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TREDICESIMO-PIANO


lun 18 aprile 2016

LE RAGIONI DEI DIAVOLI

Sostiene Pereira che «il giornalismo non ha bisogno di incoscienti né di fomentatori». Necessita invece che le ragioni del cuore siano predominanti: «ma bisogna trovare un equilibrio. Con il cuore, sì, ma con gli occhi sempre bene aperti».
I Diavoli nascono principalmente per chiarire due grandi equivoci di questo tempo. Primo, i temi economico finanziari sono materia inaccessibile ai più, ambito  di interesse esclusivo dell’1% più ricco del pianeta. Falso. Perché il fatto che il mondo finanziario guidi un attacco speculativo contro il nostro sistema bancario o giochi a Monopoli con la Grecia, produce effetti che vanno ad incidere sulla vita del restante 99 per cento: nazioni, persone comuni, classe media. Secondo, l’erosione di sovranità cui sono sottoposti gli Stati nazionali si combatte con la costruzione di compartimenti stagni e un blocco dei processi di osmosi. E’ senz’altro vero che l’interesse per la politica internazionale è generalmente scarso, basti pensare che durante le campagne elettorali – in cui la macchina della propaganda esprime il suo massimo potenziale – difficilmente i candidati dedicano uno spazio, seppur minimo, alla politica estera. Fatta eccezione per questioni contingenti o a carattere emergenziale, i programmi partitici risultano sprovvisti di una proiezione sovranazionale, apparendo in qualche modo incapaci di trovare un proprio spazio nel mondo. I media, in genere, si adeguano, ma le visioni territoriali sono già state ampiamente superate dagli eventi e per quanto immersi in un contesto caratterizzato dal ritorno in grande stile dei vecchi nazionalismi, quanto senso può avere, in un mondo sempre più globalizzato, guardare a quest’epoca dal buco della serratura?
Definito il nostro ambito di interesse – raccontare l’attuale crisi economico finanziaria da una prospettiva internazionale attraverso le diseguaglianze che ha prodotto a livello sociale – occorre domandarsi «come?» e necessariamente interrogarsi sullo stato di salute dell’informazione in Italia. Molto probabilmente l’unica evoluzione possibile del nostro paradigma informativo consiste nel cambiare modello, prendendo in seria considerazione l’eventualità che non sia più possibile migliorare quello precedente. Non è plausibile, badate, non perché quel modello risulti irrimediabilmente manchevole, ma tutto all’opposto perché ha raggiunto un certo, irreparabile, grado di perfezione. Il sistema informativo italiano continua ossessivamente a chiedersi «dove sbaglio?» e si affanna nel trovare una soluzione che non esiste. Il problema, infatti, risiede nel fatto che non c’è errore. Lo schema tradizionale è sostanzialmente perfetto, o meglio lo è stato, in un’altra età, per un altro tipo di lettore. Ostinarsi a ritenere che la rivoluzione più volte annunciata e altrettante volte disattesa possa annidarsi nei dettagli, probabilmente è fatica sprecata. Le rivoluzioni per loro natura sono dirompenti e traumatiche, nel senso che scardinano  le strutture precedenti. Allora, forse, non è un caso se i lettori non riescono a percepire come tali il paywall o una nuova versione grafica. In fondo, quanto è innovativo il concetto che l’accesso a un’informazione di qualità sia legato ad un costo economico? E quanto può essere avveniristico un cambio d’abito, se l’assetto generale rimane il medesimo?
In un saggio del 2011 recentemente tradotto in italiano da Laterza, Zygmunt Bauman analizza l’industria culturale nella società dei consumi arrivando alla conclusione che «i prodotti (culturali, ndr) esposti sugli scaffali, al pari delle pubblicità alle casse sono calcolati per suscitare capricci irrefrenabili, ma per loro natura momentanei (per dirla con la famosa frase di George Steiner, “fatti per avere il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza”)». Forse un modo per fare i conti con la modernità liquida descritta dal sociologo polacco è investire come mai nel passato sulla crossmedialità: costruire un intreccio tra diversi canali, aggrovigliare esperienze e competenze, rendere la trama del racconto molto più intricata. Ad esempio, se il fine ultimo dei media è offrire ai propri lettori un’informazione che sia la più completa possibile, perché non integrare i propri prodotti editoriali con quelli dei diretti “concorrenti”?   Siamo in guerra o combattiamo tutti dalla stessa parte della barricata? E si può essere alleati senza perdere la propria specificità e indipendenza? Perché invece di declinare gli altri media sui propri portali online, non si intraprende il percorso opposto, ovvero si declinano i propri progetti editoriali sugli altri mezzi di comunicazione? Un romanzo può diventare un giornale? E un sito di informazione può essere anche una serie tv o uno spettacolo teatrale?
La sfida che ci prepariamo ad affrontare nei prossimi mesi è questa.

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