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TREDICESIMO-PIANO


sab 8 ottobre 2016

LA QUARTA VIA

"Mi limito a dire che la questione del potere, della conquista del potere, non può essere separata dalla definizione di una nuova egemonia"

Classe 1954, originario di Liverpool, Philip Wade insegna Storia contemporanea al “Birkbeck College” di London City. Cresciuto alla scuola dell’economista italiano Federico Caffè, autore di diversi studi monografici tra cui Comparative Economic Systems ed Europe and Orientalism. Colonies and Protectorates in the Early 19th Century, è uno degli intellettuali più eretici del Labour Party e non fa mistero delle sue simpatie per Jeremy Corbin.
Professor Wade, da qualche tempo sta indagando gli squilibri interni all’Unione europea, prodotti dalla logica neo-mercantilistica tedesca, e interrogando l’incapacità politica di dispiegare un’alternativa allo stato di cose presente. Un’altra Europa è ancora possibile?   
Lo è se le forze che intendono riformare radicalmente l’Unione europea avranno la pazienza di sostenere una lunga guerra di posizione e la forza di occupare “fortezze” e “casematte”: in altre parole, le istituzioni della società civile continentale. Oggi, a sinistra il dibattito – dai toni anche polemici – oppone i sostenitori di una disobbedienza volta a rovesciare il potere tecnocratico, riscrivere i trattati, rifondare le istituzioni, articolare un processo costituente, a quanti vorrebbero rompere l’unità monetaria qui e ora, e lasciare l’Ue. Questa seconda posizione viene riassunta da un nuovo acronimo: il “Lexit”. Ovvero, l’uscita da sinistra.
La sua proposta, però, suona altrettanto irrealizzabile, e anche antiquata, considerando certi riferimenti novecenteschi che è possibile cogliere tra le righe.
Mi limito a dire che la questione del potere, della conquista del potere, non può essere separata dalla definizione di una nuova egemonia. Le forze intolleranti e razziste conquistano il centro della scena attraverso l’imposizione di parole, immagini e concetti, che prima trovano larga condivisione nella società – consideri la pervasività di una formula come “British first” –, e poi riescono a condizionare l’insieme del quadro politico. Pensi ai conservatori inglesi… La permeabilità a questo condizionamento da destra è costata la leadership e Downing Street a David Cameron. E questo non è l’unico esempio. Le stesse banche centrali non sono solo le istituzioni che governano le politiche monetarie. Sono anche soggetti politici o che svolgono un ruolo di supplenza politica. Soprattutto: sono dei potentissimi dispositivi che creano linguaggio e impongono l’ordine del discorso. Se parole come “equità”, “uguaglianza”, “welfare”, “diritti” sono quasi impronunciabili, lo si deve all’interdizione linguistica che alcuni soggetti esercitano. Lo stesso discorso vale per il significato di parole come “austerity”, “vincolo”, “parametri” o “tecnica” che hanno assunto precise connotazioni perdendone altre. Io credo che la battaglia su questo terreno discorsivo, e dunque egemonico, sia cruciale. Al contempo ritengo che, tra la mistica della rottura celebrata da quanti vogliono l’uscita a sinistra e il riformismo radicale degli altri, si apra uno spiraglio: cioè, la svolta del campo socialista e la successiva conquista del potere per via democratica. Corbyn è il leader indiscusso del Labour. Oggi è più forte di prima. La fallita congiura del gruppo parlamentare l’ha rinforzato. Ecco, quello che succede in UK può essere un’avvisaglia. Penso che altri partiti socialisti usciranno dal pantano centrista.
Oggi a Londra, domani a Parigi e Berlino? Secondo lei altri partiti socialdemocratici cambieranno leadership?
Sì, certo. Il Regno Unito è solo un primo passo. Come Tony Blair inaugurò la svolta al centro del Labour-champagne, il partito che – sotto le insegne della cosiddetta “terza via” – si appropriò dei dogmi e degli slogan di moderati e conservatori, compiendo la “rivoluzione conservatrice” inaugurata da Margaret Thatcher, così Jeremy Corbyn può inaugurare una svolta a sinistra del socialismo europeo.
A proposito di Blair… Di recente Anthony Giddens ha rivolto una dura critica a Corbyn, sostenendo che il Labour sta assumendo posizioni legate al passato e a parole d’ordine incentrate sulla nazionalizzazione, quando invece oggi servirebbero proposte animate da un nuovo cosmopolitismo. In altre parole, secondo Giddens, il Labour di Corbyn abiterebbe – anche se in modo non dichiarato – il campo del Lexit.  
Giddens è stato il teorico della terza via. Oggi è completamente spiazzato dalla discontinuità di Corbyn. Tende a enfatizzare, distorcendole, alcune proposte dell’attuale maggioranza del Labour. Per esempio, quella legata alla nazionalizzazione della rete ferroviaria. È un falso problema, visto che la rete ferroviaria britannica meriterebbe davvero di essere nazionalizzata. L’ha detto anche Donald Sassoon. Giddens vede il rischio di una deriva settaria e di un ritorno al passato. Io credo che il passato sia Giddens.
Giddens ha anche pronosticato che la segreteria di Corbyn consegnerà il Regno Unito al partito conservatore per molto tempo.
I pronostici tradiscono un modo d’intendere il futuro e di misurare le possibilità di trasformazione. Giddens non vede alcun futuro perché ha smesso di concepire processi trasformativi che mettano in discussione l’esistente. Oggi la sinistra liberale non è assolutamente in grado d’intercettare la protesta dilagante in Europa. La sua offerta politica è talmente omologata a quella dei popolari e della destra moderata che la domanda di cambiamento si indirizza verso altri lidi. Così, la protesta monta sotto il segno del sovranismo, della chiusura identitaria, dell’intolleranza e perfino del razzismo dichiarato. I socialisti non colgono questa fase di mutazione travolgente in cui le classi si scompongono, i tradizionali blocchi sociali vanno in frantumi, mentre proliferano tanti segmenti comunicanti, gonfi d’insoddisfazione, delusione, rabbia, e soggiogabili da messaggi semplici, trasversali. E cosa c’è di più trasversale dell’inganno prospettico che indica nel migrante il nemico?
Quindi i veri nostalgici sarebbero socialisti e moderati?  
Tutti i malinconici sostenitori del cosiddetto “estremismo di centro”, tutti coloro che ripetono una litania nostalgica e non si rassegnano ai cambiamenti. Il centrismo estremo era il regno delle classi medie. Ma in assenza di una middle class ben definita, solida, garantita da un certo accesso al consumo, difesa nei suoi risparmi e nelle sue rendite virtuose, non può esistere alcun centrismo. La mobilitazione sulle posizioni più estreme rispecchia la frantumazione di certi assetti sociali. I grandi partiti popolari hanno perso il popolo.
Eppure, una parte della sinistra critica rincorre le destre identitarie parlando di riconquista di sovranità su scala nazionale.
Inorridisco quando sento parlare di sovranità, o vedo usare in modo strumentale la categoria di “nazional-popolare”. Sono parole che hanno perso significato, diventando significanti vuoti da riempire all’occorrenza, da usare indistintamente a destra e a sinistra. Sono rifugi in cui celare l’incapacità strategica e la mancanza di visione prospettica, scorciatoie da battere per guadagnare un po’ di consenso.
È indubbio, però, che l’Unione europea si fondi sulla cessione di sovranità e che, fino a oggi, la tecnocrazia continentale abbia prodotto macerie.
Sì, ma siamo fuori tempo massimo, abbiamo superato il punto di non-ritorno. La vera cessione di sovranità si è compiuta: ed è quella dalla politica globale al capitale globale. Parlare di ritorno a sovranità nazionali è inefficace, perché nessun Paese europeo può farcela da solo. I Paesi sovrani rimasti – “sovrani” nella tradizionale accezione del termine – sono Russia, Turchia e Cina… E tutti sappiamo di che democrazie si tratti. Il “Trilemma di Rodrik” è sempre valido: la sovranità nazionale è rivendicabile solo con una massiccia rinuncia alla democrazia, altrimenti l’organizzazione del capitale globale attaccherà e piegherà il Paese “ribelle”.
Chi è il nemico contro cui battersi?
Il nemico è l’archetipo che domina l’Europa: il liberal-xenofobo, colui che accetta supinamente il dominio del capitalismo globale e considera lo straniero come la minaccia per definizione. Occorre rovesciare questo paradigma: è il capitale che crea le migrazioni di massa e deprime il lavoro, ed è il capitale che – circolando selvaggiamente alla ricerca di ecosistemi perfetti e bacini d’estrazione sempre nuovi – devasta l’ambiente, ridelinea gli assetti geopolitici, detta deleteri cambi di regimi in giro per il pianeta. Lo xenofobo liberale non capisce che è proprio l’ottusità della sua ideologia a generare disastri e catastrofi. Concentrato sul sintomo, ignora la causa che lo produce. Le migrazioni di massa sono il motore del tardo-capitalismo: prima, vengono indotte, poi osteggiate. Il costo del lavoro è crollato a causa delle migrazioni e della disperata condizione dei migranti. E se non basta la compressione al ribasso dei salari, i capitali si muovono liberamente dove il lavoro non è regolato e protetto, oppure dove la fiscalità è più generosa e indulgente. Il liberal-xenofobo spesso fa parte della classe media impoverita, ed è tanto vittima quanto portatore di questa visione globale che è la vera trappola dell’Occidente.
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