Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


sab 18 giugno 2016

MARKET MANIPULATION

16 maggio 2016
Una cartellina è in ombra, l’altra nella piena luce di un raggio che s’allunga fino al giornale ripiegato. Distinguo solo alcune parole: Trani, Btp, 2011. Allora stendo il braccio sulla superficie, prendo il giornale. E attacco a leggere il titolo, le prime righe. La procura di Trani, nell’estremo lembo sudorientale d’Italia, ha messo sotto indagine la Deutsche Bank per manipolazione di mercato. Il riferimento è alla vendita di sette miliardi di titoli di Stato italiani nel primo semestre del 2011, prima della lettera della Bce che segnò la caduta di un governo e l’insediamento dell’esecutivo a guida tecnica. Causa-effetto, causa-effetto.
Lascio andare il giornale ma continuo a fissare le parole, tra i fruscii della carta e il nastro dei ricordi che mi porta indietro… Gli ultimi giorni del socialismo reale negli anni Ottanta a Dresda, Repubblica Democratica Tedesca, dove sono nato. I marciapiedi chiari sotto i passi cupi che osservavo da ragazzo. Lo slancio della statua d’oro a Neustädter Markt, il contrasto con la pesantezza dei palazzi intorno. La geometria triste delle ultime celebrazioni, le persone che ancora si lasciavano recintare per assistere alle coreografie del potere. La SED, al potere, e mio padre che ci lavorava come funzionario amministrativo. Era lui “Herr Hoffman”. Io ero ancora il giovane Lando e non avevo lasciato la sua casa per andare a Ovest. Non avevo studiato a Colonia, non avevo preso il dottorato in Scienze matematiche, non ero passato a lavorare per il colosso assicurativo. L’unificazione, d’altra parte, era di là da venire… Oggi, a quarantatré anni, sto meglio di allora. Vivo in un mondo che mi assomiglia di più. Non passo le giornate a chiedermi dove sia il futuro, se sia altrove. Oggi chiamano me “Herr Hoffman” e quello che dico viene ascoltato dalla comunità finanziaria internazionale. Oggi, in Germania, nemmeno Ost und West hanno lo stesso significato di un tempo. I popoli che marciano possono perfino cambiare il significato dei punti cardinali. O forse non sono i popoli in marcia, è solo il mercato che vince.
A me va bene comunque.
Riporto l’attenzione al giornale nel raggio di sole. Parlano di democrazia, libertà d’espressione, informazione. Non sono che forme vuote, in realtà. Un velo che nasconde raffinati dispositivi di controllo. Leggo il piano di destabilizzazione politica che attribuiscono alla Deutsche Bank: lasciano intuire come la posta della battaglia fosse il cambio di governo a Roma. Non sanno? Oppure sanno, e vogliono confondere? Perché quello è un altro velo. Si chiama strategia della distrazione. Svia l’attenzione del pubblico da quello che conta davvero. Il pubblico legge come me questo articolo, concentra i suoi pensieri sulle informazioni e le prospettive segrete che vorrebbe – o dovrebbe –  svelare. E così il tempo, l’energia e lo sforzo d’interpretazione sono rivolti altrove, dove non costituiscono un pericolo. Sfioro le pagine del quotidiano, mi vengono in mente i finti bersagli nelle manovre di combattimento tra sommergibili. Quei movimenti sui BTP italiani, nel 2011, non erano la battaglia decisiva, figuriamoci se erano la sostanza della guerra. Nel 2011, c’ero anch’io dietro ai monitor. C’ero anche io a vendere, a “scaricare”. Non sanno che nelle congiunture critiche si registra sempre un rimpatrio di capitali sui mercati d’appartenenza, un fly to quality ai comandi della paura?
E ricordo. Ricordo bene: il rischio dell’Italia montava, l’offensiva era già partita, il contagio si diffondeva nel Sud dell’Europa. Sembrava il 1992, l’attacco alla lira, Bankitalia a vendere le riserve per sostenere la valuta in un quadro di cambio obbligato, e poi la svalutazione del trenta per cento e l’uscita dallo SME. Ma se la Storia si ripete sempre due volte, non si ripete mai nello stesso modo. Le fasi paiono simili, eppure differiscono nella sostanza. Nel 1992 fu guerra tra mercato e banca centrale, conflitto selvaggio ingaggiato dagli spiriti animali. Nel 2011, non c’era più una moneta da svalutare, e i movimenti sui BTP erano parte di liquidazioni molto più grandi, legate a titoli governativi europei ad alto rendimento, promosse da investitori istituzionali globali. La crisi assunse un significato politico, divenne processo costituente. Il default fu evitato, ma gli assetti della costituzione materiale cambiarono. Senza l’intervento della BCE, probabilmente oggi la procura di Trani indagherebbe sulla bancarotta dell’Italia invece che sulle operazioni di Deutsche Bank. Non sanno? Oppure sanno, e vogliono confondere? Gli italiani sono presuntuosi. Credono di essere ancora al centro del mondo. E invece, della gloria di Roma non rimane niente. Credono che li abbiamo attaccati per far fuori un governo. Credono, credono, credono… E non vedono. Non capiscono che se il Mediterraneo cominciò a bruciare, era solo perché non si doveva combattere nell’Atlantico. Il fatto è che la luce non rischiara soltanto. Può ingannare, come nel trompe-l’oeil, l’illusione con cui la pittura confonde le percezioni visive, la tecnica che nasconde la discontinuità fra arte e realtà. È una questione di prospettive, una danza ubriacante di giochi di luce e ombra.
La mente vede quel che vuole vedere. La mano del pittore inganna l’occhio, la destrezza del prestigiatore imbroglia la percezione. Afferro la cartellina illuminata dal sole. La apro, considero i documenti che contiene, la carta intestata di uno studio legale. Lo stesso studio che cura gli interessi della Deutsche Bank, lo stesso di cui sono consulente. Ripasso alcuni punti chiave. L’accusa: market manipulation. La tempistica: da gennaio a giugno 2011. L’impressione che la mossa di Deutsche Bank fosse una sentenza tedesca contro l’Italia. Scuoto la testa. È un errore prospettico: si guarda all’Italia e non si vede l’Europa, si vede l’Europa e si non guarda all’America. La singola mossa invece del movimento d’insieme, il dito invece che la luna. Si ricostruisce la stagione dello spread a 500 e si perde di vista la guerra vera: quella all’euro, ai debiti sovrani. Il conflitto agito per nascondere la debolezza americana. Le meccaniche di una partita segreta che iniziò prima di quel 2011, alla fine degli anni Zero, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, per indebolire l’Europa, approfittando della parzialità del processo di unificazione continentale: un conio, e nulla più; una moneta, e nient’altro. L’euro come primo – e unico – passo su un percorso incompiuto, mentre negli anni Zero si consumava il processo di convergenza tra i nostri tassi e quelli italiani. Una cataratta di risparmi che, dalla Germania, rovesciammo sui bond della periferia europea. La frattura si compì allora, sorse nella finzione, allorché nessuno guardò ai fondamentali dei Paesi meno virtuosi con gli occhi fissi sulla convergenza dei tassi. Approfondire la crepa, operare a proprio vantaggio nelle contraddizioni, accelerare i processi e indebolire l’Europa così da nascondere la debolezza degli Stati Uniti. Rendere fragile l’euro per coprire la fragilità del dollaro. Scuotere i debiti europei per non interrogarsi sul debito a stelle e strisce. Quello era l’obiettivo. Non si trattava di borsa, no: in gioco c’era il primato americano, i pilastri della civiltà. Richiudo la cartellina. L’Occidente era un teatro buio dove qualcuno manovrava i riflettori. Illuminava qualcosa per tenere qualcos’altro nel buio. Indicava ai mercati l’Europa per celare la crisi degli States. L’uso mendace delle luci lasciava invisibili le mani che le muovevano. E noi tedeschi ad approfittare del piano nelle vesti di padroni del vecchio continente. Poteva starmi pure bene, poteva essere uno scambio equo: a voi il mondo, a noi l’Europa. Poteva starmi bene se non fosse diventata sete inestinguibile di conoscenza. La volontà di sapere è la mia ossessione.
Chi? Chi era così potente da decidere di combattere una guerra per evitarne un’altra? Così potente da disinformare, distogliere l’attenzione pubblica, dirigere i movimenti sulla street finanziaria, quasi come in una raffinata pratica di contro-insurgencia applicata alle reti degli scambi globali? Chi aveva la forza di attuare un intervento invisibile e preventivo di quella portata senza impiegare cacciabombardieri, carri armati e truppe di terra? I miei ragionamenti sono veloci ma le mie mani sono calme, mentre prendono l’altra cartellina. Quella che sta in ombra sul ripiano, fuori dalla porzione baciata dal sole. Quella su cui campeggiano due parole in tedesco, la mia lingua: “Dreizenthen Stock”.
I documenti nella cartellina sono riservati. Anche se in realtà non sono neppure documenti, perché tra i bordi di cartoncino si affastellano ritagli di giornale, appunti presi a mano, qualche pagina stampata da internet, una foto. Quello è tutto ciò che posso vedere dei miei fantasmi, quello è tutto ciò che posso toccare della mia ossessione. Dreizenthen Stock… In inglese, nella loro lingua, suonerebbe The thirteen floor. Un luogo che esiste solo nei sussurri. Una leggenda sulla street, l’ombra che incombe sulle più alte sfere istituzionali. Il crisma della finanza al tempo della sua pervasività biopolitica, l’incarnazione del Congegno capace di condizionare le vite di milioni di esseri umani. Alcuni dicono che non esista, che sia soltanto una favola. Altri ci credono e lo descrivono come la Super-loggia al governo dell’Occidente e del pianeta Terra. Abbasso gli occhi sugli appunti. Sbagliano gli uni, e sbagliano gli altri. Per l’ennesima volta rivolgo la mente al Tredicesimo Piano, per l’ennesima volta non vedo luoghi né spazi. Da quando ne ho intuito la presenza nella connessione all’apparenza casuale degli eventi, tra quello che le sequenze alfanumeriche sui monitor ultra-piatti nascondono, lo immagino come un reticolo fluido di poteri, convergere plastico d’interessi, codice sorgente che scorre come matrice del mondo e di questo tempo. Eppure… Mi concentro sulla foto: è l’ingrandimento di un’altra istantanea che ritraeva un gruppo di banker a margine di un convegno internazionale a Francoforte. Alcuni anni prima, alcune vite fa. Nella fotografia originale, il viso che sto fissando occupava una posizione ai margini. Era una figura di sfondo.
Lascio scorrere lo sguardo sul profilo di quel volto, sulla mascella squadrata, gli occhi scuri, la fronte ampia. Lascio scorrere lo sguardo ed è come se le “D” cominciassero a danzare, quella di Dreizenthen, e quell’altra: l’iniziale di Derek William Morgan. L’uomo che ho ritrovato al centro di una rete che assomiglia alla tela di un ragno, il luciferino demiurgo del diorama, l’ex-capo del fixed income della grande banca, a London City, rientrato al board di New York e scomparso dalla scena. Quasi scomparso… Perché ho visto la sua mano dietro lo spostamento di settori del partito repubblicano sulla candidatura della signora Clinton. Così come c’era la sua mano sul riflettore che illuminò l’Europa, anni fa. A Berlino e Francoforte, i pochi che sanno negano. Negano di aver accettato un ruolo nel disegno del grande Tessitore. Mi passo il dorso della mano sulla fronte madida di sudore. Derek, Dreizenthen, Derek, Dreizenthen… La sovrapposizione che mi fa sgranare gli occhi un paio di volte. Danza la D fra le righe, diabolica, mi trascina nell’insensatezza delle ossessioni. Devo rimanere lucido, invece. So che la prospettiva è fondamentale per vedere le cose. Non posso stare seduto nella platea di quel teatro buio, assistere allo spettacolo degli inganni o all’inganno dello spettacolo. Devo cambiare il punto d’osservazione. Così allontano lo sguardo dalle pagine nella cartellina. Lo rivolgo fuori, tra le nuvole che hanno accompagnato quest’aereo per gran parte del volo. Si apre uno spiraglio, di tanto in tanto, che mi permette di studiare la disposizione degli elementi umani e naturali. Si compongono nel modo di quei giochi enigmistici che facevo a Dresda, quando con la penna univo i puntini per ottenere una figura dal caos apparente. Da qui, è tutta un’altra cosa. Posso capire dove si è spinto l’intervento degli uomini, dove ha incontrato resistenze, dove ancora può dirigersi.
Ho ancora chiara l’immagine mentale del panorama, che adesso mi si presenta orizzontale e poco leggibile, mentre la macchina sobbalza sull’asfalto. La strada per Trani attraversa la campagna barese, una distesa piatta, folgorata da un intenso sole primaverile. Gli ulivi sono bassi, allungano solo poche ombre. È un tipico paesaggio mediterraneo, così lontano dalla Germania. Il cielo terso regala colori sorprendentemente accesi. Socchiudo gli occhi. Si direbbe che niente può nascondersi sotto un cielo così terso, un sole così intenso. E invece quest’angolo di mondo è come la porzione illuminata del palco. Gli sguardi convergono qui, la memoria funziona in modo solo parziale, l’allineamento dei ricordi produce una lettura retrospettiva che è solo l’ennesima forma di inganno. Spesso e volentieri la luce non è altro che lo strumento di un potere diabolico. “Lucifero”, del resto, non significa “portatore di luce”?

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