Decodificare il presente, raccontare il futuro

TREDICESIMO-PIANO


mar 27 ottobre 2015

LA MASCHERA DI HALLOWEEN

TTIP and its discontents

27 ottobre 2015
Prima che la discesa sbocchi a Trafalgar Square, mi fermo. Ai lati dell’ingresso, perpendicolarmente alla scritta “National Portrait Gallery”, scendono i manifesti della mostra Public and Private: Winston Churchill in Photographs. Entro nel piccolo atrio, deserto. Gli impiegati del museo hanno il tempo di accogliermi, sorridere e mostrarmi dove andare.
Cinquant’anni, 1965–2015. Quando Churchill morì, io ero un ragazzino che giocava tra i daffodil nei prati di Liverpool. Nessuno mi chiamava Philip, per tutti ero “Phil”. Avevo un padre che lavorava in cantiere, un working class hero. Ero circondato da povertà, fatica, grigiore. Non potevo sapere che avrei rimpianto il sobrio rigore e il senso di comunità di quel tempo. Era prima che diventassi strategist della grande banca, e molto prima che iniziassi a insegnare al Birkbeck College.
Lungo i corridoi non trovo quasi nessuno. Per questo mi piace andare alle temporanee appena vengono inaugurate. Giusto qualche visitatore solitario, e qualche turista confuso che crede di essere alla National Gallery. Mi incammino tra le fotografie, esposte in una luce perfettamente bilanciata.
Smetto i passi quasi subito, davanti a uno scatto del 1903. C’è già un’indole volitiva,  negli occhi di Churchill. E nelle spalle pare di scorgere la sua fermezza, il temperamento di ferro. Il modo di piegare le labbra è privo di una rigidità costruita. Intorno a me, qualcuno fotografa le fotografie. Mi sembra un’assurdità.
Riprendo a percorrere la sala. Mi limito a un’occhiata, in alcuni casi. Altrove mi soffermo di più. Di fronte a una grande foto, saranno due metri per due, resto come pietrificato. È uno scatto del 1940, Churchill è in un momento cruciale della sua ascesa leggendaria. E si vede quanta energia possiede, per affrontarlo. È rivolto all’obiettivo con la consapevolezza di poterlo mandare in frantumi. Pare esser stato interrotto da qualcosa di davvero importante. Tiene il sigaro tra le dita con leggerezza, mentre sembra vicino a spaccare il legno della sedia su cui poggia l’altra mano. La finezza si mescola alla forza. Inevitabilmente guardo le mie dita, mentre finisco il corridoio e svolto nella sala seguente.
Un colpo di tosse, da qualche parte. Rallento di fronte a un paio di foto belliche. La seconda mi impressiona di più: Churchill passa in rassegna dei soldati sull’attenti nella neve. È il più anziano e il più basso fra tutti gli uomini immortalati, eppure sembra tenere l’intero schieramento dritto solo con lo sguardo. I soldati sono perfetti, nonostante le intemperie. E si direbbe merito di Churchill.
Mi viene da pensare che sia stato un grande statista perché è stato anche un grande guerriero. Che la politica è l’arte del possibile, sì, ma il potere nasce sulla canna del fucile. Power is power. Questo è il senso del Novecento, il secolo breve studiato da Eric Hobsbawm, il secolo che ha trasformato le guerre in rivoluzioni. Il secolo che ho studiato e che insegno ai miei studenti del Birkbeck, la stessa università dove ha insegnato Hobsbawm. Il secolo che non c’è più, come anche la politica, oggi che la vera forza è saldamente in mano a soggetti che nemmeno sono più Stati, e che anzi piegano la sovranità degli Stati. Il secolo da cui provengo, lontano come il tempo ch’è passato, il tempo che oggi fa incombere la vecchiaia sui miei passi, in questo museo.
Poi sobbalzo, a sentire la voce profonda dietro di me: «Un generale. Ha l’espressione di un generale che sa guidare le truppe».
Mi giro, e mi trovo davanti Derek Morgan. Uno che se ne intende, di eserciti e battaglie. Già quando lavoravamo insieme, alcuni lo chiamavano “il Generale” per la sua autorità e per come dirigeva dalle retrovie. Derek, che nella grande banca ci è rimasto, diventando l’uomo più potente del board a New York, mentre io me ne sono andato. Derek, l’uomo nell’ombra, capace di sussurrarti alle spalle senza che tu abbia neanche immaginato fosse lì.
Ci siamo scambiati un paio di sms, qualche giorno fa, quando ero a Roma. L’ultima volta ci siamo incontrati a Venezia, durante la Biennale dedicata a Marx. Derek, dietro di me. È da paranoici, sul serio, ipotizzare che mi controlli? Pare sapere sempre cosa sto facendo, dove sono.
E come se mi leggesse nel pensiero, ora dice: «Sono passato al Birkbeck, mi hanno detto che ti avrei trovato qui». Ma lo dice con un tono ironico, così che la perplessità rimane. E ripete le parole di prima, accennando a Churchill: «Un generale che sa guidare le truppe».
«È stato un grande politico, prima di tutto» riesco a dire. In questa stanza, siamo soli. Vado avanti: «Solo un politico riesce a motivare un popolo, a farlo resistere sotto le bombe dei nazisti».
Derek tiene lo sguardo su una fotografia, dice: «Mi insegni che le guerre moderne non distinguono tra civili e militari…»
Scrollo le spalle. «Hai ragione, ma la frase ha tanti significati. I civili possono essere vittime quanto i soldati al fronte, oppure la guerra cambia segno, diventa guerra di popolo, e allora può darsi che si faccia fuoco sugli ufficiali». E sono io a mettere ironia nello sguardo. Prima di voltare gli occhi allo scatto che guardava Derek: il petto di Churchill che brilla di medaglie, la fronte rigata di pensieri.
Passeggiamo in silenzio, con la stessa lenta andatura, ma tenendoci sempre alla distanza di estranei. Sono io a parlare: «Che ci fai in Europa?»
Lui sembra concentrarsi, in cerca delle parole giuste. «Negli ultimi tempi viaggio molto. Ogni spostamento ne compensa un altro. È la continua ricerca di un nuovo equilibrio.»
Sorrido, ma non mi volto a guardarlo. «Lo chiami equilibrio, il nuovo assetto commerciale del pianeta Terra?»
«Chiamo equilibrio quello che è sempre stato» dice allargando le braccia. «Un nuovo ordine mondiale.»
«È fatica sprecata.» Mi fermo un attimo. «Un equilibrio precario, Derek, sbilanciato di continuo. Un’equazione che non sta in piedi.»
Smette di camminare anche lui, si volta. «Fatica, è vero… Ma non sprecata.»
Mi trema un po’ la mascella. «Solo perché non vedi niente oltre quel gioco di contrappesi. Solo perché non riesci a vedere altro, al di là di voi».
«Non c’è niente, oltre noi.»
Nella foto sul muro, il giovane Churchill è a cavallo. «Tu invece cosa vedi?» domanda Derek.
L’impaccio sulla sella, la poca maestosità dell’animale, contrastano con la determinazione dello sguardo di Churchill. Faccio un sospiro, e dico: «Primo: escludere la Cina da una rete di accordi bilaterali nell’area del Pacifico col marchio USA sopra. Questo in pratica l’avete già fatto, e lo avete chiamato TTP». Nella foto Churchill tiene saldamente le redini, e sembra pronto a impugnare la spada sul fianco. «Secondo: accordo bilaterale con l’Europa, il TTIP. Questo dovete ancora farlo. E tu sei a Londra, quindi ci stai lavorando. Magari per spuntare condizione migliori ai Tedeschi. E se non accettano con le buone…» Lascio la frase in sospeso. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Il rimando alla possibile trade war in corso tra le due sponde dell’Atlantico è chiaro.
Derek rimane impassibile, lo sguardo perso in un’altra foto di Churchill. Poi dice: «Ha inventato lui la formula “cortina di ferro”.»
Annuisco. «Da allora i nemici sono cambiati.»
«Ma la guerra continua. Basta trovare un nuovo nemico.»
Io apro le mani, i palmi verso l’alto. «Con cui combattere prima, e accordarvi dopo, magari. E chissà che il TTIP non vi faccia trovare la quadratura del cerchio…» Nello scatto che Derek fissava, ci sono Churchill e i compagni con cui è rientrato dal Sudafrica, nel 1900.
«Sosterrete le politiche neo-mercantiliste di alcuni Stati europei e asiatici che considerano gli USA come il mercato principe. E sosterrete le platform companies americane che non esportano e si insinuano nei Paesi che glielo permettono, senza doversi preoccupare di ingerenze politiche» considero con voce piatta.
Derek ricomincia la quieta passeggiata, quasi non sento la sua risposta: «Sarebbe un prestigio».
Allora mi metto a camminare anch’io, senza accelerare, gli faccio arrivare le parole alle spalle: «Per adesso è solo un segreto, contenuti e dettagli usciranno solo a ratifica avvenuta. Comunque il prestigio, come lo chiami, può anche essere l’innesco di un’esplosione». Rallento, di fronte a un’altra foto. «Intanto l’Europa dipende dalle esportazioni negli States molto meno di quanto dipenda l’Asia.» Churchill è elegantissimo, contorniato di militari, in un campo. «E poi il TTIP sta diventando un simbolo per i movimenti europei di protesta. Ci saranno continue manifestazioni di piazza, a ridosso della firma del trattato. Lavori per incendiare il continente, Derek. E lo chiami “equilibrio”.» Gli uomini intorno a Churchill sembrano aspettare un ordine, mentre lui non bada a loro.
«Sopravvaluti il peso di certe variabili, Phil.»
«Forse sì, ma qualsiasi travestimento può essere smascherato. E i vostri accordi commerciali rimangono inganni. Regalano il mercato americano a esportatori di prodotti che gli Stati Uniti non producono più. In cambio, riscrivono le regole del commercio e modificano le costituzioni a vantaggio delle platform companies, regolano il copyright sui prodotti farmaceutici, tutelano le corporation da ogni variazione politica interna ai Paesi, dollarizzano ancora di più la finanza mondiale. Derek, il TTIP ci condurrà a un’altra Genova. Diventerà l’icona del male per tutti i movimenti». Suona un allarme nella sala, fortissimo, poi tace subito. «I chiari di luna li vedi in Germania, dove una classe politica neo-mercantilista è pronta a firmare il trattato ma si scontra con la coscienza ecologista dell’opinione pubblica. In Europa non funziona come nel Pacifico, dove i Paesi non possono resistere perché le esportazioni in USA sono l’unica fonte di crescita economica. Gli europei si batteranno.» Mentre costeggiamo la parete, una foto mi distrae: Churchill è su un’imbarcazione, accanto a una donna che tiene una scimmia fra le mani, ed è evidentemente un momento di relax ma anche lì dà l’impressione di governare qualcosa.
Derek si schiarisce la voce. «Voi europei avete perso così tante guerre… Avete perso anche quando avete vinto». Fa una pausa, accenna allo scatto che mi ha distratto. «E poi di Churchill non ce ne sono più.»
Il corridoio è finito, la mostra si conclude. Io e Derek camminiamo verso l’uscita del museo. E poi, ci ritroviamo all’esterno. Stringo gli occhi per abituarmi alla luce filtrata dalle nuvole. Un paio di alberi si lasciano vedere nudi senza quasi più foglie. Il freddo dell’autunno londinese deve pungere Derek, anche se non lo dà a vedere. Il grosso cappotto che mi protegge, lui lo troverà un po’ patetico. “Di sinistra” direbbe. Ma non dice niente, nella sua camicia bianca sotto la giacca, senza soprabito, come si usa nella City.
Dall’altro lato della strada, in un negozio vendono maschere e mantelli per bambini. «Tra qualche giorno è Halloween» considero a voce alta.
«Una storia americana che vi piace» risponde con un mezzo sorriso.
Allora lo guardo. «Posso raccontartela io, una storia?»
«Ti ascolto.»
Metto le mani nella tasca del cappotto. «L’ho sentita da Paul Farradock, quando lavoravamo insieme, in banca. È la leggenda di Jack O’ Lantern» dico. Non ha alcuna reazione, così vado avanti: «Parla di un vecchio fabbro irlandese che sorseggia una birra al pub e si vede arrivare il Diavolo che vuole la sua anima. Il fabbro Jack gli chiede un’ultima bevuta prima di seguirlo, e Satana accetta: si trasforma in una moneta da sei pence per pagare l’oste, e Jack mette la moneta in tasca, accanto a una croce d’argento. Per questo il Diavolo non riesce a tornare alla sua forma, e il fabbro strappa un altro accordo: gli restituirà le fattezze, a patto che non reclami la sua anima per dieci anni. Ma trascorso quel tempo, Jack riesce a rimandare ancora la cessione dell’anima. Poi Jack muore e non viene ammesso nel Regno dei Cieli. Va a bussare all’Inferno, quindi, ma anche Satana lo scaccia, lanciandogli un tizzone ardente.» Faccio una pausa, sollevo il bavero del cappotto mentre il vento si alza. «Il fabbro protegge quel tizzone sotto una rapa, per potersi far luce. E da allora vaga in attesa del Giudizio. Nel tempo, la tradizione ha trasformato quel tizzone in lanterna e quella rapa in zucca, ed eccoci ad Halloween, storia d’origine europea…»
Restiamo in silenzio. Il vento soffia tra i rami degli alberi, mentre le auto e i turisti scendono verso Trafalgar.
«Immagino che dovrei intuire una morale.»
«È semplice, Derek» rispondo. «Jack, il fabbro, è l’Europa. Il Diavolo è chi tenta di costruire l’equilibrio di cui parlavi. L’unica possibilità per l’Europa è guadagnare tempo, con stratagemmi sempre diversi, per sfuggire a un patto mortale.» Con voce più bassa aggiungo: «A un patto col diavolo».
Derek si guarda intorno. Sul viso, un’espressione indecifrabile. «La Storia non si fa con le favole, Phil.» Solleva una mano per chiamare un taxi.
«Ma le favole, come le storie, hanno un grande potere.»
Ancora qualche attimo di silenzio. «Devo andare.» Mi guarda, con la calma negli occhi.
Poi ci voltiamo insieme verso il lato opposto della strada, dove un bambino batte i piedi piangendo. La madre prova a convincerlo a entrare nel negozio per scegliere un costume. Ma quello recalcitra, come se non capisse il gioco delle maschere.

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