Sotto il corpo morto dell’austerità montano passioni e desideri. E se non risponderemo a queste aspirazioni emergenti, lo farà l’offerta politica del cambiamento radicale.» Una sferzata improvvisa sbatte la pioggia contro le vetrate. Nessuno si volta a guardare, aspettano che io vada avanti. «L’austerity ha frustrato il desiderio. Ora il fuoco cova sotto la cenere. Forze nuove sono pronte a ravvivare la fiamma per diffondere l’incendio. Noi dobbiamo arrivare prima degli altri. E per farlo dobbiamo liberare gli europei dal senso di colpa e orientarli verso l’unico modo lecito per appagare i desideri: soddisfare i bisogni sul mercato. Tornare al consumo.»
In sottofondo cresce un brusio di commenti, mentre sono state ormai abbandonate le statiche posizioni di quando ho iniziato il discorso: cenni di assenso, partecipazione. Verso l’acqua nel bicchiere, mando giù. Mi preparo a concludere. «Ecco perché bisogna cambiare arma, mutare lo strumento di dominio: non più il debito pubblico, ma l’indebitamento di massa. Il debito che soddisfa bisogni, che toglie universalità ai diritti e li colloca nello scambio. Indebitarsi per comprare garanzie, saperi, protezione, beni di consumo. Il debito che narcotizza. È necessario stipulare un patto nuovo, definire un altro assetto di controllo, cambiare arma. Dico che il debito pubblico, oggi, può passare alle banche centrali. Che se ne facciano garanti. Signori, un tempo nuovo comincia. O meglio: il tempo nuovo continua. È l’eterno presente con cui abbiamo cancellato la freccia del tempo. Sarà il maquillage sul viso di una vecchia donna che ancora desidera: il viso dell’Europa. La nuova austerity saranno le riforme, che daranno accesso al credito, comprimeranno i salari, flessibilizzeranno il mercato del lavoro, creeranno indebitamento privato. In questo senso, oggi, l’Italia è il vero laboratorio europeo. Il nostro sarà un gesto di stabilizzazione travestito da progresso, la nuova narcosi di massa, il sonnambulismo collettivo. Di nuovo, e per sempre.»
Ancora in piedi, aspetto un istante. Giusto il tempo di essere sicuro di averli convinti. E in effetti il tredicesimo piano è avvolto da un silenzio incantato. Ha anche smesso di piovere. Li guardo negli occhi, uno per uno: si sono fatti docili. Il fatto è che posso convincere gli altri, certo, ma nessun piano è mai davvero perfetto. Non esiste un disegno abbastanza lungimirante da considerare ogni imprevisto. Ci sono variabili che sfuggono a qualsiasi calcolo. Lo so, mentre mi adagio sullo schienale.

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