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TREDICESIMO-PIANO


mer 20 gennaio 2016

LA SOLUZIONE PIÙ DEMOCRATICA

Cina, Iran, banche italiane. Intervista a Derek Morgan

WASHINGTON, 20 GENNAIO 2016 – «Se si vuole comprendere il momento attuale, occorre voltarsi ad Oriente, al confine tra la Cina e l’Iran». Murray Street, diciottesimo piano. Derek Morgan, l’uomo di punta di una delle più importanti banche d’affari americane, è uno che ti guarda dritto negli occhi quando ti parla, senza mai perdere il filo del discorso. E nei suoi occhi leggi la tranquillità di chi ha tutto sotto controllo, nonostante in questo avvio di 2016 le Borse internazionali abbiano già lanciato diversi segnali di incertezza. La probabilità di un anno con un mercato ribassista, cioè in calo di almeno il 20%, non sembra preoccuparlo. Eppure, al di là delle previsioni, il Fondo Monetario ha tagliato le stime di crescita, le economie emergenti rallentano e la caduta libera del petrolio non si arresta.
Mister Morgan, un mese fa ci siamo lasciati in un contesto relativamente stabile, con mercati finanziari che riuscivano ad assorbire con facilità tutti gli shock esogeni che tentavano di minarli. Nel frattempo, con tutta evidenza, qualcosa è cambiato. I mercati sono entrati in una spirale di negatività fuori controllo?
«Non penso che stia succedendo niente di eclatante, sui mercati principali è in corso un’importante correzione, è vero, ma il panico su alcune piazze secondarie è fisiologico. La risposta è sempre la stessa quando si verificano certe turbolenze.
A cosa è dovuta questa fase allora?
«Sicuramente stiamo assistendo ad alcuni salti di paradigma in alcuni settori e sopratutto ci sono delle convenzioni concettuali che stanno mostrando la corda».
Ad esempio?
«La Cina. La sua eventuale conversione da economia export led ad un’economia di consumo più simile a quelle occidentali tarda a realizzarsi mentre tutte le stime dei produttori di materie prime sono tarate su una crescita cinese infinita. Il problema è che il calo dell’export cinese non è compensato da un aumento di consumi interni ed i produttori di materie prime hanno produzione in eccesso, non venduta».
Questo cosa comporta?
«La Cina reagisce con svalutazioni valutarie che deprimono i mercati. In pratica la transizione dell’economica cinese si blocca nel momento in cui i salari interni scendono in risposta al calo della domanda mondiale. Old story, valida sempre».
Mesi addietro lei aveva ampiamente previsto lo scoppio della bolla cinese e la serie di svalutazioni che ne sono seguite. Ma sono sufficienti i venti gelidi del Levante a giustificare l’instabilità delle ultime settimane?
«Il quadro complessivo è molto più ampio. L’accordo con l’Iran, necessario, ha rivoluzionato i flussi finanziari ed i rapporti commerciali tra il Middle East ed il mondo occidentale. I paesi del Golfo sono stati per anni esportatori di petrolio ed importatori di armi, lusso e asset finanziari. L’Iran, al contrario, dell’Arabia Saudita è un paese manifatturiero, una sorta di Germania in salsa medio orientale, che di fatto sta sconvolgendo gli equilibri dell’area. L’antichissima strategia del “divide et impera” sta creando molti più problemi del previsto. In questo quadro occorre inserire anche il rialzo della Fed: storicamente un cambio di politica monetaria crea volatilità. Ma sinceramente questo è il fattore che mi preoccupa meno, i tempi di reazione delle banche centrali sono ormai velocissimi e se dovesse persistere una tale instabilità saranno ripristinate celermente le immissioni di liquidità.
Eppure fino a poco tempo fa sembrava che il sistema finanziario avesse trovato un suo definitivo punto di equilibrio…
«E’ vero c’era un eccesso di compiacenza e sopratutto gli operatori finanziari sembravano convinti del fatto che la iper attività delle banche centrali potesse cancellare i rischi reali di mercato. Sì, siamo parzialmente responsabili di questa stortura».
Di recente è uscito nelle sale “The Big Short” che ha avuto un un enorme successo di critica e pubblico. Ci sono similitudini tra questa fase e quella descritta nel film?
Nessuna. Quella è stata un’epoca dominata dalla dimensione commerciale delle banche d’investimento, avevamo perso il controllo perché il controllo del rischio era subordinato ai venditori che erano delle vere e proprie star della finanza. Ora invece abbiamo pienamente riassunto il comando, il problema è che le interazioni globali sono più difficili da gestire.
Un’ultima domanda: come vede la situazione dell’Italia e del suo sistema bancario, che in questi giorni sta provando a reagire ad un duro attacco speculativo?
«La vedo asimmetrica. Con molti, troppi, fondi speculativi che vogliono entrare a sconto su un pezzo di economia italiana. Un grande travaso di ricchezza dall’Italia all’estero. Si parla di 200 miliardi di crediti deteriorati svenduti a 40 miliardi, forse meno».
Vede una via d’uscita?
«Un modo per risolvere la situazione ci sarebbe. Scindere le banche in good e bad, dando però pari opportunità a tutti. Tutti dovrebbero partecipare al banchetto di rivalutazione degli Npl e non solo i soliti, noti, fondi speculativi che ad oggi sono gli unici titolati a comprare e fissare il prezzo. Sarebbe la soluzione più democratica. Da vero statista».

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